N.02
Marzo/Aprile 2003

Famiglia e giovani in un mondo che cambia: come comunicare il Vangelo della vocazione?

Vorrei iniziare fissando l’attenzione su alcune problematiche dell’esistente, che vengono ad interferire in maniera, a mio avviso, forte, per ciò che riguarda il nostro tema. Lo facciamo senza animosità e pessimismi, con l’animo distaccato ma veramente pensante.

 

Fra il tramonto e la frantumazione di un’epoca urge ricentrarsi su un altro cardine: ripartire dall’Annunciazione

Ormai esistono dappertutto due città. Quella del proprio percorso abituale: amici, familiari, parenti, vicinato,… e quella sconosciuta, che si guarda dai finestrini della propria auto o dalla finestra della propria casa, ossia tutto ciò che ci è diventato estraneo, perché fatto dal diverso. Due città che, nello stesso spazio urbano e suburbano, vivono la cultura del conflitto, che provoca sgretolamento del tessuto sociale, che moltiplica il timore, la solitudine e l’anonimato. Sbiadisce la propria identità ed appartenenza, creando insicurezze e paure. Le città ed i centri abitati non sono forse nate per far fronte a problemi comuni con valori condivisi, che da sempre devono regolare la coabitazione, proprio per essere solidali? Se il legame sociale è ammalato è perché siamo ormai legati ad una specie di sorda lotta all’esclusione: gli “inclusi”, cioè le persone socialmente integrate da una parte e gli “esclusi” dall’altra. Ma, oltre a queste immediate impressioni, chi sono veramente gli “inclusi” e gli “esclusi”? A ben guardare, mi sembra, che gli effetti di questa lotta, più o meno esplicita, stiano ricadendo sulla stessa prima città, quella sicura del proprio percorso abituale, creando, anche al suo interno, frantumazione e violenza, in particolare su quelle realtà che ci stanno decisamente a cuore: i ragazzi, i giovani, le famiglie, l’insieme delle persone, circa il senso della vita e della vocazione. Credo abbia impressionato tutti il 36° rapporto Censis, con l’ultima fotografia della nostra Italia, rapporto uscito appena un mese fa. Davvero una bella cartolina: bei borghi antichi, cibi prelibati, vestiti eleganti, tanto da destare invidia ed ammirazione all’estero. Ma il retro della cartolina, in forte chiaroscuro, è decisamente preoccupante: un’Italia con le pile scariche, che non sa più progettare il futuro e rischia la deriva. Un quadro per nulla incoraggiante ed una diagnosi che esprime rinuncia e frustrazione. Un paese di edonisti e di chiacchieroni, che solo quest’anno ha speso ben 271 miliardi di euro per beni di piacere e per cose superflue. Un’Italia che sembra immobile, ripiegata su se stessa, in fase di galleggiamento sullo stagno dell’inerzia. Ci sono poche speranze, e c’è poco lavoro. Un paese che ha incassato troppe illusioni e perciò si è rifugiato nel mito del buon vivere e dello star bene, fine a se stesso. Una società, intesa nella sua dimensione più vasta, che sfrutta i giovani e le famiglie, come manichini della pubblicità e consumatori di “griffe” e di oggetti e non pone quasi attenzione ai bisogni più profondi, anzi ne crea continuamente degli artificiali. E così, per fare affari, banalizza i sentimenti, come quando propone un gelato, invece che una ragazza o un’automobile, come oggetto da amare o intasa gli spettacoli ed i reportages televisivi di violenze e di soddisfazione di ogni impulso egocentrico, chiedendosi poi, attonita, come evitare comportamenti estremi, soprattutto dopo shockanti fatti di sangue nella stretta cerchia familiare. Una domanda che esprime ingenuità ed ignoranza sociale per i veri bisogni profondi delle persone. Oggi, più che le dittature politiche, fanno paura le dittature dei “mass media”, che, forse e senza forse, sono peggiori, perché ci rendono tutti passivi e non ci permettono più di pensare con il nostro cervello. Infatti oggi non si produce tanto creatività ma soprattutto conformità, perché tutto, per essere accettato, deve essere riproducibile. Chi si preoccupa di insegnare la creatività?

E così, all’interno della stessa famiglia, ragazzi e giovani si sentono come degli alieni. Essi vivono una maturazione intellettuale con forte anticipo e divario, rispetto a quella affettiva, mentre la tensione educativa nei loro confronti è soprattutto lo studio, il successo scolastico, la musica e lo sport come espressione ed esposizione narcisista da vetrina. È interessante anche qui il rapporto Censis sulla condizione giovanile. Questa fa i conti con l’assenza di padri e maestri. Pertanto, la gerarchia dei modelli, cui i giovani si rivolgono, è ispirata a ciò che offre la TV, fonte dei principali miraggi e di quasi tutte le loro ambizioni. Sta aumentando spasmodicamente in loro la partecipazione a concorsi di bellezza e talent show, selezioni alle quali i giovani si stanno recando in massa: in 22mila per Miss Italia; 6mila per diventare Veline; 26mila e 36mila per entrare nelle cosiddette scuole alla “Operazione Trionfo” o “Saranno Famosi”.

Un numero che supera di molto quello dei concorsi pubblici. In compenso il 70% non sa indicare un modello di vita da imitare, mentre il 40% nutre grande fiducia solo nella tecnologia e nella televisione. Insomma, una specie di “morsa di vuoto” che li attanaglia. Il 98% dei giovani afferma di non avere fiducia in nessuna istituzione: né civile, né laica, né religiosa, anche se afferma di amare la famiglia come nido protettivo. Una condizione di emarginazione sociale ed autoemarginazione ecclesiale, con la figura del padre, che è ormai in crisi perenne, tipo più affettivo che etico, un compagnone iperprotettivo dei figli oppure un padre che non c’è e anche le madri sono andate a lavorare, perché c’è bisogno o perché rende di più in termini di stima sociale e di guadagno. Per cui, alla fine, le motivazioni di spontaneità affettiva rimangono le uniche e la famiglia affettiva di fatto risulta una specie di prigione per il figlio, con la casa, come appartamento rifugio in un mondo freddo ed estraneo ai giovani, ai quali viene a mancare un’immagine della vita adulta, con cui identificarsi. Noi adulti sembra che non ne abbiamo ancora preso atto. Ma anche la stessa Chiesa ne ha preso atto? Da una parte li soffochiamo di cure ossessive, perché li abbiamo più idolatrati che amati; dall’altra li abbandoniamo in quello che è più indispensabile e che si trova nelle forti esigenze scritte nei loro cuori, perché, forse, siamo troppo indaffarati e spesso assenti.

Il cambio adolescenziale, che avviene nella persona del/la ragazzo/a, dovrebbe far cambiare la famiglia e la società. Oggi abbiamo una trasformazione del percorso adolescenziale, che rende più problematiche le relazioni educative e che esige dei modi nuovi di vivere la paternità e la maternità. Per troppi giovani l’unico modello di riferimento è ormai solo più se stessi e l’autonomia è diventata la parola chiave dell’esistere. Sono indistinti, seriali, presentisti e con poca memoria. Il muro di divisione, che s’innalza tra noi e loro, lo vedono tutti, anche se nessuno può toccarlo; è diventato imponente, quasi insuperabile. Separa gli adolescenti dal resto del mondo.

Per intuirne la consistenza, basta guardarli negli occhi: sono persi nel vuoto, come se fissassero continuamente una parete di mattoni. Da bambini essi sono terra di conquista sia economica che sentimentale, rendendoli viziati, incontentabili e capricciosi. Da ragazzi diventano chiusi ed insolenti con addosso il terrore di diventare grandi. Arrivati a 11/12 anni, entrano nell’internazionale giovanile: un mondo di adolescenti e di giovani con i propri costumi, un proprio abbigliamento, dei propri valori, rituali, capi carismatici, eroi. L’adolescente si trova improvvisamente impegnato a confrontarsi con ciò che esiste al di là della barriera corallina del narcisismo familiare. E, nei casi in cui l’adolescente non riesca a sostenere la funzione introspettiva, perde il contatto con la realtà interiore e non riesce più a capire chi sia e cosa voglia e neppure cosa realmente tema. Diventa un nomade: viaggia anche in se stesso, grazie ai vari tipi di droga. Si affida e si annulla nel gruppo, che diventa un antidepressivo ed un antidolorifico. Usando il look contro la paura del caos. Giovani in parcheggio: una generazione ferma in attesa: non ha rinunciato ai sogni, ai progetti, alle speranze. Semplicemente non sa dove trovarli, tesi come sono i giovani ad adattarsi alla realtà più che a trasformarla. Adolescenti e giovani come sopra un palcoscenico con i riflettori puntati addosso, orgogliosi della loro parte, salvo poi a crollare di fronte all’esame della profondità: comprano, usano, godono e gettano. Si sentono caricati di un ruolo da recitare. Sono istupiditi? Sbrigativamente rispondiamo così. No, questi sono solamente dati di cronaca e di statistica. La verità è che essi sono solo lontani, molto lontani. Milioni di giovani si sono messi fuori gioco, perché non accettano questa società. Non solo sono diversi ma del tutto inediti rispetto al passato. Di fronte a questo qualcuno è arrivato persino a pensare e ad affermare che magari i giovani non esistono, che sono solo un’invenzione dei sociologi, dei giornalisti, degli uffici di marketing. Bambini fino a 12 anni; ragazzi per sempre.

Ci chiediamo: esiste un nucleo centrale da cui dipende questa frantumazione? Non sarà che nel nostro mondo ci sono troppi parallelismi per ogni realtà ed istituzione? Tutti affermano che la famiglia è importante ma sono pochi che s’interessano veramente e profondamente ad essa. Chi si interessa di più è la pubblicità, usando la coppia e la famiglia come manichino del lancio sul mercato dei prodotti da vendere. Ma se la coppia scoppia, perché non sostenuta e non integrata, cosa ci resta della famiglia?

Oggi la famiglia è esposta ad attacchi massicci, che ne minano l’essenza. All’interno, dal divario generazionale, che rende molto spesso quasi impossibile la relazione tra figli e genitori, e dal mutuo estraniarsi degli sposi. All’esterno, dalla sottovalutazione sociale, espressa nell’infedeltà come ideale, nella infertilità come liberazione, come se un figlio rappresentasse un ostacolo al benessere individuale e allo sviluppo personale e sociale dei genitori. La crescente dipendenza dal denaro ed il potere, dato al denaro stesso, diffonde e moltiplica anche nella famiglia l’avidità priva di ogni pietà. Si vive di conseguenza nella società dei ghetti dorati e dell’indifferenza. Tanti sono gli adulti, che credono che la vita sia bella solo quando non ci sono conflitti e problemi e che fanno di tutto per azzerare ciò che ostacola il quieto vivere. Ma dar addosso alla famiglia, facendone il capro espiatorio di tutto, è facile e vigliacco: un alibi per tutti gli altri. Non facciamo anche noi abbastanza sovente così?

La Chiesa si presenta ed intende essere considerata come la casa della risposta al senso della vita, perché, come ogni religione, scommette su quelle due dimensioni fondamentali che sono l’amore e la morte e perché si poggia ed annuncia quell’unico fondamento saldo, principio e sostegno di tutto, che è la vicenda di Gesù di Nazareth risorto, ma c’è seriamente da domandarsi quanto incide sulla vita dei nostri contemporanei, oltre l’apparato istituzionale, con cui si presenta nella nostra società ed oltre gli indicatori della fede sociologica. Più del 90% degli italiani dice di credere in Dio ma c’è veramente da chiedersi in quale Dio si continua a credere, un Dio indistinto, lo stesso di tutte le religioni, se nel Dio soprammobile delle grandi occasioni; nel Dio che si racconta ai bambini, come una bella favola e poi nella vita adulta non serve più; nel Dio che, se c’è, non tocca la nostra vita; nel Dio melassa psichedelica della New Age e delle sette, sempre in ricerca di benessere fisico ed emotivo; oppure nel Dio del Signore nostro Gesù, che ha la pretesa di toccare ogni angolo e dettaglio dell’esistenza? Abbiamo per lo più un cristianesimo disincarnato, chiuso nel privato. Un cristiano “decaffeinato”, che conserva l’aspetto, il sapore e che riesce anche ad ingannare. Riesce a farsi ritenere cristiano, mentre, in fondo, a volte è pagano e altre volte scettico. Sottoposto all’esame del dolore, dell’opzione di coscienza, della prova, risulterà un trucco della chimica religiosa.

Il Concilio è stato una bussola importante per il cammino di fede di tutti i credenti, rilanciando le potenzialità enormi del cristianesimo, ma, dopo 40 anni, dobbiamo ammettere che molte cose rimangono difficili da immettersi e affermarsi nella vita delle comunità cristiane, per cui la modernità e l’attualità del Vangelo non viene percepita. E noi preti e consacrati dove siamo in tutto questo? Siamo anche noi disincarnati o rintanati? Che responsabilità, non sensi di colpa, avvertiamo di fronte ad un quadro di questo genere? Occorre ripartire dai fondamenti, ma come? Tutto questo che ricadute ha su quelle tre realtà, che ci interessano particolarmente: le famiglie, i giovani, le vocazioni?

Da una parte, a mio modo di vedere, c’è una forte ripresa – almeno come preoccupazione e tentativi – della Pastorale Giovanile ma poi, di fatto, questa si riduce a delle occasioni, vedi le grandi convocazioni a livello mondiale o diocesano ed essa continua a volere privilegiare quasi esclusivamente i giovani, tralasciando fanciulli, preadolescenti e adolescenti. E, per non dispiacere a nessuno e per non perdere quei pochi, si abbassa il livello dell’impegno e si annacquano le esigenze, tollerando che vengano mescolate con mode e comportamenti, che di evangelico hanno proprio nulla. Inoltre la Pastorale Giovanile troppe volte propone solo nicchie protettive del tempo adolescenziale, come se si fosse rassegnati all’incapacità di introdurre alla responsabilità della vita adulta. 

Circa la famiglia, credo che si dia ancora per scontato e presupposto che essa continui ad essere un’istituzione robusta, sulla quale si può fare affidamento, come nel passato. Di conseguenza, la preoccupazione emergente è più sulla linea della morale familiare da custodire che sul versante della famiglia da proteggere, da educare e da salvare. Così abbiamo come una divaricazione a forbice sempre più accentuata tra ciò che la Chiesa si aspetta ed esige nei riguardi della famiglia e ciò che, in realtà, la famiglia vive. Una famiglia che non si sente compresa nella sua fragilità (continua il dato che 8 matrimoni su 10 si frantumano entro i 10 anni di vita della coppia) e quindi una famiglia poco aiutata nel franamento della sua istituzione. Occorre dire, in questo contesto, che le comunità cristiane sono poco fraterne, perché comunità di singoli e non di famiglie, con una pastorale per lo più centrata sui singoli come individui senza il proprio contesto vitale familiare. Avvertiamo nell’insieme quello che diceva don Mazzolari: La corrente dello sviluppo moderno non passa più dalla Chiesa: ogni cosa si evolve, come se il cristianesimo fosse il cammino verso un “paese immaginario”[1].

Tutte queste frecce problematiche dell’esistente come vanno a conficcarsi nel cerchio di puntamento del tiro a segno della Pastorale Vocazionale locale della parrocchia e del territorio? C’è il forte rischio, infatti, da una parte, di fronte a questa realtà, di fermarsi alle problematiche immediate, considerando quindi la Pastorale Vocazionale come una raffinatezza, che, per il momento, non ci può interessare e, quindi, non si può attivare, presi come siamo dal resto. Per questo, di fatto, si continua con l’atteggiamento della delega agli incaricati diocesani del Centro Diocesano Vocazioni, oppure ci si impegna in una Pastorale Vocazionale, che non tiene conto del contesto; perciò va a rischio di decimare risorse e fatiche apostoliche. Certamente rimane un dato incontestabile: in tutti questi anni abbiamo gettato molti semi ma sono nati pochi alberelli. La cultura generale svalorizza di fatto questi tipi di scelta di vita. La socializzazione permissiva in famiglia non mette nell’orizzonte esistenziale questa possibilità. La società del figlio unico ed una pedagogia cristiana debole verso gli adolescenti e gli adulti; la crisi dell’immagine del prete e dei consacrati, che si respira ormai come uno smog nauseante in giro, crisi gonfiata dalla pubblicità degli scandali; il crollo del loro status come persone sacre degne di rispetto per la loro consacrazione; il concentrarsi più sul servizio, che essi sono chiamati a rendere, più che su ciò che devono essere come persone per vocazione; tutto questo rende ancora stagnante un vero discorso ed impegno vocazionale. La tanto sospirata cultura vocazionale non si può dire ancora germogliata nel terreno del nostro tempo.

Di fronte a questa situazione non ci sono che due soluzioni: o tutti quanti ci permettiamo di andare alla deriva, chiudendoci ancora di più nel guscio di noi stessi, lasciandoci incoscientemente o furiosamente andare sempre più verso un affondamento, che è la disintegrazione, lo sfaldamento, lo spappolamento di tutte le relazioni umane, sia a livello personale che civile, politico ed anche ecclesiale; un fondo come consumazione di un universo di relazioni significative, con una sofferta incomunicabilità tra tutti, non mai sperimentata prima di ora. Questa disintegrazione è propriamente la fine di un mondo, in cui l’uomo civilizzato delle grandi metropoli ricade nello stato selvaggio, cioè in uno stato di isolamento. Forse è giunto il tempo di reinterpretare l’Occidente come luogo ed epoca del tramonto di tutte le culture storiche, le quali, proprio tramontando, sono chiamate a trasfigurarsi per un processo di unificazione dell’umanità intera. Tutto si mescola nel Grande Tramonto: in parte si annulla e in parte si trasforma. L’Occidente è il luogo ed il tempo in cui tutte le storie, incontrandosi e scontrandosi, sono costrette a ricominciare. C’è un uomo inedito che vuole emergere dal tramonto di tutte le nostre raffigurazioni storiche precedenti. C’è un Nascente, un Uomo Nuovo, che geme nei travagli “tecnici” occidentali. Alla Grande Sera deve succedere il Nuovo Mattino.

Ed allora, qui, abbiamo la seconda possibilità: un urlo di sirena, meglio, un grande grido nella notte, che chiede, preponderante, la sveglia. Ma, per accettare lo svegliarino, occorre che ci sia un qualcosa che ci assicura che ne vale la pena. Non serve più solo incassare schiaffoni di rimbrotti e di sensi di colpa. Non serve nemmeno, per darci una mossa, il lasciarci proiettare in visioni ottimiste da voci mielose con tanti bei colori, che vorrebbero persuadere a chiudere gli occhi sulla realtà pesante, che è la nostra e che ci tocca vivere. Tutto questo l’abbiamo già sperimentato fallimentare. Quali vedute allora trasmettere oggi? Quali maestri ci vogliono per questi tempi? Chi ha voglia di ripartire?

Occorre invece ripartire da un qualcosa di antico, ma che rimane per sempre la porta del nuovo. Ripartire dall’Annunciazione (cfr. Lc 1,26-38). È proprio questa pagina del Vangelo, trita e ritrita a dismisura, e che perciò si presenta a prima vista sterile e consumata, è proprio questa pagina, che può diventare la carta di navigazione e la grammatica del nostro vivere e del nostro annunciare oggi ed in futuro. Perché questa pagina contiene uno dei più grandi incoraggiamenti di Dio per tutta l’umanità. Dio, che non ha assolutamente abbandonato l’umanità alla sua deriva, ci assicura come sia possibile ricominciare e ripartire per creare un mondo nuovo, una società nuova, una varietà di comunità ecclesiali nuove, una pastorale ed animazione giovanile, familiare, vocazionale nuove. Questo dell’Annunciazione diventa allora il cardine nuovo su cui poggiarci e ripartire. Vedere e giudicare l’esistente è un buon punto di partenza ma può rinchiuderci semplicemente nel pessimismo o aprire una via di fuga nell’illusione ingenua del far finta di niente, per continuare nelle nostre modalità standardizzate. Occorre ricentrarsi su un altro cardine e questo consiste nel ripartire dall’Annunciazione, in risposta a quel come, che tanto ci preoccupa. L’Annunciazione è infatti l’estasi di una storia, che può uscire finalmente dalle nebbie dello stereotipo e del mito dell’eterno ritorno e del nulla di nuovo sotto il sole; esce dalla non speranza e dal giro dei dominatori/sfruttatori e degli oppressi/sfruttati di turno; si illumina di un altro sole, di un altro vivere, che l’umanità da sola non si può dare.

 

Tre parole per comunicare oggi il Vangelo della vocazione

Comunicare: come? È il vero grattacapo di noi credenti soprattutto in questi anni. Quali parole usare, visto che il vocabolario “clericalese” sta diventando una lingua sempre più incomprensibile, riservata agli addetti ai lavori e, anche se ancora molto usata, sembra destinata a diventare una lingua morta. Che stratagemmi utilizzare, per captare almeno un decimo di attenzione dei nostri contemporanei, ipnotizzati dalle sofisticate maestrie comunicative della pubblicità e dei “mass media”? Problemi seri e preoccupanti questi, certamente. Ma la cosa più certa, che rimane al di là di tutto, è che la nostra missione consiste nel trasmettere un dono, che abbiamo ricevuto, senza però mercificarlo, cioè senza misurarlo in base al successo che ottiene. Infatti il Vangelo non deve percorrere la traiettoria dei prodotti comprati e venduti, né essere pesato quantitativamente in base all’audience, che riesce a suscitare. Non è accettabile e nemmeno pensabile uno stile di evangelizzazione dominato dalla logica dell’apparire, dell’efficienza, del consenso o dalla volontà di creare situazioni, in cui la Chiesa conti e condizioni la società. Questo contraddice al Vangelo e, dopo i primi successi, si risolve nel rifiuto degli uomini e non può fare altro che accrescere la sindrome ed il senso della nostra incapacità. In vasi di argilla si è sempre custodito gelosamente il prezioso dono del Vangelo e si dovrà continuare a custodirlo così. Ed è proprio la pagina dell’Annunciazione a mettercelo plasticamente in evidenza. Noi, con tutta la nostra “giustizia” ed il nostro darci da fare siamo ridotti troppo spesso alla sterilità di Elisabetta ed alla sordità di Zaccaria. Tre parole vengono comunicate nell’Annunciazione, ma esse giungono dall’alto, non dagli alambicchi dei cervelli umani e della tecnica. Per questo esse ci appaiono, immediatamente, fuori luogo e fuori contesto, rispetto ai nostri problemi. Eppure, mi sembra, sono le tre parole fondamentali, per poter comunicare anche oggi il Vangelo della vocazione. Sono, infatti, le tre parole della comunicazione della vocazione di Maria, che resta la vocazione paradigmatica per ogni altra vocazione sulla terra. Questo significa che le tre parole in questione mantengono tutto il loro valore anche per noi di questa nostra epoca. Tre volte parla l’Angelo: una parola di gioia, “Kaire”; una contro la paura, “Non temere”; un’ultima parola, perché ci sia vita nuova, “lo Spirito Santo verrà e sarai madre”. Fermiamoci brevemente su di esse.

 

Kaire” nei nostri silenzi

La prima parola è “Sii felice, Maria, perché sei piena di grazia”, cioè, perché Dio ha posto in te il suo cuore. L’Angelo non dice: “Fai questo, o quello, prega, vai a…, …” ma semplicemente: “Gioisci, Maria!”. Riconosciamo che la tenaglia dei problemi del nostro tempo ci ha, per lo più, tolto la gioia e, il più delle volte, ci ha buttato in uno stato di demoralizzazione e di depressione, che ci ha spiazzati e ci ha ridotto ad un silenzio di tristezza e di imbarazzo. Tante paure e tanto smarrimento: siamo tutti ammalati di paure e rattrappiti nelle incertezze e nelle delusioni. Ma non è possibile annunciare il Vangelo, la lieta notizia per eccellenza, in uno stato di depressione. Sarebbe un controsenso! Già don Mazzolari si chiedeva: “Come mai nel volere il bene ci facciamo tanto male? Ci deve essere un fermento che lo guasta e ci guasta”[2]. Questo cattivo fermento è proprio la tristezza e lo scoraggiamento. Noi siamo annunciatori credibili, solo se siamo ricolmi di gioia. Non di euforia chiassosa o insulsa ma di gioia profonda. La Chiesa dovrebbe essere la comunità, nella quale la gente può scoprire la gioia di Dio nei suoi riguardi. Una gioia che ci rende, di conseguenza, delle persone appassionate di tutto ciò che viviamo, siano essi momenti cosiddetti felici, sia momenti impegnativi, siano circostanze sofferte. Dobbiamo scoprire i semi di gioia, che Dio ha piantato in noi e che, troppe volte, rimane come un filo d’erba ingiallito sotto il masso di tutto ciò che avvertiamo come un enorme peso. E dobbiamo scoprire e segnalare le tante radici di gioia semplice, che permangono, nonostante tutto, nel cuore della gente. Se ci sta veramente a cuore la gioia, allora dovrebbe preoccuparci la felicità degli uni verso gli altri. La felicità dei consacrati e dei presbiteri dovrebbe costituire la prima preoccupazione dei Vescovi e dei Superiori, come dei confratelli e delle consorelle. La nostra gioia non è solo un problema strettamente individuale e privato, perché è parte intrinseca del nostro annuncio evangelico e vocazionale.

I giovani e le famiglie, per crescere nell’amore e maturare la loro vocazione e renderla sempre più profonda, hanno bisogno della testimonianza forte della nostra gioia. Nel Far West della felicità attuale, creata dalla tecnica, dal consumismo e dalla burocrazia di questi tempi, si è riusciti solamente a produrre un’umanità di ghiaccio, con il messaggio assordante dell’unico modello in voga, fatto di cure di bellezza e di possesso egocentrico. Per giungere alla felicità, oggi infatti è molto diffuso il complesso di Peter Pan, cioè il tentativo spasmodico di volere restare sempre giovani e adolescenti, attraverso un largo uso di cosmetici e le cure di bellezza, considerata il nuovo oppio dei popoli, un abito da indossare, per non pensare alla tragicità del mondo e volere avere quello che non si ha, attraverso una metamorfosi continua del proprio aspetto e look. E, per di più, con un consumo privato, che si limita ad essere felici di qualcosa, che altri non hanno, ognuno chiuso nel suo muro di cinta. In questa situazione noi siamo chiamati, per prima cosa, ad essere sinceramente gioiosi della vita, delle scelte fatte, del nostro tempo, e non per chissà quale sforzo perfezionista, ma perché c’è Dio, non è lontano, è in noi, nel profondo del nostro cuore e perché ci chiede, per tutte queste cose, di essere felici, prima di tutte le altre risposte e prima di tutti gli altri impegni e programmi. E la Chiesa che ha il deposito ed il carisma della gioia, deve annunciare un’esistenza alternativa; di fronte al fatto che la gente non è contenta, non basta sviscerare i problemi, occorre risolvere il problema più forte che è quello di trasmettere gioia. Il cristianesimo nel suo profondo è gioia, gioia di ricevere e di dare: sono stato donato a me stesso e la mia esistenza è un regalo di gioia agli altri. Anche a contatto con l’immancabile sofferenza e dolore, Cristo ci apre la porta della gioia e si fa solidale con il nostro dolore. Davanti vediamo tutte le situazioni più aberranti, c’è l’angoscia e la morte, che sembrano far frantumare ogni ottimismo ma la certezza è che, alle nostre spalle e dentro di noi, c’è la gioia, l’amore onnipotente del Padre, che fa andare oltre.

Ma ci sono tanti problemi e anche molto grandi! Tuttavia nessuno di essi è più grande del dono e dei doni di Dio e nessuno di essi ha il diritto di portarci via la gioia. Dunque, la scarsità della gioia e la mancanza della gioia sono il primo contraddittorio al come annunciare. Tutte le nostre efficienze ed iniziative per i giovani, le famiglie e le vocazioni, senza la gioia, sono delle mine antiuomo, che scoppiano sul più bello delle nostre fatiche, distruggono o rendono inutile il nostro impegno e si riducono, come tanta pastorale, ad astrattezza e moralismo. E, oggi, occorre dirlo con forza, abbiamo tanti impegni, forse troppi, ma pochissima gioia e, di conseguenza, ridottissima creatività e fecondità.

 

“Non temere” nelle nostre domande

La seconda parola è “Non temere, Maria!”. Un’espressione questa, che nella Bibbia si ripete ben 365 volte, quasi un invito per ogni giorno dell’anno, come se si trattasse del pane quotidiano. Sentiamo che è la parola, di cui abbiamo sommamente bisogno. Con sgomento ci chiediamo che cosa sta succedendo nel cervello di tanta gente: abbiamo un ottimo livello di vita, al quale non manca nulla ed insieme abbiamo tanto odio e disamore per la vita. La persona del nostro tempo si trova di fronte a molte proposte di vita e tende a consumarle tutte, senza viverne alcuna, disperdendosi in una confusione, da cui è difficile ritrovare il bandolo ed il senso.

Sono tante le domande, che si continua a fare la gente. E tante sono le domande, che ci lanciamo anche noi. Come mai le nostre parole non toccano il cuore dell’uomo? Come mai la Chiesa risulta più convincente come strumento di solidarietà, piuttosto che come strumento di salvezza? Perché la nostra testimonianza non è più luce per i nostri stessi popoli? Quali arroganze ci accecano? Quali egoismi, blocchi mentali e volontà di dominio ci disturbano? Quali attaccamenti a ruoli e quali maschere impediscono lo scorrere della vita vera e profonda nel corpo delle chiese cristiane? Con l’effetto perverso dei maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud) anche la coscienza personale è diventata un’illusione ed un miraggio, dipendente da forze anonime. Occorre una specie di grammatica per l’uomo contemporaneo, smarrito nella selva delle sue stesse domande. Un uomo pieno di paure e, perciò, in preda ad ogni inganno e violenza. Ma, per rispondere alle domande di senso, che salgono dalle coscienze, è prima necessario ritrovare se stessi, o meglio, ricuperare il centro, una stabile piattaforma interiore, dalla quale guardarsi attorno, riflettere, dialogare; ritrovare la centralità della persona, rispetto agli oggetti, perché nell’intimo di ogni essere umano esiste una sorgente di ricchezza, vitalità, valori, che attende solo di essere liberata e di sgorgare all’esterno.

La visione del centro fu smarrita con la rottura di una visione armonica dell’uomo. Non c’è mediazione tra l’uomo e Dio, se non c’è un punto, centro del singolo uomo, dal quale misurare tutte le distanze e quindi accorciarle. E di qui percorrere il labirinto della crisi attuale guidati da un filo di Arianna, che non può essere altro che questo “Non temere!”. Se la società è organizzata in base alle tendenze, che tirano di più e non in base alla realtà, il “Non temere”si pone al bivio tra lo scegliere l’assurdo oppure scegliere il mistero. Un “Non temere”, che non è una compressa di ansiolitico, per calmare l’ansia, almeno per qualche ora, ma è la forte esigenza di rifare la rotta, per non essere ansiosi, perché la chiarezza non è mai fuori di noi, ma dentro di noi. Un “Non temere”, che si annuncia disarmato. Non temere se Dio non prende la strada dell’evidenza, della efficienza, della potenza e della grandezza, perché da sempre egli preferisce le correnti sotterranee, di un Regno che avanza inesorabile, ma senza imporsi mai; ama la forza e la fecondità nascosta e silenziosa del lievito, piuttosto che i colpi di scena e le rivoluzioni violente. Non temere le nuove vie di Dio, così lontane ed imprevedibili rispetto a tutte le nostre proiezioni e programmazioni ed organizzazioni. Non temere se l’Altissimo si nasconde in un piccolo embrione umano e nella fragilità ed imperfezione delle nostre vite senza potere e celebrità. Non temere! Fidati di stare al gioco di Dio. Subito, tutto questo ti sembrerà perdente in partenza, ma è solo la prima impressione. Aspetta tre giorni e vedrai. Forse tutto questo anche ci disturba, perché ci fa stare ancora più male. Noi vorremmo subito fare qualcosa, perché siamo troppo abituati a rispondere ad ogni evenienza con qualche attivismo. Invece, occorre che impariamo prima ad acquietarci in questo “Non temere”, accettando la nostra fragilità ed inadeguatezza contemporanea. Ogni rilancio e rinnovamento – lo credo fermamente – nasce da questo stato di povertà ed abbandono ed allora il “Non temere”, di cui ci fidiamo, ci guida e ci conduce fuori, ci smonta i vari miti di onnipotenza, che, anche come Chiesa, ci siamo costruiti e ci fa entrare nella sua cura, quella del “Non temere”, unica via di uscita che abbiamo a disposizione.

 

“Viene la vita” nella nostra fatica

E siamo alla terza parola: “Viene la vita”. Un parto è sempre difficile e pericoloso. Il nascituro attraversa la crisi peggiore della sua vita; è stretto da tutti i lati, fino a quando viene espulso dall’utero. Questa è però la condizione del nuovo. L’umanità si trova ad un passaggio difficile, come sappiamo e sperimentiamo sulla nostra stessa carne viva. Questa pasqua contemporanea non avviene senza perplessità e contraddizioni tra il vecchio, che si ostina a restare, ed il nuovo, che si sforza di nascere con forti sofferenze. Ma, come le partorienti, in mezzo alle doglie, siamo invitati a rallegrarci, perché sta per nascere un nuovo figlio. Ma il nuovo non è semplicemente ciò che viene dopo ma è solo ciò che è ben radicato in un principio vitale, che lo rinnova. È il principio della vita, che rinnova veramente l’oggi, facendone un nuovo giorno e non solo un giorno clonato. Ecco, verrà una nuova vita.

Diceva ancora don Mazzolari che, purtroppo, ci siamo così abituati a case senza bambini e a chiese senza poveri, che abbiamo l’impressione di starci bene[3]. Ecco, nella desertificazione demografica del nostro paese c’è, mi sembra, un grosso sentimento di inadeguatezza di fronte alla capacità di generare vita, semplicemente perché lo sentiamo troppo impegnativo; il crollo delle nascite e la perdita del senso della vita vanno di pari passo. Una società mercantile individualista non può far altro che esprimere questi risultati. Tra il consumare vita e il generare vita c’è la stessa distanza che tra l’agonia e le doglie. Entrambe sono condizioni di estremo dolore ma la prospettiva è semplicemente opposta. Entrambe sono un anticipo, ma la prima della morte imminente e la seconda della prossima nascita. Il problema non è il soffrire, presente in ogni caso. Il vero problema è soprattutto la prospettiva. E Dio annuncia: “Verrà una nuova vita!”. Sì, dal crogiolo di questo tempo, dal cuore confuso dei giovani, dall’animo stressato delle famiglie, dalla sterilità vocazionale delle vite consacrate, dalle nostre comunità ecclesiali un po’ spente, verrà una nuova vita. La sua venuta è sicura come l’aurora, tuttavia noi dove abbiamo l’intenzione di posteggiare e di continuare ad aspettare? Negli spazi affannosi dell’agonia o nelle anticamere della maternità partoriente? Dobbiamo deciderlo, sia personalmente, sia come famiglie che comunità. Certamente una delle cose più crudeli, che possano capitare ad una persona, è quella di terminare l’esistenza senza figli. E lo sfaldamento contemporaneo, sia come società che come Chiesa, ci ha ridotti a tale punto, che non ci sentiamo generati da nessuno e non intendiamo generare nessun altro. Delle isole sperdute nell’oceano della non significanza. Produttori di sterilità e non generatori di vita. Ma colui che è venuto, perché ci sia la vita e sia in abbondanza, annuncia: “Verrà una nuova vita!”. Come è possibile questo? Non vediamo le condizioni necessarie! Tutto attorno a noi parla di tramonto. Abbiamo anzi apprestato tutte le cure ed attrezzature necessarie, per vivere una dolce morte o, almeno, una morte la meno dolorosa possibile.

Ci siamo tranciate le radici ed abbreviata la memoria, per non ricordare la nostra storia; ci siamo imbottiti di rumore e di beni, per non pensare; ci siamo chiusi in spazi iperprotetti, per vivere solo ripiegati su noi stessi. No, non è questo il nostro destino; non è il nostro il viale del tramonto, bensì il prendere le ali dell’aurora. Ci sarà una nuova vita. La vita è iniziativa ed opera dello Spirito, non è produzione nostra. A noi viene chiesto solamente di essere disponibili a generarla, ad accoglierla e a farla crescere. A questo siamo stati destinati.

Ecco, queste sono le tre parole necessarie, per annunciare oggi e comunicare oggi il Vangelo della vocazione. Sono parole che ci aprono altri orizzonti e ci chiedono di posizionarci su altri osservatori, rispetto a quelli un po’ troppo angusti, che, solitamente, occupiamo. Forse tutto questo ci spiazza, perché ci aspetteremmo qualche formula più pratica e meno contemplativa. Ma, cari amici, il problema non sono le iniziative, che in questi anni sono vulcaniche e fin troppo numerose. Il problema è, mi sembra, revisionare il cuore, per dare un’impronta nuova a ciò che facciamo. Il come, che ci interpella, non è soprattutto e prima di tutto un produrre cose ma l’animo che abbiamo nel nostro impegnarci e nel nostro agire.

 

Amato per sempre! Dunque: Eccomi! 

Amato per sempre!

Il nome di Maria significa etimologicamente: amata per sempre[4]. Però Dio le dà un nuovo nome. Ella viene chiamata: “Piena di grazia”: un ribadire questo amore con particolare sottolineatura. È un’Annunciazione anche questo particolare. La funzione di Maria è quella di ricordare, con tutta la sua esistenza, i suoi pochissimi interventi ufficiali, ma prima ancora con il suo stesso nome questo amore, che ci precede, ci accompagna e ci salva.

Anche noi, figli di questa Madre, che ci è stata regalata da condividere nella maternità e nella figliolanza con il Figlio di Dio in persona, possiamo, a buon diritto, ritenere che il nostro nome personale, al di là e prima di tutti gli altri significati, possiamo e dobbiamo ritenere che significa amato per sempre. Infatti, siamo stati anche noi “colmati di ogni benedizione spirituale nei cieli, scelti prima della creazione del mondo, per trovarci, al suo cospetto, santi e immacolati nell’amore, predestinati ad essere suoi figli adottivi” (cfr. Ef 1,3s). Per questo, Maria, contemporaneamente ad essere madre, ci è stata affidata come la Maestra spirituale, proprio per farci ogni giorno una scuola di memoria e di consapevolezza, che siamo sul serio amati per sempre, anche solo per il semplice fatto che esistiamo. E, proprio perché siamo amati per sempre, c’è un progetto straordinario su ciascuno di noi, non siamo gettati a caso sul nostro pianeta.

Le tre parole dell’Annunciazione, che abbiamo visto sopra, hanno qui tutto il loro contesto e la loro giustificazione. In fin dei conti siamo tardi di cuore nella mancanza di gioia, per le domande piene di paura e non generiamo vita, perché ci sentiamo poco amati e ci lasciamo poco amare. La nostra tragedia è qui e si irradia dolorosamente sui giovani, sulle famiglie e sulle comunità a tutti i livelli, bloccando il Vangelo della vocazione.

 

Dunque: Eccomi!

Maria, “amata per sempre”, risponde: “Eccomi! Desidero che avvenga la tua annunciazione!”. Un sì desiderato e non rassegnato. Mi fido e mi lascio condurre, metto a disposizione tutto, pur non avendo garanzie del momento ma solo promesse per il futuro. Ma si sente amata per sempre e questo Le basta, per essere la serva, che il Signore desidera. Così Maria diventa lo spazio per il mistero dell’Incarnazione. Dunque, questo eccomi non può che interpellare anche noi, per prolungare l’Incarnazione nello spazio, nel tempo e nella comunione. Noi pure amati per sempre: dunque, eccoci disponibili nella nostra epoca, ma con le stesse garanzie di Maria, cioè promesse di futuro. Per l’oggi, solo qualche segno in un mare di incertezze. Ma questo è il sistema di Dio, 2000 anni fa come oggi. Come sempre, non si ricrede ma mette alla prova la nostra fede/fiducia. Il resto è tutto una conseguenza.

 

Il filo di Arianna del Come

Abbiamo accennato poco sopra al “filo di Arianna”, che ci è stato consegnato, perché ci guidi verso l’uscita dal labirinto della crisi attuale. È proprio questo nuovo filo di Arianna, che deve riassumere quanto abbiamo riflettuto e concretizzare il dunque dell’Eccomi, dando percorribilità al Come della nostra riflessione. È il filo di Arianna, che ci serve, è una trama di 4 fili: un filo d’oro; uno verde; un altro bianco; e l’ultimo rosso. Fermiamoci un momento ad esaminarli.

– Filo d’oro: è la sfida della fede/fiducia, il “caso serio della fede”, come presa di coscienza e come decisione personale. La vita cristiana è vivere secondo quel che si crede, non solo affidarsi a qualcuno con la Q maiuscola, perché intellettualmente persuasi di una verità. Quindi, la fede è tale se plasma la vita, e questa, a sua volta, diventa realizzazione e prova della verità. Prima di annunciare agli altri il Vangelo della vocazione, facciamoci il test della fede vitale sulle tre parole dell’Annunciazione, sull’amati per sempre, da cui deve scattare l’Eccomi. Se ripartiamo in un altro modo nel nostro impegno di animazione vocazionale, continueremo a segnare il passo, con una situazione contemporanea, che continuerà a rimanere stagnante. Ricordiamo che una delle principali tentazioni di fede è fermare il cammino, sia personale che ecclesiale, nel punto dove ci troviamo, perché ci sentiamo arrivati o perché siamo bloccati nella delusione e scoraggiamento. Se il test della fede vitale ha dato esito positivo almeno sufficiente (se no mi permetto di suggerire che questo è l’impegno prioritario per quest’anno), avvertendo ben alle spalle l’amore di Dio, allora è possibile la seconda parte, cioè la rilettura della vita dei giovani e delle famiglie con le loro domande, le loro risorse ed i loro problemi, una rilettura fatta però con l’occhio clinico della fede vitale, per essere portatori di amore e testimoniare l’amore. Questo filo d’oro è davvero una grossa sfida a se stessi, agli altri, cominciando dai nostri confratelli e consorelle, e poi, allargando, ai giovani ed alle famiglie, alla società, per far crescere quegli alberelli della cultura vocazionale, che il Papa ha piantato 10 anni fa e che stentano tremendamente a crescere.

– Filo verde: è il filo dell’impegno. Se osserviamo bene, questo è il filo che è già nelle nostre mani ed in nostro possesso, perché di impegno, in questi anni, ne abbiamo messo tanto. Quali iniziative non si sono inventate e non si sono tentate, soprattutto in campo di Animazione Vocazionale ed in tema di Pastorale Giovanile! È tuttavia un cordino tutto sfilacciato e consumato quello che abbiamo fra le mani e con parecchi nodi. È un impegno spesso trascinato avanti con amarezza per le tante delusioni incassate. È un impegno consumato dalla demotivazione e dalla routine, senza il coraggio di lasciarci interpellare dalle domande dei segni dei tempi. Più che con la fede, abbiamo condito il nostro impegno con tante lamentazioni e sfoghi di risentimento, mentre dovremmo essere portatori di gioia. E poi ci sono i nodi. Sono il segno del nostro impegno a strattoni, solo in qualche grossa occasione, non nel continuo dello scorrere della vita ordinaria. Oppure i nodi di aver privilegiato qualche attività, tralasciandone forse altre ugualmente urgenti ma più impegnative, come fare il primo passo per andare ad incontrare giovani e famiglie, creare spazi e tempi ricchi di accoglienza o come dedicare tempo ed energie all’ascolto e all’accompagnamento personale. C’è bisogno di un impegno rinnovato da tutti i punti di vista, un impegno ben radicato nelle sue motivazioni e poi ben lanciato nella costanza e nel cogliere le priorità di intervento, per non sprecare tante energie preziose, con l’umiltà di saper camminare fra problemi nuovi, anzi, ritrovando il gusto di entrare nel vivo degli stessi problemi con una nuova creatività.

– Filo bianco: e siamo alla volta del filo bianco. È il filo della formazione della coscienza vocazionale. Non è tanto la coscienza vocazionale, che normalmente intendiamo, cioè il prendere atto che sono chiamato ad una determinata e specifica vocazione. È, invece, un qualcosa di previo, che sta nelle radici della persona, per arrivare poi alla presa di coscienza vocazionale specifica, in vista di una decisione, una formazione della coscienza, che deve fare i conti con valori come libertà, responsabilità, verità. La prima cosa urgente da fare oggi è aiutare i giovani e le famiglie ad attribuire all’idea di coscienza un valore positivo ed attivo, in contrasto con la cultura dei maestri del sospetto, di cui dicevamo, che hanno fomentato invece l’idea di coscienza come illusione e miraggio, in totale dipendenza da oscure forze anonime. Occorre puntare decisamente sull’educare la coscienza alla realtà, allenandosi ad avere delle mete e a perseguirle. Questo significa abilitarsi a dominare il presente coniugandolo con il futuro, sapere ciò che è essenziale e cosa non lo è. Senza naturalmente cadere nei trabocchetti di una coscienza narcisista, che pretende di realizzarsi secondo un’immagine idolatrata di sé o secondo ambizioni da superuomo o secondo schemi di interesse egocentrico propagandati dai “media”, e fatti propri acriticamente. Un formare la coscienza personale, che sa misurare la propria persona rispetto al gruppo. Il singolo, quando partecipa ad un gruppo, si modifica. Abbiamo una vera metamorfosi del comportamento, perché il branco è multicefalo. Abbiamo cioè tante teste piantate sullo stesso collo, con una testa dominante, quando le altre sono vuote. Allora è urgente formare ed educare la coscienza del singolo all’interno del gruppo, perché il gruppo può potenziare i comportamenti negativi e malvagi ma può promuovere e rendere efficace la maturazione del singolo, sempre che il gruppo abbia uno scopo costruttivo. Un formare la coscienza, che avviene anche fissando dei limiti. Fin da piccoli, fissare dei limiti significa permettere di diventare liberi, contro ogni educazione contemporanea, che lascia supporre che di limiti non ce ne siano. Però limiti non presentati in se stessi, come semplici divieti categorici, ma limiti mediati attraverso la proposta di valori. E questo permette di prendere via via possesso della vita. Per formare la coscienza è centrale il rapporto tra verità e libertà, che va a parare poi nel gioco della responsabilità. Il risultato di questa formazione dovrebbe essere l’ingresso nella logica delle tre parole dell’Annunciazione, che abbiamo visto. Logica di gioia; logica del non temere; logica del generare vita. Ma, per questo, occorre che si abbiano dei modelli davanti. Noi impariamo da chi ammiriamo e stimiamo e che vorremmo imitare. Non prestiamo attenzione a coloro che non stimiamo, che giudichiamo incapaci o incompetenti. I nostri giovani non imparano, perché non riescono a prendere come modello genitori ed educatori. Infatti, oggi abbiamo un grosso deficit di trasmissione generazionale. In questo modo i giovani cercano i valori per loro conto, allo stato puro, per essere svincolati dagli schemi di noi adulti, corrono dietro le emozioni senza agganciare la dimensione affettiva a quella progettuale, creando così una vita a parte e consumando tutto in esperienze per lo più frustranti. Allora il ripartire dal formare la coscienza, la nostra prima di tutto e continuamente, nonostante gli anni e i ruoli che esercitiamo, quella dei nostri giovani e anche degli adulti diventa strategico, per svincolarsi dall’anonimato imperante, che produce solo branchi e stili di vita massificati, senza fare maturare le persone nella presa di coscienza delle proprie responsabilità, al fine di giocare in modo significativo la preziosità unica della vita.

– Filo rosso: ed infine il filo rosso, cioè la nuova strategia dell’insieme. Tutti lo percepiamo: la Chiesa sta vivendo, in questo inizio del terzo millennio, uno dei momenti più decisivi della sua missione, non solo perché la storia sta riprendendo un’altra volta il largo, ma perché, si può dire che tutti, anche i lontani, anche gli indifferenti e nemici, la stanno provocando ed interpellando, in cerca di speranza e di buona compagnia, a causa degli spessi banchi di nebbia della solitudine, delle incertezze, del buio e del fatalismo, che avvolgono la condizione umana di questo nostro tempo. Il Concilio ha inaugurato una nuova stagione di riscoperta dell’ecclesiologia di comunione e della Chiesa locale e particolare, all’interno del territorio ed il Giubileo, da poco passato, ci ha indicato le vie, attraverso le quali la Chiesa, sia a livello universale che locale, può essere segno di speranza. Una Chiesa, che si riconosce umana tra gli uomini; e se agli uomini deve annunciare la novità di Dio, dovrà farlo, molto più che in passato, nella condivisione con la vita di tutti. Se c’è un’urgenza, questa è incarnarsi a fondo nel territorio, dando vita ad un operoso laboratorio della fede e della comunione, per alzare finalmente le vele al vento dello Spirito. Un laboratorio fecondo della fede e della comunione, gestito dalla pedagogia della condivisione dei carismi e delle vocazioni.

E da dove cominciare? Dalla parrocchia. Già don Mazzolari, negli anni ‘50, con il suo intuito profetico, diceva che la parrocchia rimane la comunità base della Chiesa, a patto che si faccia più accogliente e più adatta[5]. Ma la parrocchia, asseriva ancora lui, ha bisogno di una nuova interpretazione dei suoi valori, della sua funzione e della sua strutturazione. La parrocchia, soprattutto, deve tornare ad essere una casa comune, lo strumento efficace di una carità senza limiti[6]. Una parrocchia che deve acquisire dunque il volto ecclesiale della famiglia, una grande famiglia di famiglie, un luogo nativo delle relazioni interpersonali, un vero laboratorio di comunione appunto, una rete di relazioni profonde, nutrita dai sacramenti, pensata ed approfondita nella catechesi, maturata nelle multiformi vie della carità. E questo, anche se ci manca ancora, si può dire, la grammatica per parlare di comunione: siamo infatti un po’ tutti analfabeti, riconosciamolo con sincerità, di questa scuola e di questa educazione. Ma si deve pur cominciare. Una parrocchia con un coordinamento sempre più organico tra la pastorale giovanile, quella famigliare e quella vocazionale; non un’insalata russa di tutto un po’ ma un coordinamento intelligente e di larghe vedute per tutte le iniziative escogitate e messe in cantiere. Che la parrocchia sia lievito, scoprendo i doni di Dio, che si riassumono tutti nei doni vocazionali di tutte le vocazioni; che sia seme della novità di Dio, della novità della comunione; che sia casa, dove si accolgono e si organizzano le varie forze; che sia grembo, per vigilare sulla crescita di ognuno e dell’intera comunità. Una parrocchia insomma con una nuova creatività, convertendosi dai luoghi comuni di una pastorale a linee parallele e di una vita ecclesiale con vie vocazionali piuttosto ghettizzate e posteggiate su una missione gestita in proprio. Sentendosi invece tutti poveri. Perché il povero dice: “Io ho bisogno di te” e così stimola e crea solidarietà, mentre il ricco esclama: “Io non ho bisogno di nessuno”, ma in questo modo crea competizione esasperata. Una parrocchia, che diventa chiesa della carità, non solo come attenzione all’uomo come creatura nel bisogno ma oggi, in modo particolare, come aiuto alla persona, perché si scopra fatta per la relazione. Oggi da noi si è inceppata la relazione a tutti i livelli. Dunque siamo di fronte ad una grande urgenza di reciprocità. Per questo ci vuole una parrocchia, che fa una decisa scelta di campo: mettere al centro la famiglia e non considerarla più semplicemente uno dei settori pastorali, strutturando e dando il via a tante associazioni familiari e scuole di famiglie, considerate non solo come una necessità urgente ma, soprattutto, come un’enorme risorsa di costruzione del futuro. Ci sono già tante iniziative in giro a questo proposito. Sarebbe interessante passarle in rassegna. Ne cito solo una: la banca del tempo e delle relazioni, dove si deposita non denaro ma assegni di disponibilità di tempo: tempo libero, tempo della compagnia, tempo di servizio e della solidarietà, per un aiuto vicendevole, mettendo a contatto le diverse esigenze delle famiglie, dentro la medesima fatica di costruire insieme un cammino, da trovare e percorrere insieme, stringendosi la mano, per andare nella stessa direzione.

E, di qui, fare di ogni famiglia la casa e la scuola della comunione. Abbattere finalmente il muro del silenzio e dell’indifferenza vicendevole, dei figli, della coppia, della famiglia allargata, coinvolgendo gli interlocutori e stanando dalla solitudine e dalla mancanza di rapporti umani significativi. Anzi, rompendo il cerchio virtuale, che sta progressivamente paralizzando ognuno nel guscio di se stesso. La famiglia davvero deve diventare elemento di base di umanizzazione e costruzione della stessa comunità. Ma i problemi sono così grandi, che non c’è nessuna famiglia o associazione che, da sola, li possa risolvere. La soluzione sta nelle mani di tutti e di ciascuno. È questa comunione locale parrocchiale, come luogo significativo di gioia, di fiducia, di generazione di vita, che coordina le singole famiglie e le tiene unite, che può offrire il bandolo non solo della soluzione di molti problemi ma anche e soprattutto far scoprire questa immensa risorsa del futuro. Più case e meno appartamenti, per isolarsi e consumare un privato senza volto, manovrato abilmente dai potenti persuasori occulti della nostra società. Aiutare invece a riscoprire il focolare domestico, per ritrovarsi ed incontrarsi tra le generazioni. Questo è il solo modo di entrare nel vivo dei problemi e di operare nei gangli vitali della società. Solo così la famiglia diventa scuola di fiducia e di trasmissione del piacere di esistere e di fare le cose, passando dalla celebrazione del benessere tanto in voga alla celebrazione del dono. Di qui deriva la voglia di crescere insieme, l’impegno di rafforzare la propria missione di coppia, nel desiderio di comprendere profondamente il significato della propria vocazione matrimoniale.

Di qui singole famiglie e parrocchia, come famiglia di famiglie, si va insieme alla conquista dei giovani. Perché i giovani sono il nuovo continente, che la Chiesa è chiamata ad evangelizzare, la terra incognita, in cui spedire avanguardie missionarie. È solo se si va insieme, che si potrà operare con loro, cioè i giovani stessi, qualcosa di significativo e duraturo, proprio perché essi non sono la vetrina della minaccia dell’umanesimo ma il luogo in cui incidere, per dare alla cultura attuale piuttosto asfittica, una decisa inversione di rotta. Senza un legame profondo con una famiglia solida, si sa, i giovani sono esposti ad ogni genere di rischio (dalla droga, alla criminalità organizzata, al brando dello sballo, alla logica del tutto e subito, tutta tesa in adorazione di falsi idoli come il denaro, il “look”, il sesso, il mito della celebrità,…). L’unica prevenzione, che possiamo offrire insieme ai giovani, è ridare loro un futuro, aiutandoli a trasformare la conflittualità, che alberga così piena nei loro cuori, trasformarla in progetto. Ma, perché possa avvenire questo, occorre che noi adulti tutti: genitori, educatori, ministri ordinati, consacrati, noi adulti ci riconciliamo tutti con i giovani. Essi riprenderanno in mano la propria vita e il destino dell’umanità, se il mondo degli adulti si riconcilierà con loro. Senza questa riconciliazione prevarranno la disperazione e l’ira. Occorre invece riportare i giovani sul palcoscenico della storia e della vita quotidiana, strappandoli al mondo virtuale che li sta imprigionando, aiutandoli ad amare la vita ordinaria contro lo stordimento del superuomo ed il serpeggiante nichilismo. I giovani attendono da noi tanta autorevolezza e ci chiedono conto della nostra e della loro stessa vita. Non continuiamo allora a sedurli a tutti i costi, per spingerli a comprare i nostri prodotti o per caricarli di un ruolo da recitare. Diamo invece loro l’occasione per uscire allo scoperto, ancorandosi alla realtà, che ci circonda, prendendo insieme consapevolezza della presenza di Dio nella storia dell’umanità. I giovani, se rimangono rinchiusi nel narcisismo familiare, sentono che non hanno alcuna missione da compiere nella loro vita. Insieme, invece, interroghiamoci continuamente su quali sono le soluzioni praticabili e sostenibili dai giovani, per uscire dall’ambiente deprimente in cui sono stati cacciati. Ascoltiamoli ed incoraggiamoli, in modo che sappiano trasformare le loro passioni solitarie e private in un cammino di apertura e di responsabilità verso gli altri, cosa che avvia a dare un orientamento alla loro esistenza ed a scoprire la loro vocazione.

Gesù è cresciuto ed è venuto su in famiglia. È allora qui ed a questo punto che può farsi concreto ed esplicito il discorso vocazionale con progetti ed annunci ben mirati. La vocazione è mai un fenomeno di massa e non dipende dalla comunicazione di massa ma da incontri strettamente personali. E la crisi vocazionale e delle vocazioni non è mai un fatto a se stante ma una crisi della comunità e della famiglia. La vocazione, in particolare quella consacrata e sacerdotale, deve finire di essere considerata, anche nell’ambiente ecclesiale, come una scelta reazionaria e conservatrice, quasi per irridere la modernità o per sentirsi superiore all’umanità di oggi ma per vivere l’oggi in pienezza ed in piena navigazione nel mare del mondo. Proporre invece la vocazione come una grande scelta di libertà e di alta umanizzazione, senza tuttavia confondere i sogni con la felicità. I sogni veri della felicità stanno tutti nel cuore. Ricordiamo infine che il miracolo della chiamata può avvenire in ogni ambiente. Basta insieme sollecitarlo con il metodo: provocazione/scommessa.

 

Conclusione

Mi piace concludere citando ancora un pensiero di don Mazzolari: siccome nello stile del Figlio di Dio la briciola diventa presenza, vogliamo convincerci che l’amore colma i vuoti dell’uomo; dove c’è un vuoto più grande, occorre una sovrabbondanza di amore, una predilezione[7]. Dunque non ci spaventiamo dei tanti vuoti né delle scarse briciole di speranza, che ci rimangono. Se il Figlio di Dio continua ad assicurare la sua presenza, accontentandosi delle briciole, vuol dire che è possibile riempire i vuoti con sovrabbondanza di amore. Coraggio, dunque, proviamoci anche noi!

 

Note

[1] MAZZOLARI P., La Parrocchia, Vicenza, La Locusta, 1965, p. 16.

[2] MAZZOLARI P., Il segno dei chiodi, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1954, p. 9. 

[3] MAZZOLARI P., La Parrocchia, op. cit., p. 7.

[4] Si tratta di una delle interpretazioni etimologiche più accreditate. Cfr. VOGT E., Maria , il nome di, in AA.VV., Enciclopedia della Bibbia, T. 4, Leumann (TO), LDC, coll. 955-957. 

[5] Cfr. MAZZOLARI P., La Parrocchia, op. cit., p. 69. 

[6] Cfr. Ibidem, p. 9.

[7] MAZZOLARI P., La Parrocchia, op. cit., p. 23; 11.

 

Riferimento Bibliografico

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