N.02
Marzo/Aprile 2003

Famiglia e giovani in un mondo che cambia: come educare ed accompagnare alla risposta vocazionale?

Finalmente! Finalmente un Convegno vocazionale “ecumenico”, con un tema che indica il contesto naturale della pastorale vocazionale, in qualche modo allargandone i confini o, per meglio dire, evidenziandone i collegamenti necessari e provvidenziali con le pastorali “sorelle”, per situare in termini effettivamente ecclesiali il senso del suo intervento e della sua missione.

Chi segue con regolarità i Convegni del CNV potrà notare la lenta ma precisa evoluzione proprio in tale direzione. È la direzione, credo, della maturazione ecclesiale, della maturità della fede e della testimonianza, della maturità, infine, vocazionale d’una comunità credente. Senza esser inutilmente enfatici (l’enfasi non frequenta i Convegni vocazionali) penso che possiamo dire che si apre davvero una fase nuova nel nostro argomentare e agire in relazione con le vocazioni. Ed è significativo che ad aprire questa fase vi sia Mons. Castellani, cioè il don Italo che in qualche modo, diversi anni fa, pose le premesse e diede l’impulso iniziale per arrivare fino qui.

Alla mia relazione non è chiesto esplicitamente di entrare nel merito delle correlazioni in atto tra le varie pastorali, ma credo che non potrò esimermi almeno dall’indicarle, magari semplicemente per esemplificare, ma cercherò soprattutto di segnalare alcune premesse o condizioni di quello che dovrebbe esser sempre più il modo normale di fare pastorale vocazionale nella Chiesa. Lo schema è piuttosto classico. Il primo paragrafo propone una descrizione abbastanza approssimativa della situazione della famiglia e della gioventù oggi. Si tenta poi di esaminare un po’ il nostro modo di giudicare e poi vivere il cambio; connessa allo stile percettivo-interpretativo, infatti, c’è la possibilità di cogliere un appello alla conversione, e proprio qui nasce una possibilità diversa di concepire anche la pastorale vocazionale, ovvero proprio qui nasce la collaborazione tra diversi uffici di pastorale, nella convergenza verso il medesimo obiettivo, la crescita della Chiesa come comunità di chiamati e chiamanti.

 

 

 

IL CAMBIAMENTO IN ATTO: VERSO DOVE?

 

Il Documento della CEI dal quale prende lo spunto il nostro Convegno parla molto appropriatamente d’un “mondo che cambia”, facendoci intendere che non è cambiato, ma sta cambiando. Fosse cambiato sarebbe relativamente facile, perché potremmo avere dinanzi a noi un quadro ormai pressoché definitivo come punto di riferimento per gli opportuni aggiustamenti pastorali. In realtà non è così, il cambiamento è ancora in corso; possiamo solo coglierne alcune linee-guida, ma senza alcuna presunzione d’aver capito tutto e senza dedurne progetti a lunga gittata, per non esser costretti a cambiare tutto continuamente; però anche col coraggio di spingere fino in fondo l’analisi per afferrare il senso di questo cambiamento e fare scelte coerenti. È il coraggio dell’intelligenza della fede.

D’altro lato proprio questa mobilità continua del cambiamento ci chiede una grande capacità di discernimento, che è esattamente la virtù di chi sa stare nel cambiamento e nella mobilità, del credente che sa ascoltare il mondo e la storia e ha imparato a leggere la presenza di Dio nei segni leggeri e deboli, nei mormorii e nei frammenti, nei segmenti ambigui e contorti della storia…, credente umile, perché sa che non può pretendere la visione piena della teofania luminosa, solare e mattutina, ma deve accontentarsi della cognitio vespertina, avvolta dalla penombra oscura, credente nondimeno raffinato proprio perché ha imparato a cogliere nel non chiaro e nel dettaglio, nel piccolo e nel limite la presenza dell’Eterno, resistendo alla rozza tentazione di riconoscere il divino solo nei segnali forti e inequivocabili. E già questo ci dà un orientamento di fondo, prezioso e tutt’altro che scontato in tempi d’affanno più visionario che credente.

Vediamo allora di cogliere solo alcuni elementi di questo processo in corso, a livello di famiglia e di universo giovanile.

 

La famiglia in transizione

A noi interessa vedere quel tipo di cambiamenti dell’istituto familiare che possono avere una certa correlazione con il nostro argomento, e dunque con il fenomeno vocazionale.

Cambiamenti formali

Anzitutto c’è stato ed è tuttora in atto un mutamento a livello di composizione dei membri della famiglia, a livello dunque di forma esteriore. Siamo passati, dagli anni ‘70, almeno in Italia, progressivamente dalla famiglia estesa (comprendente più nuclei coabitanti sotto lo stesso tetto) a quello di famiglia allargata (con più di due generazioni nello stesso nucleo, con la presenza di nonni, ad es., coi figli sposati e relativi nipoti), e da questa alla famiglia nucleare normocostituita (coppia di coniugi coi loro figli). Tale modello ancora resiste, ma emergono e aumentano altre forme: famiglie di genitori soli (padre solo o madre sola con figli), convivenze more uxorio (unioni solo civili), famiglie ricostituite (attraverso il matrimonio di divorziati), famiglie multietniche (con coniugi appartenenti a etnie diverse), famiglie unipersonali (i cosiddetti single, celibi, nubili, vedovi/e, separati, divorziati…)[1].

Chiunque può subito cogliere un collegamento inevitabile tra questi cambiamenti e il ruolo educativo da sempre tipico della famiglia, con inevitabile ricaduta sulla capacità progettuale del figlio.

 

Paura del figlio e figlio orfano, latitanza educativa e confusione dei ruoli

Più rilevanti ancora, forse, sono dei mutamenti intervenuti a livello dei rapporti, specie all’interno della dinamica familiare. Ne vediamo alcuni. Siamo passati dalla stagione dell’uccisione del padre, di qualche decennio fa, a quella della paura del figlio, vedi la progressiva denatalità, in contrasto con la pretesa opposta di desiderarlo[2] o addirittura volerlo a tutti i costi e in tutti i modi, ma programmandolo secondo i propri gusti e voglie; oppure c’è una sorta di culto del figlio, spesso figlio unico e reuccio incontrastato, con una specie d’inversione dei ruoli, per cui i genitori odierni sembrano essere l’ultima generazione di figli che – a suo tempo – hanno obbedito ai loro padri, e la prima generazione di padri, oggi, che obbediscono ai loro figli[3], sempre attenti e protesi come sono a soddisfarne i desideri e ucciderne, di conseguenza, la capacità di desiderare e progettare. Inevitabili e rilevanti gli effetti intrapsichici a livello di capacità e libertà autoprogettuale.

Sempre in quest’ottica e come conseguenza dello stesso fenomeno dell’instabilità della famiglia e del calo della natalità abbiamo oggi sempre più figli unici, o figli sempre un po’ orfani, d’un orfanaggio verticale (d’uno dei genitori, e non necessariamente perché siano deceduti), o orizzontale-collaterale (di qualche fratello che non c’è mai stato). La fine della “società fraterna” all’interno del nucleo familiare significa una serie di assenze che pesano sullo sviluppo futuro, specie per quanto riguarda capacità relazionale e interazione col diverso, decentramento da sé e sicurezza interiore. Altro fatto inquietante, e su cui mi vorrei soffermare un po’ più, è la latitanza educativa della famiglia. La famiglia sta progressivamente rinunciando al suo ruolo naturale e primordiale, quello d’essere educatrice di coloro che essa stessa ha chiamato alla vita. Vi rinuncia quando anch’essa respira e subisce quella confusione etica che rende indistinte le aree del bene e del male, e non ha più il coraggio di dire con chiarezza cosa va fatto in ogni caso o cosa si debba evitare perché comunque non accettabile. Vi rinuncia quando una malintesa idea di libertà e di rispetto per quella dei figli porta i genitori a non offrire loro alcun punto di riferimento, alcuna idea forte per la vita, alcun esempio bello e trainante…, o quando non si ha il coraggio di dire alcun no, di indicare la rinuncia come via insostituibile di autorealizzazione. Il permettere tutto e il soddisfare sistematicamente ogni richiesta è vera e propria latitanza educativa, è come un esser assenti o insignificanti nella vita dei figli, è crudeltà psicologica.

Ma c’è un’altra confusione all’origine della latitanza educativa della famiglia, è la confusione dei ruoli. Oggi vi sono sempre più bambini che si comportano da adulti e adulti che si comportano da bambini; piccoli cui tutto è lecito e che tutto pretendono, forse più precoci e disinibiti dei bambini d’un tempo, tanto da sembrare nemmeno così bambini e fin troppo simili agli adulti; e giovani che non se la sentono d’andar via di casa, di assumersi responsabilità, di compromettersi con un altro/a per sempre, di scegliere in modo definitivo… e che restano eterni “figli di famiglia”, fragili e inconcludenti. La cosa strana è che sovente non c’è cambio di persona in questa singolare inversione delle parti, per cui i bambini precoci d’un tempo, per così dire, sono poi coloro che non si decidono mai a diventare adulti[4].

Così pure avremo genitori che sembrano “fuggire” dal loro ruolo e sottrarsi al compito di dare ragione di ciò chiedono o danno ai figli e preferiscono imporre e basta; oppure genitori che cercano pateticamente di dissimulare il naturale loro ruolo di autorità con una strategia fraternalistica e complice, atteggiandosi ad amici dei loro figli, magari imitandoli e mostrandosi a tutti i costi “giovani” o giovanili. O, ancora, vi saranno padri che giocano a fare da madre, rincorrendo e copiando modalità relazionali materne o femminili, e rischiando di perdere autorevolezza e credibilità; o di madri che sembrano rincorrere ancora strani miti (e riti) femministi, quasi si vergognassero d’esser madri e finendo per divenire “metalliche”. Il risultato di questo improbabile gioco dei 4 cantoni sarà un generale disorientamento educativo dei figli: a un padre “fuggitivo” corrisponde sempre un figlio adulto-mancato, senza stima di sé né spina dorsale; a un padre che non ha saputo assumere a suo tempo l’autorità corrisponderà un figlio che non ha punti di riferimento né sa dare un orientamento alla sua vita; un padre, infine, che ha giocato a far da madre avrà un figlio con problemi d’identità, quanto meno, e di relazione con l’altro-da-sé; una madre con poco calore e troppo preoccupata della sua femminilità difficilmente comunicherà quella sicurezza emotiva che è la base della capacità di scelta. In ogni caso la latitanza educativa della famiglia crea persone a sua volta incapaci di ricoprire ruoli genitoriali, d’esser padre e madre, o che a loro volta ripeteranno gli stessi errori, e la stessa latitanza. E il ballo in maschera continua…

 

Ma la famiglia è ancora evento vocazionale?

Nel mondo che cambia la sensazione immediata è che la famiglia sia sempre meno luogo di vocazioni. Anche se la Chiesa continua a considerare i genitori “i primi naturali educatori vocazionali”[5]. Non è luogo di vocazioni sacerdotali e religiose, o certamente non lo è come un tempo. Ma il vero problema forse è un altro, più generale e radicale: la famiglia non è più luogo vocazionale in quanto tale, è sempre più nido e sempre meno pista di lancio verso nuovi percorsi e progetti di vita, non provoca a uscire, a cercare e trovare il proprio posto nel mondo, non dà più quella fondamentale certezza emotiva da cui viene il coraggio di amare per sempre un altro, a lui o lei consegnandosi per dar vita assieme a un’altra realtà[6]. Il fenomeno, lo ribadiamo, della “famiglia lunga del giovane adulto”[7], o dei venticinquenni o trentenni ancora allegramente in casa dei genitori dice un po’ tutto questo, è segno d’una famiglia che sta venendo meno alla sua propria vocazione di generare vocazioni, d’esser non solo luogo di vocazioni, coi genitori che spronano pateticamente (quando va bene) verso nobili ideali di vita, ma evento vocazionale essa stessa, oggetto d’una chiamata e soggetto chiamante e pro-vocante. Certo, il fenomeno è complesso e legato a fattori di ordine sociale generale, soprattutto di tipo economico (l’homo oeconomicus svezza in ritardo, ha bisogno di molte garanzie, se la cava in Borsa ma spesso è disadattato nella vita e imbranato negli affetti…), ma dice pure un’incapacità da parte dei genitori di praticare una certa “pedagogia dell’abbandono” e del distacco, fisico e affettivo. Il problema, in ogni caso, non è solo e primariamente “religioso”, ma psicologico-antropologico, con ricaduta pesante, ancora una volta, sulla capacità decisionale del giovane.

 

I giovani in …perpetua transizione

Pochi argomenti sono trattati con abbondanza di dati, da un lato, e varietà di analisi al punto da giungere in certi casi a conclusioni quasi contraddittorie come il “pianeta giovani”.

Dati in contraddizione

Tempo fa mi presi la briga di raccoglierne qualcuna di queste ricerche, sempre caratterizzate, chissà perché, da un quasi voluttuoso giuoco al massacro della categoria[8]. Cominciando da alcune frasi che vorrebbero esser lapidarie, quasi una fotografia che n’esprime la posa abituale. Solo qualche esempio di affermazioni che s’escludono l’un l’altra, e che dicono abbastanza la fatica di …fermare l’obiettivo di questa difficile foto:

– “i giovani d’oggi sono soli…”, “i giovani della società massificata non sanno stare soli…”;

– “la gioventù dei nostri tempi teme la relazione…”, “la nuova generazione ha riscoperto la relazione…”;

– “quella dei giovani d’oggi è generazione senza genitori né maestri…”, “mai stata così alta come nei giovani d’oggi la domanda di guida e direzione spirituale…”;

– “non ci sono più padri…”, “dopo il delitto di Novi Ligure rispunta la figura del padre…”.

Insomma, da che parte sta la verità sui giovani? La stessa sensazione emerge osservando le etichette, affibbiate dal solito ricercatore di turno, che spesso spara sentenze che finiscono per eliminarsi a vicenda.

Eccone un saggio. Secondo questi “esperti” quella giovanile sarebbe “generazione senza padri né maestri”[9]; “generazione del quotidiano”[10]; “generazione del privato”[11]; e voi sareste “giovani senza ricordi”[12]; “ragazzi senza tempo”[13]; “pianeta degli svuotati” o giovani “del vuoto”[14]; giovani simili a “suoni del silenzio”[15]; “ragazzi senza tutela”[16]; “cuori violenti”[17]; “età incompiuta”[18]; “giovani sprecati”[19]; “generazione in ecstasy”[20], addirittura “generazione invisibile”[21]. Ma ho trovato anche altri cartellini su questa massa giovanile: “gli inessenziali”, “i sacrificati”, “i non-partecipanti”, “i confusi”, “i rassegnati”, “gli smarriti nei labirinti affettivi e sessuali”, o coloro che non sanno ciò che vogliono né ciò che non vogliono[22], o la “generazione del grande boh”[23]. Vi sono anche modi divertenti coi quali un educatore appassionato e che conosce molto da vicino l’oggetto come don Mazzi, pensa di classificare il mondo giovanile attribuendogli nomignoli curiosi ed espressivi di particolari modi d’essere (o d’atteggiarsi): ci sarebbe allora il tipo “rompi”, oppure il “bonsai”, o il “cireneo” e persino “l’aquilone”, ma esistono anche il “pillolaro”, lo “sbullonato”, lo “sparato”, il “tossico”, per non dire dell’“ecologista”, dell’appartenente alla “baby-gang”, eroe del nulla, mentre resistono ancora inossidabili i “figli di papà”[24].

 

E il “chiamato”?

Verrebbe da dire che ne manca solo una: il “chiamato”. Un po’ perché la categoria in effetti è poco visibile e insignificante statisticamente, un po’ perché gli strumenti di rilevamento non sono tarati per cogliere non solo il mistero della vocazione, ma nemmeno l’esigenza interna presente in ogni giovane di pensare il suo futuro e di pensarlo in ordine non solo alla “sistemazione”, di progettare i suoi giorni in una prospettiva che vada oltre i suoi giorni, di rispondere a una voce non subito rilevabile e che pure ha qualcosa d’importante da dirgli, d’incontrare una presenza fedele da cui lasciarsi accompagnare. E questo è forse il problema: le nuove generazioni crescono in un contesto di crescente e avanzata secolarizzazione[25], pur nelle sue nuove edizioni, che non consente la lettura del fenomeno vocazionale perché non prevede neppure il termine vocazione nel suo vocabolario, o l’intende in termini riduttivi, o lo riferisce immediatamente a una realtà che esula totalmente dai suoi interessi.

In tale contesto il cristianesimo sta cercando e trovando un suo nuovo assetto, non senza sofferenza e purificazioni. E forse questo nostro Convegno assume senso proprio all’interno di questa logica. Se da un lato è impossibile restaurare il passato, dall’altro è doveroso pensare a una pastorale che cerca un nuovo aggancio col mondo giovanile a partire dai reali problemi di tale universo e non da quelli dell’istituzione. Ed è già una conversione, o “la” conversione che è alla base d’una autentica pastorale vocazionale oggi, come vedremo meglio poi. Senza temere, per questo, di non fare gl’interessi della Chiesa. Anzi.

 

L’“adultescenza”

Quale è, infatti, il reale problema di tanti giovani oggi? Non è forse quello di non sapersi decidere, di procrastinare all’infinito le scelte, di rimandare qualsiasi tipo di opzione o di non decidersi mai? Non è forse per questo che la permanenza nella famiglia d’origine, come abbiamo visto, tende a protrarsi sempre più in avanti? È quello che qualche psicologo oggi comincia a chiamare con un termine nuovo e strano, la adultescenza, nato dalla crasi tra due termini, adulto e adolescenza. Per significare un adolescente che entra nello stato adulto, ma da adolescente, o senza rinunciare del tutto al suo essere adolescente, o senza saperne uscire completamente, al punto da intendere il suo essere adulto come uno stato prolungato della sua adolescenza.

Avremo così il finto adulto, destinato a rimanere per sempre il giovane dalle belle speranze che mai si realizzano, o il post-adolescente che non si decide mai a fare una scelta radicale, o che teme la decisione per sempre, di qualsiasi tipo, o che sembra giocare con la vita, con se stesso o con gli altri lasciandosi sempre una porta aperta nelle proprie decisioni perché non siano definitive. Così, se ti sposo potremo separarci non appena mi piacerà di più un’altra; se ti ingravido potrai abortire se non ti va d’avere un figlio ora o non ti va d’averlo da me o anche se il bebè carino e “rompino” ci scombussola i piani; se scelgo questa strada o lavoro o vocazione potrò sempre cambiare se non mi starà più bene[26]. L’adultescente gioca con la vita, è come fosse sempre a fare zapping davanti alla tv con lo scettro del telecomando in mano, illudendosi d’esser libero perché saltella come un canguro di qua e di là senza in realtà coinvolgersi in nulla; in realtà l’adultescente ha paura di lasciare qualcosa, di dover rinunciare…, o teme di fare scelte sbagliate, di doversi pentire poi…, o non ha criteri e punti di riferimento per orientare le sue scelte, o ha trovato il modo di esimersi dal dovere di scegliere…, e non avendo imparato a decidersi non ha imparato a vivere.

Ora questo, dal nostro punto di vista, è parecchio interessante, poiché in qualche modo allarga ancora i confini o estende l’ambito di riferimento del nostro discorrere sulla vocazione, oltre il contesto puramente ecclesiale, o forse oltre addirittura l’ambito dei credenti. Se infatti è vero, come dice H. Arendt, che l’uomo è essenzialmente un essere che decide, o che la decisione è ciò che caratterizza essenzialmente l’essere umano, oggi ci troviamo dinanzi a una sorta di regressione della specie. Il problema vocazionale è problema antropologico, non è questione solo di seminari vuoti e parrocchie sguarnite, è affare che riguarda la società civile e dunque tutti, e che va affrontato necessariamente con una mentalità aperta, che colga la radice del problema e del cambiamento intervenuto in questi ultimi tempi, al di là di prospettive miopi e mercantili, con l’unione intelligente delle forze e dei cuori.

Un’ultima annotazione a questo paragrafo sui cambiamenti dell’attuale generazione giovanile: se adultescente è il giovane adulto che non si decide mai, sarebbe un guaio se tale fosse anche il giovane animatore vocazionale, c’è infatti chi dice che nei nostri seminari vi siano chierici adultescenti. Non può certo aiutare a decidersi chi ancora prende la vita con piglio adolescenziale!

 

 

 

IL VERO PROBLEMA: COME LEGGERE IL CAMBIAMENTO

 

Per giungere a delineare la pedagogia dell’animazione vocazionale in questa logica del cambiamento, com’è nostro obiettivo, non basta fotografare correttamente la situazione e i suoi punti deboli, e progettare l’intervento capace di rispondere all’una e agli altri, ma occorre, io credo, interrogarci sulla qualità della nostra lettura, sul nostro modo di ascoltare, senza dare per scontato che leggiamo bene la situazione, che ascoltiamo senza pregiudizi la storia, che siamo capaci d’individuare dove stanno i problemi. Noi siamo sempre certi di non aver problemi percettivo-interpretativi, crediamo di saper leggere (e …scrivere), ci riteniamo buoni intenditori della realtà, per nulla condizionati da quei fenomeni che disturbano la lettura del reale, come le distorsioni percettive, o fenomeni di sordomutismo, di visioni preconcette, di analfabetismo pastorale… E tanto peggio se qualcuno non ne ha mai sentito parlare, perché allora non sarà in grado di controllarne le conseguenze. Con scelte pastorali e pedagogiche fallimentari. Anche sul piano vocazionale.

 

Centralità dell’ascolto

Il documento che fa da sfondo alla nostra riflessione (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia) prende come icona biblica per questi dieci anni il noto prologo della prima lettera di Giovanni (“Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto coi nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”, Gv 1,1-4).

In questo testo il verbo che apre e chiude la serie è sempre lo stesso: udire, o meglio la coppia udire/vedere, perché l’ascolto è sempre questione di occhi e orecchi. In mezzo ci sono tutti gli altri verbi, tutti dentro l’orizzonte di questo ascolto originario che potremmo tradurre come “accoglienza” radicale della propria identità, come il lasciarsi generare continuamente da Dio in Cristo per lo Spirito, e proprio per questo essere segno e possibilità per gli altri, o proprio da questo lasciarsi generare cogliere anche le linee strategiche del proprio intervento educativo. Il testo esprime mirabilmente il dinamismo profondo del compito pastorale-pedagogico della Chiesa come luogo nel quale essa “ascolta e parla a partire dal suo ascolto”, ovvero riceve la sua identità dall’ascolto dell’evento che la genera e che trasmette ad altri, ma che anche “torna” a essa arricchito dal giuoco della dinamica relazionale; in altre parole il credente non solo coglie la sua identità come qualcosa di statico e fisso nel mistero che celebra, ma la scopre e accoglie come qualcosa di vivo e dinamico dall’esperienza più globale dell’annuncio di questo evento, poiché esso accade (avviene) ogni qualvolta un credente dice ciò che ha visto, udito, e lo condivide con altri per portare pure altri alla medesima esperienza, ed è la gioia di cui parla Giovanni. E allora ascoltare e leggere, o interpretare e vivere la situazione è importante e decisivo per la propria identità. Ecco perché credo importante questo paragrafo nella nostra riflessione. Ma quali tipi di ascolto sono possibili?

 

Tre figure di pedagogia pastorale, tre ascolti e tre pedagogie vocazionali

Non ci vuole molta esperienza per renderci conto che vi sono diversi modi coi quali la Chiesa pensa e attua questo suo compito pastorale e pedagogico. Possiamo facilmente riconoscere tre figure pastorali, e in esse identificare altrettante figure pedagogiche vocazionali[27].

 

La bocca senza orecchie (riproposizione)

C’è una pastorale che parte dalla precomprensione d’una Chiesa depositaria una volta per tutte della salvezza, e d’una salvezza che è già stata definita nei suoi contenuti, nelle sue forme celebrative, nelle sue esigenze etiche, nelle modalità relazionali e organizzative che da essa derivano. Si tratta d’una pastorale autoreferenziale, immobile, che fissa non solo le persone e le culture in un unico stereotipo, ma anche il messaggio stesso, dato e detto una volta per tutte. Di conseguenza è una pastorale sorda, oltre che autoreferenziale. Ha la bocca, ma non ha le orecchie. Non che si privi del tutto di ascolto, in essa c’è posto per l’analisi della situazione, fatta però a partire dalla propria visione del mondo e in vista della conferma ulteriore della necessità di questa parola al mondo. È dunque un ascolto del tutto centrato su di sé.

Tale visione di Chiesa e di pastorale ritiene che la conversione ecclesiale da operare sia nella necessità di maggiore chiarezza e coraggio nell’esposizione della verità, quella verità di cui si è parlato sopra. E determina una pedagogia corrispondente vocazionale, una pedagogia che va nella linea prevalente della riproposizione degli stati vocazionali classici, ma con particolare o esclusiva attenzione alle necessità della Chiesa istituzionale (l’ascolto è centrato su di sé) e poca disponibilità a cogliere necessità nuove, prospettive nuove, problemi nuovi, doni nuovi, risorse nuove, vocazioni nuove[28]…, in un mondo che cambia e che dunque suppone e chiede novità. Per lo stesso motivo non sentirà granché l’esigenza di aprirsi a una collaborazione intelligente e complementare con altri agenti educativi, civili (culturali e sociali) e magari neppure ecclesiali (con altri uffici pastorali, come stiamo considerando noi): il problema è visto come solo ecclesiale e, all’interno della Chiesa, come solo vocazionale sacerdotale o tutt’al più religioso (in quanto stato sussidiario per le necessità della Chiesa). Sono tutte conseguenze strettamente collegate tra loro e legate al fatto che qui non c’è ascolto del mondo che cambia e nessuna percezione d’alcun cambiamento.

Semmai c’è il presupposto che una maggiore chiarezza e coraggio nell’esposizione della verità teologica dell’identità sacerdotale sarà sufficiente per un risveglio vocazionale. È una posizione, per intenderci, un po’ neo-illuminista, che dà per scontato che una conoscenza maggiore renderà facile anche la scelta, e che ritiene che oggi vi sia molta pusillanimità e incertezza, quasi un complesso d’inferiorità, negli operatori pastorali a proposito dell’annuncio vocazionale sacerdotale (che può esser anche vero, magari). Per di più, tale indirizzo pedagogico-pastorale vede con sospetto l’allargamento del concetto di chiamata a ogni stato di vita, compreso quello laicale, vi vede il pericolo d’un annacquamento dell’idea autentica di vocazione e della stessa pastorale vocazionale, debole perché generica e confusa, secondo questo approccio.

Interessante quello che potremmo considerare l’indicatore vocazionale di questo tipo di pedagogia vocazionale, anche se non espresso esplicitamente, che sarà costituito prevalentemente dal criterio numerico-quantitativo di nuovi addetti al culto, senza attenzione ad altre opzioni vocazionali. Correndo così il rischio di dare meno attenzione anche alla qualità del chiamato stesso alla vita sacerdotale, del percorso e della testimonianza vocazionale. È un po’ quel che è successo nel passato (e in parte e in certi ambienti sembra ripetersi oggi), quando le vocazioni presbiterali erano tante e il dato quantitativo confortante consentiva di non sentire l’esigenza d’interrogarsi sulla qualità dell’atteggiamento vocazionale della Chiesa in generale e delle singole risposte in particolare (se è vero, infatti, che oggi non tutti quelli che potrebbero consacrarsi si consacrano, ieri non tutti quelli che si sono consacrati avrebbero dovuto farlo…). Per intenderci, sappiamo quanta gente sia deceduta in Italia durante e subito dopo la guerra, nel secolo scorso, a motivo della pellagra: malattia per la quale si moriva pur avendo mangiato e pur sentendosi sazi, perché la polenta, elemento-base d’ogni pasto d’ogni famiglia in quel tempo, non aveva e non ha sufficiente capacità nutrizionale, per cui la gente mangiava, si riempiva il ventre e non avvertiva più gli stimoli della fame, ma in realtà non si nutriva a dovere, e alla lunga moriva: cioè l’indicatore dava segnali positivi, ma era un indicatore sbagliato. Non basta, dunque, fare censimenti vincenti o mirare alla quantità (è proprio vero che “l’uomo nella prosperità non comprende…”). La vita della Chiesa, che si regge sulla qualità della risposta del singolo, d’ogni credente all’appello continuo del Padre-Dio, è altra cosa.

L’impianto di tale stile pastorale con la corrispondente pedagogia vocazionale, come abbiamo accennato, sembra tipico del passato, ma oggi c’è chi ne ha nostalgia ed è convinto che potrebbe risolvere i problemi della crisi vocazionale (e magari va a “reclutare” vocazioni all’estero).

 

Un solo orecchio e tante bocche (riproduzione/clonazione)

C’è una seconda concezione di pastorale e di pedagogia corrispondente, derivante da un’altra autocomprensione di Chiesa, quella pastorale generosa e animata dal desiderio di una comunicazione sincera del Vangelo, con un’intenzione fortemente missionaria. È convinta, questa Chiesa che annuncia, di possedere una perla preziosa, ma si rende conto che fa fatica a comunicarla. E ritiene, allora, che il problema principale sia nel farsi capire, e che questo ascolto da parte degli altri e delle altre, l’unico ascolto che li renderebbe liberi e capaci di risposta vocazionale, sia ostacolato da una serie di filtri e distorsioni uditive culturali e mediatiche. Dunque qui c’è ascolto, e anche ascolto accurato, spesso con ricorso all’indagine sociologica e al dibattito sulla situazione; ma è un ascolto unidirezionale, strategico, in vista di far meglio passare il messaggio, nell’immaginario che esso sia già tutto disponibile, confezionato e pronto per l’uso, fuori in un certo senso da chi lo annuncia e da chi lo riceve. Per questo è unidirezionale, anche se generoso e motivato, legato ancora a una certa idea di vocazione, che è soprattutto quella sacerdotale e religiosa, e anche a una certa idea di Chiesa, ove le altre vocazioni, pur teoricamente riconosciute, sono a un livello un po’ inferiore e meritano meno attenzione.

Ne risulta una pedagogia vocazionale spesso attiva, creativa, ma segnata da questo ascolto di qualcosa che non implica se stessi al punto di rimetterci in discussione. Il messaggio vocazionale è sempre quello, e una volta formulato adeguatamente dall’animatore vocazionale dipenderà solo dal destinatario del messaggio recepirlo o no, rispondervi o no. Ma l’animatore non si sente coinvolto più di tanto, la sua fatica sarà solo quella di trovare le modalità comunicative più efficaci e le argomentazioni più convincenti. Ascolta dunque l’altro, ma se dice di no, o si dichiara non interessato, lascia subito lì, non s’interroga sul suo modo di proporre o sul significato di quel diniego (che forse non è solo negativo), sul contenuto della sua proposta e sulla sua pretesa (magari implicita) che essa contenga l’indicazione ottimale per tutti o per i più bravi, sulla capacità del suo annuncio di aprire (non chiudere) strade o sulla veridicità della sua idea di vocazione…, non è disposto a metter in discussione tutto ciò, o tutt’al più è disposto a rivederlo ma solo per raggiungere l’obiettivo che lui ha in mente, e che non è stato minimamente scalfito dalla risposta negativa dell’altro. Non gli viene nemmeno in mente che quel “no” alla proposta vocazionale sacerdotale esplicita non può in ogni caso negare l’esigenza vocazionale profondamente inscritta in ogni essere umano, in ogni giovane, e che sulla base d’essa può forse ritrovare un nuovo rapporto col giovane stesso come essere comunque vocazionale, aperto senz’altro in una qualche prospettiva vocazionale.

Ma allora deve chiedersi se la sua idea di vocazione a senso unico sia corretta; se la sua idea di Chiesa come assemblea di …pochi chiamati e meno ancora chiamanti sia evangelica; se quel “no” nasconda dei “sì” da portare a galla e su cui potrebbe e dovrebbe investire nella relazione col giovane; se sia corretto (o evangelico) piantare un giovane (=dargli il messaggio che non m’interessa) perché si dice non interessato all’idea di farsi prete. Con tutta la conversione che questo implica e che spesso è invece assente dai programmi di animazione vocazionale.

C’è perciò pragmatismo volonteroso, da un lato, e sostanziale rigidità sui contenuti della proposta. E allora il solerte animatore andrà altrove per ripetere ad altri lo stesso invito e la stessa rigida procedura d’azione: o prendere o lasciare. Insomma, un solo orecchio e tante bocche. In fondo mira alla riproduzione di sé, quasi alla clonazione. Dunque certamente costui non s’accontenta, come nel primo caso, di ribadire con chiarezza l’identità teologica, sarà più accorto e intraprendente, anche più moderno e convincente, ma sarà ancora sostanzialmente schiavo d’una logica vocazionale piuttosto ristretta e riduttiva. Una logica che suppone un mondo che non è cambiato per niente o, tutt’al più, è cambiato ma non al punto che anch’io cambi. E normalmente avviene, come inevitabile conseguenza, che quando l’idea di vocazione è riferita solo a un certo tipo di chiamate non scatta alcuna esigenza di collaborazione con altri servizi di pastorale, o al contrario, avremo un clima di competizione e concorrenza, o di uso strumentale della collaborazione, accettata solo se l’altro lavora per i miei obiettivi e secondo i miei schemi.

L’indicatore pastorale di questa pedagogia sarà rappresentato, anche in tal caso come in quello precedente, dal numero di quelli che entrano in seminario o dal criterio mercantile. E se il modello precedente sembra tipico di tempi passati, questo sembra molto spesso lo stile attuale di procedere nel campo vocazionale.

 

Due orecchie e una bocca (generazione e autorigenerazione)

C’è una terza concezione di pastorale vocazionale, rispondente a una diversa autocomprensione di Chiesa, quella in teoria sottesa al testo di 1 Gv 1,14, e al Documento della CEI sulla comunicazione della fede in un mondo che cambia, soprattutto quando raccomanda “lo sforzo di metterci in ascolto della cultura del nostro mondo, per discernere i semi del Verbo già presenti in essa, anche al di là dei confini visibili della Chiesa. Ascoltare le attese più intime dei nostri contemporanei, prenderne sul serio desideri e ricerche, cercare di capire che cosa fa ardere i loro cuori e cosa invece suscita in loro paura e diffidenza, è importante per poterci fare servi della loro gioia e della loro speranza. Non possiamo affatto escludere, inoltre, che i non credenti abbiano qualcosa da insegnarci riguardo alla comprensione della vita e che dunque, per vie inattese, il Signore possa in certi momenti, farci sentire la sua voce attraverso di loro”[29]. Una pastorale che prende sul serio questo testo è pastorale convinta che il Vangelo è tutto dato e tutto da esplicitare, e che in questo lavoro di inesauribile ermeneutica sono necessarie due orecchie, due fedeltà insieme: all’evento che ci ha generato e alla cultura dentro cui viviamo, al Vangelo e alle donne e agli uomini d’oggi. Una Chiesa così sa di non esser fuori da questo processo vivo e mutevole, come sa di poter dare nella misura in cui riceve.

La pedagogia vocazionale che esprime questo modello di Chiesa non è funzionale semplicemente a far passare meglio il Vangelo e neppure a produrre unicamente vocazioni d’un certo tipo, ma a comprendere essa stessa sempre meglio il Vangelo e la propria identità ecclesiale a partire da esso, a lasciarsi arricchire e definire nella propria identità da questo duplice ascolto. Se, infatti, la Chiesa è evento vocazionale (comunità di chiamati e chiamanti) è se stessa nella misura in cui la chiamata che viene dall’alto (da quel Dio che chiama perché ama, e dunque chi-ama sempre) è riconoscibile e udibile, apre nuovi orizzonti e traccia nuovi percorsi, genera nuove risposte e nuovi chiamati. Per questo l’ascolto di cui parliamo genera e rigenera la Chiesa, e la rende generatrice di vita e di vocazioni, perché da questo ascolto capta la realtà e la ricchezza, prima ancora che la necessità e l’urgenza di nuove vocazioni. Così la Chiesa riscopre se stessa e la propria identità, di comunità continuamente chiamata-chiamante ma che non è autrice e proprietaria né destinataria finale delle vocazioni.

Per questo potremmo addirittura dire che questa pastorale fonda un’autentica pedagogia vocazionale, del dialogo vocazionale, nella quale tale dialogo non è solo strategia missionaria (o mercantile come nel caso precedente), ma il tratto distintivo della sua identità, tutta data e tutta da costruire, e questo perché anzitutto la vocazione nella Chiesa non è solo funzione o risposta a una necessità istituzionale, ma è prima di tutto espressione dell’immagine del Creatore impressa nella creatura, immagine evidentemente inesauribile e dunque fonte della straordinaria varietà delle vocazioni nella Chiesa. E se da un lato il dialogo vocazionale conduce al vero scopo d’ogni pastorale (portare il credente all’incontro dialogico con Dio), dall’altro è solo nel dialogo e nel dialogo vocazionale e attraverso esso che possono emergere le varie vocazioni nella Chiesa, come tratti distintivi del volto del Figlio, è solo tramite il dialogo che l’animatore vocazionale può contemplare con sorpresa la novità delle chiamate e favorire l’originalità delle risposte, lasciandole emergere tutte nella loro inedita novità, frutto della fantasia dello Spirito, senza inibirle imponendo loro uno sbocco unico, né violentarne l’originalità. Se ogni essere umano ha la propria vocazione fin dal momento della nascita, esistono necessariamente nella Chiesa e nel mondo varie vocazioni. “La Chiesa particolare è come un giardino fiorito, con grande varietà di doni e carismi, movimenti e ministeri”[30].

Proprio per questo il Documento del Congresso europeo vocazionale ha un paragrafo che fa proprio da pendant al n. 34 del Documento della CEI già citato, e domanda alla Chiesa di stare in ascolto delle “attese degli uomini, di leggere quei segni dei tempi che costituiscono codice e linguaggio dello Spirito Santo, di entrare in dialogo critico e fecondo con il mondo contemporaneo”[31], per poi specificare che “ogni vocazione è ‘necessaria’ e ‘relativa’ insieme. ‘Necessaria’, perché (attraverso essa) Cristo vive e si rende visibile nel suo corpo che è la Chiesa e nel discepolo che ne è parte essenziale. ‘Relativa’, perché nessuna vocazione esaurisce il segno testimoniale del mistero di Cristo, ma ne esprime solo un aspetto. Soltanto l’insieme dei doni rende epifanico l’intero corpo del Signore. Nell’edificio ogni pietra ha bisogno dell’altra (1 Pt 2,5); nel corpo ogni membro ha bisogno dell’altro per far crescere l’intero organismo e giovare all’utilità comune (1 Cor 12,7)”[32].

E allora sarà una pedagogia di grande ascolto e rispetto perché si realizzi la vocazione della Chiesa, quella di essere “madre di vocazioni perché le fa nascere al suo interno…, le protegge, le nutre e le sostiene”[33], ma anche “figlia” in qualche modo di questa fioritura vocazionale, o sua espressione e frutto, continuamente da essa rigenerata. Una Chiesa in cui solo alcuni meritano o sono considerati degni di esser chiamati a esser o fare qualcosa vive male, è come anchilosata e sbilanciata, e dà una scadente immagine di sé, anche se questi chiamati fossero tanti e santi; solo una Chiesa in cui tutti sono chiamati (e chiamanti) è autenticamente se stessa. Per questo, ancora, tale pedagogia non sarà solo “operatio ad extra”, ma pure “ad intra”, perché questa fioritura ridefinisce in continuazione la comunità ecclesiale, la rende più ricca e più viva, più dinamica e responsabile del dono ricevuto, più attenta e aderente al mondo che cambia[34].

L’indicatore pastorale di questo stile pedagogico sarà allora esattamente questa fioritura, ovvero il fatto che ognuno (idealmente) possa scoprire e realizzare la propria vocazione, o che nella comunità credente si possa crescere tutti, giacché “nella Chiesa del Signore o si cresce insieme o non cresce nessuno”[35]. E se qualcuno pensa che tutto ciò concorra a un certo genericismo o appiattimento vocazionale o non risponda ai reali bisogni della comunità credente riunita attorno all’Eucaristia e a chi la celebra, rispondiamo che è esattamente il contrario, perché solo questo modo d’intendere la vocazione e d’interpretare l’animazione vocazionale creerà a lungo termine una autentica cultura vocazionale, come terra feconda per la nascita di vocazioni sacerdotali; inoltre, questo tipo di animazione vocazionale si rivolge a tutti, non solo ad alcuni (ai più buoni) e proprio perché non finalizzato esclusivamente alla vocazione sacerdotale può proporre a un certo punto tale ideale di vita con maggior forza convincente.

Certo, in pratica non è sempre semplice evitare alcuni rischi e squilibri in questo tipo di pastorale pedagogica vocazionale, legati soprattutto alla fatica di dosare intelligentemente la tensione tra identità ecclesiale già tutta data e assieme tutta da costruire. Più in concreto il pericolo appena citato d’un certo appiattimento vocazionale potrà in certi casi esser reale, ma è proprio per questo che si rivela provvidenziale la collaborazione tra diverse forze pastorali nella Chiesa, senza gelosie, invadenze e concorrenze. È questa in ogni caso la pastorale e pedagogia vocazionale dei nostri tempi, di cui c’è bisogno oggi.

 

 

 

LA “CONVERSIONE” DELLA PASTORALE VOCAZIONALE:
VERSO LA PASTORALE UNITARIA

 

C’è allora una conversione richiesta alla pastorale vocazionale in questo mondo che cambia: quella, fondamentalmente, di non esser e non mettere in atto una pastorale vocazionale per un mondo che non cambia, che non è cambiato rispetto a un tempo, ma di saper cogliere il nuovo che lo Spirito ha creato e continua a suscitare e di conformare la propria azione a questa novità. Più in concreto la conversione a essere 

meno autoreferenziale e sempre più ecclesiale,

aperta alla ricchezza del dono che viene da Dio e non legata a una lettura

riduttiva e interessata d’esso,

sempre più in dialogo con un mondo che cambia

e sempre meno rigida e chiusa in se stessa.

Solo una pastorale convertita in tale direzione sarà capace di entrare in collaborazione con altri agenti ecclesiali o con altri uffici pastorali.

E se vogliamo ancor più in concreto definire questi due principi, o coglierne le implicanze pedagogiche, io non trovo niente di meglio del cosiddetto decalogo indicato sempre dal Congresso europeo vocazionale, a significare quel “salto di qualità” chiesto dal Papa nel suo Messaggio a fine Congresso. Con questa espressione, annota il Documento, si vuole indicare, in buona sostanza, che la pastorale vocazionale in Europa è giunta a un certo snodo storico, a un passaggio decisivo. C’è stata una storia, con una… preistoria e poi delle fasi che si sono lentamente succedute, lungo questi anni, come delle stagioni naturali, e che ora devono necessariamente procedere verso lo stato “adulto” e maturo della pastorale vocazionale. Non si tratta dunque né di sottovalutare il senso di questo passaggio, né d’incolpare nessuno per quello che non si sarebbe fatto nel passato; anzi, il sentimento nostro e di tutta la Chiesa è di sincera riconoscenza verso quei fratelli e sorelle che, in condizione di notevole difficoltà, hanno con generosità aiutato tanti ragazzi/e e giovani a cercare e trovare la loro vocazione. Ma si tratta, in ogni caso, di comprendere ancora una volta la direzione che Dio, il Signore della storia, sta imprimendo alla nostra storia, anche alla ricca storia delle vocazioni in Europa, oggi dinanzi a un crocevia decisivo.

– Se, ad esempio, la pastorale delle vocazioni è nata come emergenza legata a una situazione di crisi e indigenza vocazionale, oggi non può più pensarsi con la stessa precarietà e motivata da una congiuntura negativa (l’angoscia vocazionale genera solo angoscia, non vocazioni…), ma – al contrario – è espressione stabile e coerente della maternità della Chiesa, aperta al piano inarrestabile di Dio, del Padre che sempre genera vita in essa;

– se un tempo la promozione vocazionale si riferiva solo o soprattutto ad alcune vocazioni, ora si dovrebbe tendere sempre più – idealmente – verso la promozione di tutte le vocazioni, poiché nella Chiesa del Signore o si cresce insieme o non cresce nessuno;

– se ai suoi inizi la pastorale vocazionale provvedeva a circoscrivere il suo campo d’intervento ad alcune categorie di persone (“i nostri”, quelli più vicini agli ambienti di Chiesa o coloro che sembrano mostrare subito un certo interesse, i più buoni e meritevoli o che vengono da buona famiglia, quelli che hanno già fatto un’opzione di fede ecc.), adesso s’avverte sempre più la necessità d’estendere con coraggio a tutti, almeno in teoria, l’annuncio e la proposta vocazionale, in nome di quel Dio che non fa preferenza di persone, che sceglie peccatori in un popolo di peccatori, che fa di Amos, che non era figlio di profeti ma solo raccoglitore di sicomori, un profeta, e chiama Levi e va in casa di Zaccheo, ed è capace di far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre (cfr. Mt 3,9);

– se prima l’attività vocazionale nasceva in buona parte dalla paura (dell’estinzione o di contare di meno) e dalla pretesa di mantenere determinati livelli del passato (di presenze o di opere), ora la paura, che è sempre un po’ pagana e pessima consigliera, cede il posto alla speranza cristiana, che nasce dalla fede ed è proiettata verso la novità e il futuro di Dio;

– se una certa animazione vocazionale è, o era, perennemente incerta e timida, da sembrare quasi in condizione d’inferiorità rispetto a una cultura antivocazionale, oggi fa vera promozione vocazionale solo chi è animato dalla certezza che in ogni persona, nessuno escluso, c’è un dono originale di Dio che attende d’essere scoperto;

– se l’obiettivo, un tempo, sembrava esser il reclutamento e il metodo la propaganda, spesso con esiti forzosi sulla libertà dell’individuo o con episodi di “concorrenza”, ora deve essere sempre più chiaro che lo scopo è il servizio da dare all’individuo, a ogni individuo, perché sappia discernere il progetto di Dio sulla sua vita per l’edificazione della Chiesa, e in esso riconosca e realizzi la sua propria verità[36];

– se in epoca non proprio lontana c’era chi s’illudeva di risolvere la crisi vocazionale con scelte discutibili, ad es. “importando vocazioni” da altrove (spesso sradicandole dal loro ambiente), oggi nessuno dovrebbe illudersi di risolvere la crisi… evitandola, poiché il Signore continua a chiamare in ogni Chiesa e in ogni luogo;

– e così, sulla stessa linea, il “cireneo vocazionale”, volonteroso e spesso solitario improvvisatore, dovrebbe sempre più passare da un’animazione fatta d’iniziative ed esperienze episodiche a un’educazione vocazionale che s’ispiri alla sapienza d’un metodo collaudato d’accompagnamento, per poter dare un aiuto appropriato a chi è in ricerca;

– di conseguenza, lo stesso animatore vocazionale dovrebbe diventare sempre più educatore alla fede e formatore di vocazioni, e l’animazione vocazionale divenire sempre più azione corale[37], di tutta la comunità, religiosa o parrocchiale, di tutto l’istituto o di tutta la diocesi, di ogni presbitero o consacrato/a o credente, e per tutte le vocazioni in ogni fase della vita; qui potremmo aggiungere, di ogni espressione pastorale ecclesiale, specie della pastorale familiare e giovanile;

– è l’ora, infine, che si passi decisamente dalla “patologia della stanchezza”[38], inerte e ripetitiva, e della rassegnazione, che si giustifica attribuendo all’attuale generazione giovanile la causa unica della crisi vocazionale, al coraggio di porsi gl’interrogativi giusti, per capire gli eventuali errori e inadempienze, e alla ripresa di nuovo slancio creativo e fervore di testimonianza[39]

Io credo che siamo davvero giunti a un punto storico decisivo. Queste indicazioni hanno contribuito a creare mentalità, ma non hanno ancora prodotto una nuova prassi; non rappresentano ancora il modo normale e sistematico d’intendere la pastorale vocazionale e di operare come animatori vocazionali. Quanto, ad es., si sta facendo davvero un’animazione vocazionale ad ampio raggio, per tutte le vocazioni, per tutte le età, salvo restando il particolare servizio d’orientamento nell’età giovanile, e come impegno che coinvolge tutti? D’altro canto, si dirà, i documenti, soprattutto certi documenti, hanno bisogno d’un certo tempo d’incubazione. Ma forse anche perché è mancata una visione d’insieme del problema, con una conseguente scarsa o nulla collaborazione tra le forze in campo. È certa una cosa, che se si collabora ci deve essere un certo livello di convergenza, a livello di ispirazione originaria e di obiettivo da raggiungere.

 

Punto di partenza: il principio vocazionale

Anzitutto è indispensabile una piattaforma comune tra i diversi agenti che vogliono interagire tra loro, un punto di partenza elementare antropologico e il più possibile ampio, che possa ospitare diverse sensibilità e prospettive, e nel quale ogni persona, idealmente, possa riconoscere il senso della vita. Più è ampio il consenso che esso suscita, più è adatto a costituire il punto d’avvio o a fare scoccare la scintilla della collaborazione. Tanto più questo dovrebbe esser vero nel nostro caso, tra diversi uffici di pastorale che già condividono il dono della fede. Ma proprio questo elemento dato troppo sbrigativamente per scontato ha forse come impedito nel passato di cercare e trovare livelli sostanziosi e veritieri di collaborazione. E quale sarebbe questo principio comune nel caso della pastorale vocazionale? Sarebbe la scoperta del senso della esistenza umana racchiusa in questa espressione:

la vita è un dono ricevuto 

che tende, per natura sua, 

a divenire bene donato.

Questa è verità elementare sull’uomo e l’esistenza terrena. Ogni essere umano vi si può e deve riconoscere. Ma è anche la base da cui può partire e attorno alla quale può svilupparsi una feconda collaborazione tra l’azione educativa nella famiglia e tra i giovani in funzione della scelta fondamentale di vita e di tutte le scelte umane. Se vorranno essere decisioni sagge che vadano nella direzione giusta, dovranno assolutamente rispettare questo principio vocazionale o questa logica vocazionale.

 

Fine comune: l’obiettivo vocazionale

Ma sarà altresì necessario, per ottenere collaborazione, identificare un comune approdo, un medesimo fine, da raggiungere attraverso operazioni specifiche e convergenti dei singoli agenti. Questo punto d’arrivo implica una cammino credente e chiede una scelta esplicita di fede; ha valenza non solo antropologica, ma pure teologica. Il fine comune, nel nostro caso, non potrà esser che quello di

contribuire alla edificazione del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa,
attraverso la crescita dei singoli membri,
ognuno chiamato da Dio a realizzarsi secondo la sua propria vocazione
al servizio di tutti,
perché non manchi alla Chiesa stessa alcun dono di grazia.

Più in concreto: la pastorale familiare conseguirà questo fine comune attraverso l’azione educativa dei genitori verso i figli, perché i genitori stessi vivano ogni giorno della vita il loro esser coniugi e padri e madri come vera e propria vocazione, generatrice di vocazioni; la pastorale giovanile tramite i molti strumenti dell’animazione giovanile perché il giovane impari a lasciarsi chiamare (o a riconoscere l’amore di Chi lo chi-ama) e si convinca che la sua piena realizzazione e felicità è solo nella proposta di Dio o nella realizzazione di Cristo in lui; la pastorale vocazionale l’attuerà con tutto ciò che aiuta e stimola il credente a percepire la voce del Dio che in mille modi lo chiama, indicando precisi cammini di discernimento e accompagnando lungo questi percorsi, senza timore di proporre le chiamate che possono sembrare più radicali. Ma sempre tutto alla luce di quella logica veritativa della vita, vero e proprio principio vocazionale.

C’è dunque una tensione vocazionale insopprimibile in tutte e tre queste pastorali, in tutta la pastorale della Chiesa, in ogni essere umano, poiché il dono della vita è come un’energia che preme verso la piena realizzazione di sé, ovvero verso il dono di sé. La pastorale vocazionale ha forse la funzione di ricordarlo a tutti, dà il suo contributo perché ogni espressione pastorale della Chiesa raggiunga il suo obiettivo e abbia ed esprima tale tensione vocazionale, ovvero rammenta a ogni operatore pastorale che qualsiasi espressione della pastorale cristiana merita tale nome solo se stimola nell’uomo e nel credente l’attuazione di questa logica vocazionale; non cessa di rammentare quel che potremmo chiamare l’ampiezza e la profondità del mistero della chiamata, come atto dell’amore di Dio, che può chiamare alle scelte le più coraggiose e impopolari, costose e per nulla assimilabili a una “sistemazione” di vario genere. Ma ha tutto l’interesse che le due pastorali “sorelle” raggiungano il loro proprio obiettivo e siano se stesse. In concreto e detto molto chiaramente, la pastorale vocazionale se vuole collaborare e ottenere collaborazione non può imporre a operatori della pastorale familiare e giovanile di lavorare per il seminario, ma può e deve stimolare perché sia l’educazione familiare che giovanile siano ognuna intensa e forte, capaci di formare autentici genitori datori di vita e giovani che non si vergognano della loro fede, e non abbia timore di ricordare che la scelta autentica va sempre, per natura sua, verso il dono totale e radicale di sé. In tal senso, allora, e a questo punto la pastorale vocazionale non temerà di proporre anche la scelta sacerdotale e religiosa (senza alcun pericolo, come si vede, di alcun annacquamento e genericismo vocazionale).

Ecco perché potremmo e dovremmo aggiungere un’ultima raccomandazione a quel decalogo, che oggi appare particolarmente urgente e attesa, ed è il tema del nostro Convegno: quella di lavorare in stretta comunione d’intenti e di realizzazioni pratiche con gli altri uffici pastorali, a partire da un principio comune e in vista di un fine comune. In modo particolare con la pastorale familiare e giovanile, con le quali esiste una naturale e inevitabile convergenza di obiettivi e complementarità d’operazioni[40]. Anzi, è proprio questa collaborazione e solo tale collaborazione che può chiedere questa conversione alla pastorale vocazionale e potrà così condurla fuori dalle secche dell’autoreferenzialità. È vero che la pastorale vocazionale, com’è stato detto al Congresso europeo, è la prospettiva originaria e unitario-sintetica della pastorale, o che la vocazione è il “cuore pulsante della pastorale unitaria”[41], dato che la fede stessa è la risposta personale, libera e responsabile all’appello di Dio; in realtà anche le altre due pastorali rivendicano centralità, per motivi quanto mai plausibili sul piano dottrinale e pastorale. Se la Chiesa è quel giardino di cui dicevamo prima è indispensabile che troviamo il modo di lavorare insieme sullo stesso terreno perché fiorisca.

 

 

 

LA CONVERGENZA IN ATTO:
ALCUNI POSSIBILI ITINERARI CONGIUNTI

 

Darò solo qualche veloce indicazione, senza particolari pretese. 

Pastorale familiare vocazionale

– Non è un modo di dire affermare che i genitori sono “i primi naturali educatori vocazionali”[42]. Il primo e fondamentale impianto educativo alla vocazione è offerto da essa, poiché solo i genitori possono trasmettere la verità della vita, quel senso radicale della vita umana o quella logica su cui è costruito tutto l’impianto vocazionale, ovvero il significato dell’esistenza come bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato. È quello che abbiamo chiamato il principio vocazionale, vero e proprio punto comune di partenza d’ogni cammino educativo, vero sul piano antropologico, vero tanto più sul piano della fede. Ebbene, nessuno come i genitori può dare questa certezza e dunque deporre nel cuore e nella mente del figlio la convinzione che la vita sia effettivamente un dono, al di là di tutte le vicissitudini, e come ogni dono tenda a permanere tale, a divenire, cioè, bene donato; la convinzione, dunque anche, che non solo sia necessario dare alla propria esistenza questo orientamento, ma anche condizione di felicità, per cui ognuno potrà fare la scelta che vuole del suo futuro, ma se vuol esser felice non potrà uscire da questa logica; la convinzione, infine, che dare all’esistenza l’orientamento al dono di sé non è cosa straordinaria, ma del tutto naturale e inevitabile, appunto perché la vita è dono in se stessa. È un contributo di enorme importanza, questo, che la pastorale familiare dà alla pastorale vocazionale[43]. La radice o il seme della disponibilità vocazionale è seminata dai genitori; nessuno li può sostituire in questo, e farlo dopo è sempre più difficile. Il genitore che non trasmette questo senso vocazionale della vita è un perfetto diseducatore.

– Se vogliamo ancor più specificare e distinguere, entro un progetto organico vocazionale, compito precipuo dell’educazione familiare è trasmettere soprattutto la prima parte del principio vocazionale: la vita è un bene ricevuto. Che vuol dire la formazione al senso della gratitudine, dell’apprezzamento del dono, della convinzione che tutto quello che ho e che sono l’ho ricevuto, che non sono all’origine di me stesso poiché un altro (un Altro) mi ha preferito alla non esistenza… Da un punto di vista psicologico questo tipo di attenzione forma la cosiddetta sicurezza emotiva, vera e propria “conditio sine qua non” per qualsiasi scelta della vita. Senza questa sicurezza non esiste capacità decisionale. Tale sicurezza oggi è sempre più debole e meno evidente e stabile nella cultura odierna e nelle generazioni giovanili[44].

– Questo implica che il lavoro vocazionale “radicale”e primario è quello con le famiglie. Se vogliamo vocazioni dobbiamo coltivare le famiglie, formare fidanzati e poi genitori a dare questo senso alla vita umana, a trasmettere ai loro figli questa logica vocazionale della vita, a esser loro per primi esempio in tal senso, di generosità, gratuità, apertura agli altri e ai bisognosi in particolare, di senso di responsabilità e solidarietà, di sobrietà e semplicità di vita, coraggio d’affrontare le difficoltà e di rinuncia…

– Soprattutto è importante ricordare che tale educazione al senso vocazionale della vita (educazione all’amore in ultima analisi) non è qualcosa che s’aggiunge ai tanti compiti e doveri familiari, ma ciò che ne dice la verità più intima e profonda. L’educazione vocazionale non è una sovrastruttura dell’educazione familiare, ma ciò che ne esplicita natura e identità, poiché i genitori non sono chiamati a dare solo la vita fisica, a provvedere all’istruzione e alla progressiva e variegata formazione generale del figlio, in vista d’una sistemazione futura, ma devono dargli la vita ecclesiale, aiutarlo a scoprire il posto che ha nella Chiesa, nella comunità dei chiamati e redenti. Solo chi ha chiamato alla vita terrena può educare a percepire l’altra voce, di Colui che chiama alla pienezza della vita.

– Ma allora è necessario uscire da una certa retorica che pure è molto radicata in una certa tradizione cristiana, la retorica nascosta anche in certi modi di dire che sono molto pii e da rispettare, come “offrire i propri figli alla Chiesa”, o la retorica de “il dono più grande che Dio possa fare a una famiglia è il figlio sacerdote”. Intendiamoci, non sto a negare tutto ciò né a fare dell’ironia fuori luogo, il problema è l’idea di vocazione che sta dietro a queste pie espressioni. In questo mondo che cambia e perché cambi nella direzione giusta è necessario insistere sul fatto che in ogni caso il genitore credente è chiamato a offrire il proprio figlio a Dio, cioè alla Chiesa, alla comunità civile, all’impegno sociale o politico…, proprio in forza del senso vocazionale radicato nel significato elementare dell’esistenza umana (“la vita è un bene ricevuto che tende…”; il figlio che è educato dai suoi genitori a scegliere da credente d’impegnarsi, ad es., nel sociale o nel politico a chi è offerto, a Beelzebul?), e che il dono più grande che Dio possa fare a una famiglia è che i figli in essa nati rispondano tutti e ognuno al pensiero di Dio su ciascuno, a quel “sogno” che Dio ha su di essi.

– Ovvio, allora, e siamo al punto strategico del nostro riflettere, che tutto ciò chieda alla pastorale vocazionale di aprirsi alla prospettiva ampia e ricca dell’idea di vocazione, liberandosi dall’interpretazione univoca delle vocazioni di cosiddetta speciale consacrazione. A vantaggio dell’animazione vocazionale stessa, a vantaggio della Chiesa e della comunità civile…

– Ma a vantaggio soprattutto della concezione vocazionale del matrimonio, vera e propria vocazione nella Chiesa che sta a testimoniare il rapporto d’amore tra Cristo e la sua Chiesa. Il punto debole e strategico sembra allora esser proprio questo: la formazione dei genitori (dal corso prematrimoniale alla formazione permanente dei genitori) alla responsabilità vocazionale; è addirittura una delle vocazioni “nuove” oggi, secondo il Congresso europeo, quella “di padri e madri aperti alla vita e al dono della vita, di sposi e spose che nel loro amore testimoniano e celebrano la bellezza dell’amore umano benedetto da Dio”[45].

– Ciò non significa che la pastorale vocazionale non possa e non debba rammentare ai genitori di educare a un ascolto a 360 gradi del progetto di Dio sui loro figli, di aver il coraggio non solo di non escludere, ma di proporre le scelte che possono sembrare le più difficili, come quella sacerdotale e religiosa.

 

Pastorale giovanile vocazionale

Per quanto riguarda il rapporto con la pastorale giovanile mi sembra che anche qui vi possa essere un rapporto di feconda stimolazione reciproca che avrà poi una ricaduta positiva su entrambe.

– Anzitutto, tornando al principio vocazionale come punto di partenza e convergenza, se tocca ai genitori trasmettere la verità della vita come bene ricevuto, tocca alla pastorale giovanile proporre la fede come ciò che incarna ed esalta, rende operativa e consequenziale nella propria storia tale verità (la vita è un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato), consentendo al giovane, al giovane qualsiasi, di attingere e realizzare in pienezza la verità di sé e della vita. Oggi c’è in giro, e nel mondo giovanile particolarmente, una incredibile sete di verità: incredibile e di fatto non creduta perché spesso nascosta e inibita, ma reale. La pastorale giovanile deve saperla riconoscere, proponendo al giovane la fede come ciò che consente di attualizzare il senso della vita così concepito, di sperimentare attraverso percorsi concreti e personalizzati la verità di questa connessione tra bene ricevuto e donato, di cogliere, al di là del limite inevitabile o di esperienze negative passate, la vita come un bene che necessariamente s’apre agli altri.

– La pastorale giovanile compie questo servizio veritativo (e dunque vocazionale) nella misura in cui propone in modo coerente e lineare quegli itinerari pastorali di crescita nella fede (di catechesi e liturgia, di esperienze di koinonia e diakonia) come percorsi nei quali il giovane possa sempre più ritrovare la sua identità e la verità della vita e da cui si senta progressivamente sollecitato a fare delle scelte molto concrete che vadano nella stessa direzione. In concreto, se la educazione familiare deve dare la certezza della vita come bene ricevuto, la formazione giovanile deve stimolare a cogliere la connessione tra bene ricevuto e bene donato, ad attuarla praticamente con scelte coerenti, sviluppando una corrispondente capacità decisionale e trovando sempre più in esse la propria identità. Non basta, vogliamo dire, stimolare al dono o illudersi che l’entusiasmo di certe scelte (magari di gruppo ed episodiche) siano la prova del cammino formativo in senso cristiano. Occorre, invece, trasmettere l’idea che il passaggio dal bene ricevuto al bene donato è inevitabile, è la cosa più logica e naturale che un giovane potrebbe mai fare, nella convinzione che per quanto donerà e si donerà alla vita non pareggerà mai il conto con quello che ha ricevuto.

– Solo a questo punto si può dire che la pastorale giovanile, di fatto, sta creando una mentalità vocazionale, come una cultura giovanile vocazionale. Mentalità o cultura significa qualcosa di universale, che riguarda tutti senza distinzione, poiché quella verità della vita è vera per tutti, e dunque ognuno la deve sentir vera per sé, non solo il giovane straordinario, di buona famiglia e di belle speranze. Anche in questo, probabilmente, dobbiamo uscire da una certa retorica, quella che ci fa rivolgere di fatto la proposta vocazionale solo ad alcuni, ai più bravi e meritevoli, o anche solo ai credenti e fermi nella fede. Il discorso vocazionale è per tutti, perché è tutto costruito sulla logica di questa verità che è per tutti, che è in qualche modo una legge evolutiva, che riguarda ognuno, per cui il giovane qualsiasi deve capire, deve sentirsi dire in modo esplicito che può fare la scelta che vuole nella sua vita, ma non può in ogni caso ignorare quella legge fondamentale, non può scegliere di tenersi per sé il dono della sua vita, non è libero di pensarsi al di fuori di quella logica, non può arrestare l’impeto naturale del dono che tende a esser partecipato agli altri. Non può, semplicemente, perché andrebbe contro una legge naturale e costruirebbe la sua propria infelicità, o diverrebbe un mostro. Per questo la proposta vocazionale può addirittura far parte d’un cammino propedeutico alla fede!

– Quando la pastorale giovanile fa questo, dona un’impronta naturalmente vocazionale alla formazione dei giovani, ponendosi in correlazione con l’educazione di base dei genitori e rispondendo a quell’insopprimibile esigenza vocazionale che è radicata nel cuore o nascosta nell’intimo d’ogni adolescente. È semplicemente impossibile, infatti, che un giovane non voglia cercare se stesso e ciò che rende la sua vita degna d’esser vissuta, il modo di renderla fruttuosa per sé e per gli altri, è impossibile che per questo non senta la necessità di farsi accompagnare da un fratello/sorella maggiore, mediazione d’una voce altra, che nel frastuono assordante delle tante voci attorno a sé, gli dia in qualche modo garanzia di verità, per scoprire la propria identità, il proprio futuro. Tutto cambia nel mondo che cambia, ma non l’esigenza vocazionale nel cuore del giovane. Questo deve assolutamente credere l’animatore giovanile, se non vuol diventare disanimatore vocazionale.

– E allora la tensione vocazionale non è, ancora una volta, una cosa altra, in più, una preoccupazione ulteriore o una sovrapposizione che s’aggiunge alle tante iniziative per giovani, ma è proprio ciò che rende la proposta cristiana interessante, attendibile, come un aiuto in un momento strategico della vita del giovane, una risposta pertinente alle sue attese. Ma anche la domanda con cui si conclude ogni proposta educativa: e allora io, a fronte di questo dono, cosa devo fare? Come quella volta si chiesero coloro che ascoltarono Pietro il giorno di Pentecoste, quando si sentirono trafiggere il cuore (cfr. At 2,37). Vogliamo dire che se non è vocazionale non è pastorale giovanile. Qualsiasi iniziativa, catechesi, esperienza caritativa, incontro di preghiera, omelia, celebrazione di sacramenti… che non abbia un risvolto vocazionale o che non metta la persona dinanzi alle sue responsabilità e di fronte a quell’interrogativo decisivo (io cosa devo fare?) non merita il nome cristiano, non è esperienza cristiana[46]. La pastorale giovanile deve fare riscoprire al giovane la dimensione drammatica della vita, e la vita è drammatica nella misura in cui uno riscopre quella decisione che solo lui può prendere in quel momento della vita, o individua quel posto che solo lui può occupare nella storia, lui e nessun altro. Ecco il passaggio decisivo: dal giovane allegro fruitoreconsumatore d’esperienze al giovane responsabile della sua vita e della salvezza che sa d’aver ricevuto, al punto anche di fare scelte in tal senso totali, di consacrazione radicale all’annuncio della salvezza stessa. In definitiva diciamo che la fede cristiana può esser proposta solo come itinerario vocazionale, e che questo itinerario è un cammino che deve restare aperto in ogni caso e a ogni passo alle provocazioni che vengono da Dio, fino alle più inedite per la persona.

 

La pastorale vocazionale appare ancor più, a fronte di queste considerazioni, come ciò che attiva e mantiene questi collegamenti, o è la buona memoria che impedisce di dimenticare nemmeno per un istante questi raccordi e la finalità fondamentale della crescita cristiana: il compimento del piano di Dio sulla singola creatura. Più in concreto e tornando alla logica del principio vocazionale, diremmo che la pastorale vocazionale sollecita la scelta di vita, dunque quella definitiva, all’interno sempre della logica vocazionale, cioè del principio fondamentale della vita come bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato. E il cerchio si chiude. Sono solo alcune sollecitazioni più immediate, ma che gli operatori pastorali potranno vieppiù arricchire, grazie alla loro esperienza e alla conoscenza dei contesti esistenziali, sul piano civile ed ecclesiale. Ciò che è importante è che in ogni caso si apra questa fase nuova, in cui pastorale giovanile, vocazionale e familiare camminino davvero assieme verso la vocazionalizzazione di tutta la pastorale…

 

 

 

Note

[1] Cfr. P. DONATI (a cura di), Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della pluralizzazione, Milano 2002; cfr. anche il numero di “Famiglia oggi” XXV/11 (novembre 2002).

[2] Secondo una ricerca del CNR di tre anni fa l’Italia ha un indice tra i più elevati d’Europa nell’apprezzamento del “valore dei figli”; mentre l’ultima indagine dell’Associazione demografi italiani conferma che ogni coppia desidera in media 2,2 figli (anche se il 2° figlio è poi una rarità); cfr. G. ANZANI, La clessidra della felicità, in “Avvenire” 8/XII/2001.

[3] Così l’attore Pino Caruso: “Quand’ero figlio io comandavano i padri. Ora che sono padre comandano i figli. La mia è una generazione che non ha mai contato nulla”.

[4] Cfr. G. SAVAGNONE, L’infanzia smarrita, in “Evangelizzare”, 2 (2002).

[5] Nuove vocazioni per una nuova Europa (NVNE), Roma 1998, 5; cfr. anche Familiaris Consortio, 39.

[6] Cfr. A. CENCINI, Lezioni di gratitudine tra le mura domestiche, in “Vita Pastorale”, 5 (2002), 122-123.

[7] Cfr. G. CAMPANINI, Famiglia, in AA.VV., Dizionario di Pastorale vocazionale, Roma 2002, 490.

[8] Ho riportato questi e altri dati, analizzandoli da un punto di vista vocazionale, nel mio Qualcuno ti chiama. Lettera a chi non sa d’essere chiamato, Brescia 2000, pp. 12-18.

[9] Cfr. L. RICOLFI – L. SCIOLLA, Senza padri né maestri. Inchiesta sugli orientamenti politici e culturali degli studenti, Bari 1980.

[10] Cfr. F. GARELLI, La generazione della vita quotidiana. I giovani in una società differenziata, Bologna 1984.

[11] Cfr. S. SCANAGATTA, Giovani e progetto sommerso. Inchiesta sulle tendenze culturali dei giovani negli anni ‘80, Bologna 1984.

[12] Cfr. L. RICOLFI – L. SCIOLLA, Vent’anni dopo. Saggio su una generazione senza ricordi, Bologna 1989.

[13] Cfr. M. CANEVACCI et all., Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Genova 1993.

[14] Cfr. P. CREPET, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano 1993.

[15] Cfr. C. BARALI, Suoni del silenzio. Adolescenze difficili e intervento sociale, Milano 1994.

[16] Cfr. S. BISI – G. BRUNELLO, Ragazzi senza tutela. Le opinioni di undicimila giovani, Venezia 1995.

[17] Cfr. p. CREPET, Cuori violenti. Viaggio nella criminalità giovanile, Milano 1995.

[18] Cfr. COSPES, L’età incompiuta. Ricerca sulla formazione dell’identità negli adolescenti italiani, Leumann-Torino 1995.

[19] Cfr. S. PISTOLINI, Gli sprecati, Milano 1996.

[20] Cfr. F. BAGOZZI, Generazione in ecstasy. Droghe, miti e musica della generazione techno, Torino 1996.

[21] Cfr. F. FARINELLI, La generazione invisibile, in “Rocca” 19 (1998), 20-22.

[22] Cfr. I giovani: lo sbando e la nostalgia, in “Il Gabbiano”, 4 (1998), 12. 

[23] L. CHERUBINI (JOVANOTTI), Il Grande Boh!, Milano 1998. 

[24] Cfr. A. MAZZI, Un’ala di riserva, Milano 2000.

[25] Cfr. C. BuzzI, A. GALLI, A. DE LILLO (a cura di), Giovani del nuovo millennio. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna 2002.

[26] Cfr. A. CENCINI, Scegliere, in “Mondo Voc”, 6-7 (2002), 18-19.

[27] Prendo lo spunto, per questa analisi, da una tavola rotonda sull’ascolto che s’è tenuta recentemente allo Studio Teologico S. Zeno di Verona, e da alcune interessanti intuizioni ivi emerse di E. Biemmi.

[28] Vedi, in tal senso, l’interessante titolo del già citato Documento del Congresso Europeo vocazionale: “Nuove vocazioni per una nuova Europa”.

[29] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 34.

[30] Proposizione 16 del Congresso vocazionale europeo, cit. in NVNE 13a.

[31] NVNE, 19a.

[32] Ibidem, 19b.

[33] Ibidem, 19c.

[34] Ecco come sempre il Documento europeo vede e tratteggia la realtà delle nuove vocazioni in una nuova Europa (cfr. NVNE 12b): È tempo ormai che quell’appello (alla santità) susciti nuovi disegni di santità, perché l’Europa, terra di santi, ha bisogno soprattutto di quella particolare santità che il momento presente esige, d’una santità quindi originale e in qualche modo senza precedenti, di persone, ad es., capaci di “gettare ponti” per unire sempre più le Chiese e i popoli d’Europa e lavorare per la riconciliazione degli animi; di “padri” e “madri” aperti alla vita e al dono della vita, di sposi e spose che nel loro amore testimoniano e celebrano la bellezza dell’amore umano benedetto da Dio; di persone spirituali capaci di dialogo e di “carità culturale”, di quell’attenzione amorevole, cioè, ai valori, ai significati, ai linguaggi della nostra società e al collegamento sempre sorprendente di essi con la trasmissione del messaggio cristiano, che consente di mostrare, ad es., come l’esigenza laica di libertà e soggettività possa esser pienamente appagata dall’esperienza religiosa; di professionisti come di persone semplici capaci d’imprimere all’impegno nella vita civile e ai rapporti di lavoro e d’amicizia la trasparenza della verità e l’intensità della carità cristiana; di donne che riscoprono nella fede cristiana la possibilità di vivere in pieno il loro genio femminile; di presbiteri dal cuore grande, come quello del Buon Pastore, e l’ansia missionaria di recare ovunque e comunque la luce e il sale della Buona Novella; di diaconi permanenti che annunciano la Parola e la libertà del servizio per i più poveri; di consacrati apostoli capaci d’immergersi nel cuore del mondo e della storia con cuore di contemplativo, e di mistici così familiari col mistero di Dio che saprebbero celebrare l’esperienza del divino e indicare Dio presente nel vivo dell’azione; l’Europa ha bisogno di nuovi confessori della fede e della bellezza e luminosità del credere, di testimoni che siano credenti credibili, coraggiosi fino al sangue nel dare ragione della loro speranza perché dia speranza anche a chi non crede, di vergini che non siano tali solo per se stessi, ma che sappiano indicare a tutti quella verginità che è nel cuore d’ognuno e che rimanda immediatamente all’Eterno, fonte del primo e d’ogni amore; la nostra terra è avida non solo di individui santi, ma di comunità sante, così innamorate della Chiesa e del mondo da saper presentare al mondo stesso una Chiesa libera, aperta, accogliente, dinamica, presente nella storia e in questa storia presente d’Europa, vicina ai dolori della gente, accogliente verso tutti, promotrice della giustizia, attenta ai poveri e agli stranieri, non preoccupata della sua minoranza numerica né di ficcare paletti di confine alla sua azione, non spaventata dal clima di scristianizzazione sociale (reale ma forse non così radicale e generale) né dalla scarsità (spesso solo apparente) dei risultati… Son questi i nuovi santi che rievangelizzeranno l’Europa, o che costruiranno la nuova Europa!

[35] Ibidem, 13c.

[36] Cfr. Proposizioni, 20.

[37] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, 64. 

[38] Instrumentum Laboris, 85. 

[39] Cfr. NVNE, 13c.

[40] Circa questa complementarità cfr. A. CENCINI, Complementarità della pastorale familiare nei confronti della pastorale vocazionale, in “Seminarium” XXXV (1995), 4.

[41] La pastorale vocazionale è il punto di partenza e anche il punto di arrivo. In quanto tale si pone come “la categoria unificante della pastorale in genere, come la destinazione finale d’ogni fatica, il punto d’approdo delle varie dimensioni, quasi una sorta di elemento di verifica della pastorale autentica” (NVNE, 26 g).

[42] NVNE, 5.

[43] “La catechesi esplicitamente vocazionale è catechesi sui valori elementari-essenziali della vita, quei valori che dovrebbero esser sottolineati con forza nella pastorale familiare che, a questo punto, diventa come l’humus fecondo sul quale solo può nascere una disponibilità autenticamente vocazionale” (Cencini, Complementarità, 700); cfr. anche NVNE, 26c.

[44] Espressiva d’una certa cultura di morte che genera questa insicurezza è la frase di J.P. Sartre, secondo il quale ogni esistenza “nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per caso” (cit.in “Avvenire”, 5/II/1999, p. 18).

[45] NVNE, 12b.

[46] Cfr. NVNE, 26g.