N.02
Marzo/Aprile 2003

Famiglia e giovani in un mondo che cambia: quali provocazioni dalla e alla pastorale vocazionale?

 

 

 

(Il testo è ricavato da registrazione e non è stato rivisto dall’Autore)

 

Il tema mette in evidenza tre segmenti: vocazione, famiglia, giovani. Ciascuno di essi è un mondo; non è possibile in una breve relazione esplorare tutto questo territorio, neppure sotto l’angolo specifico della relazione che è quello delle provocazioni, delle istanze che la pastorale registra passivamente e attivamente, ricevendole e promuovendole o rispondendovi, in relazione a questi ambiti sensibili. Quindi l’esposizione è costretta a fare una scelta. L’intento è quello di offrire elementi significativi, sapendo di tralasciarne molti.

La prima osservazione è comunque che questi segmenti non sono accostati in maniera occasionale. Certo, se ne possono aprire altri, come si usa fare oggi nella navigazione mediatica, informatica, si possono aprire altri “link”… Ciò che questi segmenti dicono è che la loro correlazione è irrinunciabile. Un trinomio che può diventare un polinomio segnato da reciproca inclusione, per cui il venir meno di uno di questi aspetti incide sull’equilibrio di tutti gli altri. La relazione parte facendo riferimento in senso di orizzonte – ma molto rapidamente, con solo qualche carotaggio, qualche breve approfondimento – alla situazione, al mondo che cambia; per poi soffermarsi su famiglia e giovani, in relazione alla vocazione e dunque alle responsabilità ecclesiali in questo riferimento.

Già la Gaudium et spessegnatamente al numero 54, ma anche in altri passaggi – registrava la nostra epoca come epoca di cambiamento. Lo tematizzano i nostri Vescovi nel Documento del decennio. È una constatazione tanto evidente da sembrare quasi scontata, così come l’elenco dei tanti segnali positivi ma anche problematici e negativi, che questo cambiamento comporta. È necessario, però, ritenere l’esigenza di approfondirlo, di non accontentarsi delle facili diagnosi. Le troviamo ripetute, un po’ affrettatamente; se ne possono indicare tanti nomi: dalla secolarizzazione in su, c’è una serie di etichette che tuttavia nascondono, a volte, la mancata presa di contatto reale con il nostro tempo. Assomigliano a certe diagnosi di medici che non fanno altro che mettere un nome difficile su un disagio che non si sa curare. Allora uno che va col mal di testa dal dottore, e questi gli dice: “È una cefalea, è un’emicrania a grappolo…”, sta molto meglio, dopo!?… Il rischio che noi abbiamo è questo. Allora, vorrei dire alcune cose non ripetendo – se è possibile – luoghi comuni. Anzitutto mettendo in evidenza l’atteggiamento, in chiaroscuro, attraverso alcuni rischi.

C’è il rischio di rincorrere il cambiamento, sempre affannati per essere “al passo coi tempi”, come si dice, entrando in quella sindrome dell’adattamento che è la fonte dei disagi, delle insoddisfazioni: chi si adatta non è mai molto contento. È contento chi è in un posto adatto; è contento chi mette un vestito adatto, chi ne mette uno adattato è meno contento. Rincorrendo, quindi, il tempo affannosamente, rischiando poi anche di appiattirsi sul tempo medesimo e senza accorgersi di contrarre i virus e le patologie del tempo. D’altro canto, c’è anche l’altro rischio: quello di dire che in fondo poi le cose non sono tanto diverse da prima, soprattutto poi se ci si riferisce all’Italia: “Ma l’Italia non è come gli altri paesi disastrati, dove tutto va a rotoli… noi abbiamo ancora tanti praticanti…” … è vero, forse! – è un giudizio difficile da dare –, ma mi sembra un po’ un volersi nascondere dietro un dito. L’Italia ha i suoi pregi; pastoralmente parlando è una nazione viva e vivace – grazie a Dio e a coloro che vi operano – e tuttavia non è priva di problemi. Soprattutto, questi problemi sono dello stesso segno, anche se non hanno la stessa identica fisionomia, di quelli che registriamo in altre realtà del mondo occidentale, purtroppo, più desertificate, pastoralmente parlando, della nostra. Non bisogna dormire sugli allori.

Ecco, il tema vocazionale è uno di quelli che ha dato la sveglia. Qualcuno si sta ancora stiracchiando, sta ancora sbadigliando, ma ha poco tempo per farlo, perché tra una decina d’anni anche quelli che non si sono ancora svegliati dovranno farlo, inesorabilmente! E dunque bisogna evitare le diagnosi facilistiche e di comodo. D’altro canto nessuno di noi vuole associarsi ai profeti di sventura, cadere nel pessimismo, che è assolutamente contrario alla fede cristiana, che – come ricordava il Papa, richiamando questa espressione di Giovanni XXIII – ha il tono della speranza, che non viene mai meno. Il giudizio pessimistico è l’anticamera della ritirata, della pastorale di rassegnazione, di quella che si impigrisce nelle lamentazioni. Io dico sempre che la pastorale scrive troppo spesso pagine inutili di due libri inutili. Uno è stato ricordato prima da don Luca Bonari, quello delle “buone intenzioni”, l’altro è quello “delle lamentazioni”: non serve né l’uno né l’altro. Io penso che questo Convegno non voglia aggiungere pagine a questi due libri già troppo corposi.

Si tratta, in realtà, di far risuonare la parola del Vangelo, cioè della Bella Notizia, in questo mondo che cambia, avendo il coraggio – e cito l’Evangelii nuntiandi al numero 19 – di “raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e con il disegno di salvezza”. Detto così suona anche bene. Farlo, passare dall’obiettivo al come, è impresa certamente di grosso impegno, di grande coraggio. Perché questo nostro tempo presenta caratteri che non possono non sollecitare una attenzione molto vigile, molto forte, certamente preoccupata anche se non inquieta. Entro in qualche rapidissimo approfondimento di carattere generale, prima di passare a quelli specifici della tematica proposta.

 

Fattori salienti

La perdita del centro

È di facile constatazione che non siamo in una società di tipo cristiano, non siamo in ogni caso in una società di tipo omogeneo. Siamo in una società frammentata. Questa osservazione l’avete trovata mille volte. Subito questo ci dice una esigenza: è una istanza, è una provocazione, perché se no ci fermeremmo alla diagnosi dell’etichetta e alla lamentazione dei piagnoni. Questo dice immediatamente che la rilevanza della fede cristiana, la sua significatività esige di marcare l’originalità del suo profilo. La fede cristiana non è una fede “contro”, ma certamente non rinuncia in alcun modo, per una malintesa acquiescenza, ai propri profili, alla propria specificità. Certo, tanti secoli nei quali ha svolto il compito di religione civile, tanti secoli nei quali nei nostri paesi religione e religione cattolica si identificavano, hanno prodotto una sorta di scarsa capacità, quasi di reticenza, di sguarnitura nei confronti di tutto questo. Noi siamo ben contenti quando si mostrano e si manifestano autentiche espressioni di religiosità, ma dobbiamo anche sottolineare – non contrapporre – quella che è la specifica fisionomia della fede cristiana. Non possiamo non domandarci perché, in una situazione nella quale di cristianesimo si sa poco o nulla, eppure ci sono alcuni luoghi comuni che persistono pervicacemente. Se non si vogliono frequentare le aule di catechismo (anche perché quelle dei giovani e degli adulti sono luoghi di specie protette, in via di estinzione…, ma) se non si vuole frequentare questi luoghi, basterà accendere la televisione e seguire certe trasmissioni di quiz per sapere quanto non si sa. Domandate che cos’è il peccato. Domandate la concezione sulla vita e sulla morte. Domandate la concezione della corporeità e della sessualità. Domandate cosa dice la fede cristiana sulla creazione del mondo in relazione alla scienza. Cito alcuni punti nevralgici, e troverete immediatamente il persistere di risposte che non hanno quasi nulla a che vedere con l’autenticità della fede cristiana.

Ancora, la testimonianza. Emerge qui la necessità che all’interno della comune dignità cristiana, che sta al primo posto – lettura del breviario di oggi, la fine della lettura di S. Gregorio nazianzeno: la dignità, l’essere cristiani, il nome di cristiani prima di ogni altra dignità e nobiltà – le forme molteplici della vita consacrata, della vita religiosa, ritrovino il modo di esprimere in maniera significativa l’originalità cristiana, cosa che è loro compito, nella sua prospezione escatologica e nella sua accentuazione della esigenza – che è di tutti, non solo loro – della fondamentale pratica dello stile dell’esistenza cristiana.

Come si vede già da subito emergono compiti specifici. C’è moltissimo da fare anche sotto questo profilo e bisogna ricordare che non è necessario conoscere tutto sulla comunicazione (se ne parla moltissimo, se ne sa mica tanto) ma ricordare sempre che la comunicazione avviene quando il destinatario ha recepito. E fino ad allora non è sufficiente dire: “Ma noi abbiamo fatto bene. Noi siamo a posto in coscienza. Noi facciamo il nostro dovere”. Se l’altro capisce un’altra cosa, abbiamo il dovere di fare in modo, modificando ciò che c’è da modificare, che capisca con esattezza. È stato un cruccio anche per Gesù che veniva spesso frainteso. Ma non è che con questo abbia detto: “Brutti e cattivi! Non capite? Peggio per voi!”.

Fine delle comunità statiche. Un altro aspetto della perdita del centro. Cioè, l’identificazione facile con la comunità territoriale viene meno, non solo per quanto riguarda la vicenda delle comunità sul territorio, ma in generale. C’è un intreccio molteplice di fattori (che qui non possono essere esaminati) ma anche questo mette in evidenza un fattore che interroga profondamente. Il legame stabilito delle vocazioni ministeriali con la territorialità circoscritta è un punto di forza che deve rimanere, ma non può rimanere nella esclusività di questo legame territoriale circoscritto. Se questo legame non si intreccia, perde una dimensione tipica della mobilità del nostro tempo.

 

La dissipazione simbolica

Il nostro è un tempo in cui i simboli si sono infranti, le “grandi narrazioni” non riescono più a fare da riferimento per l’esistenza. Ecco qui un punto che ci tocca molto da vicino. È chiaro a tutti che un punto veramente nevralgico sotto questo profilo è dato dalla perdita del codice del sacro. Il codice è ciò che ci permette di entrare dentro un universo linguistico, per esempio, comunicativo, di comprensione.

Sia la figura del ministero ordinato sia la figura della vita consacrata è stata compresa, integrata, collocata fino a non molti decenni fa – facciamo data dal ‘68 per intenderci – dentro il codice del sacro. Il codice del sacro è oggi assolutamente incomprensibile in quella forma; parla una lingua sconosciuta. È come uno che trovasse un testo di una lingua che non è stata decifrata. Questa è una delle ragioni di quella che è stata chiamata crisi d’identità delle figure di speciale consacrazione – come si dice abitualmente nell’ambito ecclesiale -, da non confondere con quelle che possono essere crisi d’identità personali, che è tutto un altro capitolo. È una crisi culturale.

Questo aspetto si è associato con un altro, quello cioè per cui la società è venuta organizzandosi per sistemi autoreferenziali. Da una società integrata, dove le persone appartengono prima di tutto a una relazione intersoggettiva, e poi appartengono al mondo del proprio ruolo, della propria funzione, si è passati ad una società, invece, a dissezione sistemica. Traduco in italiano. In un paese, ma anche nella città medio-piccola, nel quartiere la gente si conosceva per nome, aveva relazioni intersoggettive, poi uno era anche l’insegnante, il medico, il maniscalco, etc. Questa cosa si è completamente rovesciata. Le persone oggi si incontrano, nella stragrande maggioranza dei casi, in ragione della funzione che svolgono. Il parroco non è il “tale”, conosciuto dalla sua gente, perché magari andava all’osteria a giocare alle carte, o meglio conosciuto perché diceva tre rosari… Il parroco è conosciuto perché svolge quella funzione. La maggior parte dei parrocchiani, oggi, salvo i piccolissimi centri, intercetta le figure in quanto ruoli, non in quanto soggetti.

Insieme questi due fattori hanno inferto un colpo mortale alle figure istituzionali in genere, ma certamente alle figure ecclesiali. Un colpo mortale. Bisogna rendersi conto che certi fenomeni sono avvenuti per un cambio culturale che non è colpa di nessuno, ma bisogna rendersi conto della sua realtà. Questo è anche la ragione della fatica, a volte, che coloro stessi che sono investiti di questi ruoli trovano nel realizzarli, nell’interpretarli, nel codificarli di nuovo. Ed ecco allora la tentazione di ridursi a ruolo-funzione; e dunque di recuperare al ribasso una plausibilità della propria attività. Ma dentro questo recupero la figura diventa sempre più diafana e sempre meno appetibile. Detto in moneta spicciola: se il prete diventa quel funzionario che è deputato a determinate prestazioni, quand’anche prestazioni riconosciute e generalmente apprezzate, se è una figura di funzionario, allora quanti giovani si sentiranno attratti da quella figura? Dico sempre: uno fa il concorso alle Poste… ha meno impicci, meno incombenze, guadagna di più, perché mai dovrebbe fare una cosa diversa? Se il religioso e la religiosa sono qualificati non per la loro figura, ma per il servizio che compiono, l’unica cosa che si percepisce è: “Certo, quando c’erano le suore non guardavano l’orologio…”. Sì, sì, tutte belle cose, per carità, un pochettino terra terra, un pochettino pragmatiche. Dovremmo pregare per le vocazioni religiose, perché ci siano ancora negli ospedali, negli asili le persone che non stanno con l’orologio in mano? Sarà questo il connotato? Ma questo è ciò a cui siamo progressivamente spinti!

Sullo sfondo c’è anche lo sfaldarsi del codice istituzionale. Ha scritto Alain Touraine in un bel libro, interessante, sul problema del multiculturalismo, una frase che cito: “Viviamo in un mondo di mercati, comunità e individui; non più in un mondo di istituzioni. Il termine stesso che è stato la chiave di volta della sociologia classica, va sgretolandosi, tanto le pratiche sopravanzano le regole”. Allora le figure istituzionali perdono di portata. Resistono pochissimo. In campo ecclesiastico ce ne è una sola che ha resistito, ma non so se ha resistito perché è istituzionale o perché chi l’ha interpretata è stato capace di farla resistere – scegliete voi –. Avete capito di chi sto parlando… Poi le altre figure, come figure istituzionali, valgono dentro il nostro mondo (società sistemica autoreferenziale). Al di fuori della nostra cerchia la tenuta istituzionale di queste figure è poco, ben poco, in quanto figure istituzionali. Se reggono, reggono sulla propria capacità, e questo naturalmente mette in evidenza un altro cespite fondamentale: non è più possibile parlare di vocazioni a compiti ecclesiali rilevanti se non vengono coltivate delle personalità forti. Ho detto apposta “se non vengono coltivate”, perché non mi riferisco al fatto che allora bisogna scegliere soltanto quelli che ce l’hanno già. Io credo nella forza dell’educazione, della coltivazione. Certo, un minimo lo deve avere. Non tutti diventano Giotto, non tutti diventano Einstein, però uno ben coltivato può diventare comunque un bravo pittore, un bravo matematico, un bravo fisico. Ma questa coltivazione è necessaria. Se me lo consentite – visto che questo è il mio lavoro primo e principale – a me sembra di registrare nel sottofondo ecclesiale invece l’idea che, per esempio, “studiare… sì, bisogna farlo, perché bisogna pur tirare avanti quegli anni e fare quegli esami… però questo con la vita della Chiesa, non c’entra mica molto…”. Questo è, a mio parere, drammatico. Capisco che forse, nel caso specifico, dipende anche dal fatto che noi dovremmo fare una teologia migliore, questo d’accordo; ma in questo nostro mondo, attribuire un compito di figura di riferimento a una persona che non ha profilo, significa condannarlo a una vita infelice e significa generare la sua sterilità, perché non sarà più capace di produrre. Forse potrà clonarsi! Ma non genererà vocazioni. E non è una battuta o un gioco di parole.

È dunque necessario ripristinare fortemente nell’orizzonte, bisogna reintrodurre con forza l’interrogazione, la capacità di guardare in faccia ai problemi fondamentali. Ce lo diciamo da tempo ormai. Perché la nostra gente, quando ha dei problemi di fondo sugli interrogativi, troppo spesso ormai va a bussare a tante porte che non sono le nostre? Non è una cosa nuova, l’ho trovato in Pascal, nei Pensieri, quando grossomodo dice: Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma a un certo punto ero disgustato perché non potevo comunicare con gli altri. Allora cominciai lo studio dell’uomo, e pensavo che avrei potuto parlarne con gli altri… credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo… Sbagliavo! Sono meno ancora di quelli che studiano le matematiche. Può darsi che troviamo difficoltà a inserire questo coraggio, ma non possiamo battere la strada delle emozioni facili, cioè non autentiche. Le emozioni sono importanti. Ma proprio perché sono importanti, sono una cosa seria, e non sono quelle che coprono, mai, il vuoto della testa.

 

L’ipertrofia del soggetto

Siamo in una società di soggetti, di “singles”. L’esplosione della soggettività è il portato dell’illuminismo e nell’ultima modernità è anche la ritorsione tremenda che conduce alla fine del soggetto. Raduno il tutto in un’immagine: Prometeo, Narciso, Ulisse. Dall’illuminismo è stato vestito da Prometeo e mantiene questa sembianza incoraggiato dai successi strepitosi delle scienze soprattutto applicate, e della tecnica. Ma quando si guarda allo specchio, il suo volto è come quello di Narciso. Perché riconosce solo se stesso, non riesce ad aprirsi agli altri. Tutto viene giocato nella forma del riferimento a sé e non in quella della relazione. Cosa dicono i nostri ragazzi? “Quando mi sento!”, “Mi trovo bene con …”. Questo è il giudizio morale: la morale del gusto (mi piace), e via discorrendo. Uno sta, finché sta bene, poi quando non sta bene, cambia. Ecco Narciso, con tutto quello che ne consegue, ma dentro di lui – non in tutti i casi, ma spesso – vive ancora l’inquietudine di Ulisse. Un’inquietudine che lo porta non a guardare nel profondo, ma a vagare in una sorta di nomadismo spirituale. Naturalmente sono generalizzazioni, sia ben chiaro, ciascuno è se stesso. Ma sono tratti rilevanti. Come diceva Martin Buber: “L’uomo del nostro tempo è come un viandante che porta la sua tenda nel suo zaino e non sa nemmeno dove piantare i pioli”. Al centro non è più la realtà. Al centro è il soggetto. E allora è chiaro che questo comporta una radicale difficoltà a immaginare una progettualità di vita che disegni i propri tratti identificando il centro in una esposizione di sé. È una autorealizzazione che il soggetto fa girando su se stesso. È un Ulisse che non ha una meta, che non sta tornando a Itaca, non sta nemmeno andando a scoprire, oltre le Colonne d’Ercole, mondi sconosciuti. È l’Ulisse inquieto, tormentato e quindi sempre tornante su se stesso, da Joyce in qua.

A questo si unisce quel tratto ultimo di orizzonte che è la perdita della visione del futuro. Questo a me sembra l’aspetto più drammaticamente inquietante della svolta dell’ultimo trentennio. Fino al Sessantotto la storia dell’Occidente è stata vissuta come una storia progressiva. Anche quando la cultura diffusa ha abbandonato l’idea di un andare incontro al Signore che viene, di una vita eterna, l’ha mantenuta, svestita di ogni contorno escatologico e religioso, come tensione nel progresso. Anche Marx mantiene questa dinamica tipicamente biblica dell’andare verso: verso la società perfetta, la società senza classi. C’è un messianismo in tutto questo, anche se è rimasto senza Messia. L’ultimo trentennio ha invece segnato, da questo punto di vista, una cesura drammatica. La mentalità comune non va più “verso”, per questo il nostro tempo è ricco di capacità programmatica ed estremamente povero di capacità progettuale. Naviga a vista. Questa è un’insidia formidabile. Noi non possiamo pensare al riemergere di vocazioni, in generale – questo tocca qualsiasi tipo di scelta, la famiglia, per esempio –, che abbiano consistenza, quando l’idea di fondo è questa, la convinzione diffusa è questa.

 

Le trasformazioni della famiglia

Tante volte noi pensiamo che certe scelte, certi decadimenti – pensiamo alla famiglia –, siano dovute ad un abbassamento della caratura morale delle persone. Ma neanche per sogno, non è vero! Siamo noi che siamo dei moralisti inguaribili. Ci sono delle condizioni completamente diverse, sociali anzitutto, per quello che riguarda la famiglia, come è facilmente comprensibile: la famiglia unita e numerosa è funzionale a un certo tipo di società e di economia. Questo tipo di società e economia non c’è più, quindi questi elementi non tengono, emergono altre dinamiche, che ci sono sempre state, ma coartate da questa tenuta. Dal punto di vista culturale c’è l’idea di fare qualche cosa, c’è l’idea del nonno che pianta, mette giù la piantina, perché la vedranno i nipoti. Noi abbiamo ancora questa idea, cioè questa capacità dal punto di vista terra terra, dal punto di vista umano concreto, di vedere le cose in prospettiva, a lunga gittata. Ci accorgiamo che questo non è il modo di pensare attuale.

Ora si capisce che poi le realtà, le unioni diventano a tempo. Sono necessariamente a tempo, in questa cultura. Se non si sconfigge questa cultura, se noi non rimettiamo davanti all’uomo la speranza (“Varcare la soglia della speranza”), il futuro, se non mettiamo il nostro futuro, che è l’adventus cioè il fatto che il Signore viene, che il Regno si è fatto prossimo, se non ripristiniamo questo – non come dizione, ma come convinzione e mentalità diffusa – noi inesorabilmente avremo delle scelte fragili.

Ecco allora una delle insidie che toccano le vocazioni perché toccano la famiglia. La famiglia è sguarnita socialmente, è sguarnita culturalmente. La sua sguarnitura culturale è ancora più drammatica, perché “famiglia” è diventato il nome di molte cose, tra di loro differenziate. È inutile fare esempi, perché li conosciamo tutti. Se voi consultate i sondaggi – che non sono il vangelo, non sono neanche la verità rivelata, però aiutano a capire, presi “cum grano salis” – (per esempio due o tre degli ultimi sette/otto anni) noi vediamo la valutazione morale della convivenza e dell’aborto. Vi accorgete che la convivenza è considerata immorale da un terzo delle persone che considerano immorale l’aborto. Mi sembra che sia un dato sufficientemente significativo. E notate che negli ultimi tempi c’è stato un leggero incremento delle persone che considerano l’aborto negativamente, quindi non si è andati scendendo. Però, quanto alla convivenza, chi la considera decisamente immorale nell’ambito giovanile in Italia è poco più del 10%. Quindi c’è questa debolezza culturale e voi capite che ciò che sta sotto l’idea di convivenza è appunto l’idea di temporaneità, di non decisione, che infligge una ferita mortale a ogni discorso di carattere vocazionale.

Allora è chiaro che noi raccogliamo immediatamente un’idea di fondo: è chiaro che oggi la pastorale delle vocazioni specifiche esiste soltanto se ha consistenza educativa la dimensione vocazionale dell’esistenza cristiana, e dell’esistenza umana “tout court”, cioè se si incardina in un’antropologia nella quale l’uomo, la persona umana è considerata come risposta a una chiamata: chiamata alla vita, chiamata all’azione, alla realizzazione, alla relazione con Dio e con gli altri. Soltanto dentro questa dimensione è possibile parlare delle altre dimensioni. Ma questa dimensione è latitante, è fragile.

Allora ecco, per scendere nel concreto, nei nostri percorsi, nella nostra catechesi, in quella poca che c’è, noi dobbiamo rifare tutti i programmi, perché ci sono delle priorità che vanno perseguite; non possiamo andare avanti dicendo: “Spieghiamo questo, poi spieghiamo quest’altro, poi spieghiamo quest’altro…”. Facciamo ridere i polli. Poi ci sorprendiamo che alla fine non sanno più niente. Provate. Io provo con i ragazzi, vado tutte le settimane in una scuola, chiedo i comandamenti, non li sanno! I comandamenti! Non gli ho mica chiesto i doni dello Spirito Santo, che è un po’ più complicato. Ma non li sanno. Provate! Io glieli faccio ridire ogni volta. Alla fine, forse, almeno i comandamenti… Poi non è detto che uno che li sa li mette in pratica, però già saperli è qualcosa. E noi ci sorprendiamo! Io lo dico sempre: dopo otto anni di insegnamento della religione, qual è il livello? Semplicissimo! Alla domanda: “Chi sono i quattro evangelisti?”, la risposta è: “I quattro evangelisti sono tre: Matteo e Marco”. Questo è il livello! E non si va oltre.

Allora noi dobbiamo cercare di ristabilire delle priorità, insistere; se ci stanno a cuore davvero le vocazioni, non può non starci a cuore la problematica… questi bambini, questi fanciulli, questi ragazzi, quando sentono le varie cose che diciamo, acquisiscono progressivamente l’idea che la vita è un dono da sviluppare? Che, quindi, se è un dono, vuol dire che sta dentro una relazione, che è una “chiamata a”? Perché se non riusciamo a comunicare questo – e insieme a questo alcuni altri capisaldi, ma questo è un caposaldo, assolutamente un caposaldo – tutto il resto del discorso vaga nel vuoto, non si aggancia da nessuna parte. Ora, se dico che la dimensione vocazionale è strutturale, non lo dico perché sono qui a parlare. È perché è così. Allora bisogna “combattere”, operare fortemente perché nei nostri processi educativi questo emerga, prenda consistenza. La “questione antropologica” non è un parolone, è una realtà semplice – qualche volta complicata, ma in questo caso, semplice –, cioè riuscire a far percepire questa dimensione fondamentale, radicale dell’esistenza.

Un altro aspetto che tocca la famiglia è il dilagare del contrattualismo. Tutta la nostra vita sociale è regolata dal contrattualismo. Avendo perso il valore di riferimento, possiamo soltanto metterci d’accordo, per cercare di non cavarci gli occhi gli uni con gli altri. Questo è il contrattualismo – detto in maniera un po’ ruspante, ma grossomodo è così –. Il contrattualismo si è inserito anche come mentalità della famiglia. Troppo spesso. Cioè, una serie di “io ti do questo perché tu mi dai questo”, e comunque l’idea che tutto sommato sia, come tutti i contratti, legato alla realizzazione di alcuni benefici e definito da un certo arco di tempo.

Quando noi leggiamo che la famiglia “tiene”, che la famiglia in Italia “tiene”, è uno di quei casi in cui, se vogliamo gli specchietti per le allodole, accomodiamoci… se vogliamo qualcuno che ci dica le cose che vogliamo sentirci dire per stare tranquilli, accomodiamoci pure… Non è vero. C’è un dato di fatto: in Italia c’è un’idea ancora forte della famiglia come gruppo di riferimento, e quindi la famiglia assolve in Italia delle funzioni che non assolve più in altre nazioni. Fino alla paradossalità! Potrei citare un paio di sentenze della Cassazione sul compito di mantenere i figli fino a novanta anni, o poco meno… È un paradosso tutto italiano, questo. Ma si badi bene, è una funzione di sgravio e di compensazione dentro la quale il valore della famiglia così come lo intende la fede cristiana non c’è. È una figura sociale, psicosociale che serve dentro una certa rete, che dà l’apparenza, ma soltanto l’apparenza, tanto è vero che sempre di più poi le cifre ci dicono dove sta andando la famiglia, anche in Italia. Queste cose sono importanti per non lasciarsi trarre in inganno.

Una famiglia debole non può generare vocazioni stabili, una famiglia instabile non genera vocazioni stabili; poi c’è lo Spirito Santo…, fa anche questo, in casi singoli, ma generalmente la cura della famiglia è fondamentale, la pastorale della famiglia è fondamentale dal punto di vista delle vocazioni. Lo dicevo all’inizio: si tengono indissolubilmente. Allora è necessario lavorare molto di più insieme – come diceva don Luca Bonari nella sua introduzione –, è assolutamente necessario, perché sono veramente delle realtà che “aut simul stabunt, aut simul cadent”.

Poi capita anche di leggere un’intera voce, anche abbastanza lunga (dodici pagine), di un grosso dizionario sulla vocazione, dove la famiglia non si vede, non è neanche citata, come se si potesse parlare di vocazioni che scendono dall’alto per via angelica e prescindono totalmente dal contesto. In realtà le cose sono un po’ diverse. Come diceva il Papa nella Familiaris consortio al numero 53, “la famiglia che vive ideali e valori spirituali, che serve i fratelli con disponibilità e gioia, che porta avanti le sue specifiche responsabilità con fedeltà e perseveranza, che è consapevole di condividere ogni giorno il peso della croce di Cristo, questa famiglia è sicuramente il terreno buono in cui possono nascere e svilupparsi vocazioni a una vita di consacrazione per il Regno di Dio”. Sembrerebbe scontato, ma bisogna lavorare per questo; soprattutto in una famiglia che è diventata famiglia che, anche quando è cristiana – quindi quando resiste a quei condizionamenti sociali e culturali che ho detto prima –, si trova in difficoltà. Perché? Perché molto spesso è una famiglia con scarso numero di figli, o addirittura con il figlio unico. Io posso dirlo perché sono figlio unico… Quando io sono andato in seminario mio papà non mi ha parlato per un anno. Non perché fosse contrario in quanto “scelta”, ma perché vedeva i suoi progetti andati in fumo. La famiglia numerosa questo problema non ce l’ha. Allora bisogna sostenere e aiutare, non basta dire: “Siate generosi…”, bisogna cercare di porre delle condizioni, che stanno – secondo me – nell’aiutare queste famiglie a integrarsi le une con le altre, nel cercare di superare questo sequestro spaventoso che infligge tante penalità alla formazione dei figli in ogni senso, ma anche fa ripiegare pericolosamente la famiglia. Anche il protezionismo pedagogico, come compensazione giustificativa della ossessività parentale, è una delle forme che ha assunto oggi la famiglia, una di quelle che promuove il narcisismo debolistico e quindi permette, al massimo, vocazioni dell’emozione ma non del discernimento e della decisione.

 

I giovani

Ci sarebbe moltissimo da dire. Questa nostra generazione è stata definita in tanti modi. È stato detto, in un rapporto recente sull’Italia, che ha le pile scariche… e già da tempo i sondaggi sui giovani mettono in evidenza la loro sfiducia, la loro disillusione. Il problema dei giovani sono gli adulti. Cioè siamo noi adulti. E ora è tempo di finirla di dire che i giovani sono un problema… il problema viene da noi. Dobbiamo registrare una situazione complessa. Questi giovani di oggi non sono peggiori di quelli di ieri, non hanno minori ideali, ma trovano minori stimoli, minori aperture, minori sostegni. Difatti abbiamo un dato che è veramente pesante: il 41,4 % negli ultimi sondaggi – mi riferisco a quello a livello europeo, ma nel segmento italiano – dice che la religione è poco o per nulla importante. Si badi bene che questo dato va insieme con un altro che invece è di incremento della religiosità: Dio è importante, però la religione meno. Dal sondaggio del ‘90 c’è un incremento di circa 5 punti sull’importanza di Dio nella vita, e un decremento di quasi 5 punti sull’importanza della religione. Questo conferma il dato sulla istituzione, e ci dice che la nostra immagine è deteriorata, come la FIAT… non vende… C’è un insieme di fattori; però è fuor di dubbio che noi non riusciamo a comunicare noi stessi, Chiesa, realtà specifiche della Chiesa, come una via aperta per soddisfare questa domanda religiosa che è aumentata nell’ultimo decennio. Facevo riferimento prima all’unica figura istituzionale che tiene, e questo spiega quel fenomeno straordinario che sono le Giornate Mondiali della Gioventù. I tasselli vanno a posto. E invece questa scarsa capacità, con un rimbalzo di disillusione, del non trovare nelle realtà ecclesiali concrete, quelle del quotidiano, non certo le centinaia di migliaia di persone, però qualche cosa che gli assomigli; del trovare una ripetizione stanca. Questo aspetto mi sembra importante.

 

Alcune proposte concrete 

Incidenza culturale

Anzitutto è necessario lavorare sull’orizzonte culturale, nel senso della cultura diffusa, non della cultura dotta, cioè sulla mentalità. Ho citato diversi punti. Noi dobbiamo avere il coraggio di lavorare per tempi lunghi, perché questo aspetto esige tempi lunghi. Non si modifica una mentalità diffusa con la bacchetta magica. Quindi non cadiamo nella tentazione del tutto e subito che caratterizza così drasticamente il nostro tempo, non omettiamo di lavorare sui lunghi tempi per tutto ciò che può incidere o che potrà incidere sulla formazione della mentalità.

I campi sono molti, come sappiamo, dalla comunicazione alla scuola così disattesa: io ho il chiodo fisso della scuola… così disattesa e così fondamentale. È vero, c’è quella grande agenzia che è la televisione, ma la scuola rimane un punto fondamentale e io vorrei che mi dicessero una benedetta volta che c’è una parrocchia in cui la scuola entra nella pastorale ordinaria… non l’ho ancora trovata, quando la troverò canterò il Te Deum… Questa è una dissennatezza, noi non possiamo pensare di coltivare vocazioni soltanto in alcuni angoli fuori del mondo… si coltivano dal di dentro della realtà concreta, quella veramente frequentata dai giovani, dalle giovani, dai ragazzi; sui luoghi che essi abitualmente frequentano, e la scuola è uno di questi. Noi non possiamo, non dobbiamo abbandonare la scuola e non dobbiamo continuare soltanto a fare documenti.

La temperie culturale. Non avere paura. Sostenere, anche dal punto di vista dell’immagine, coloro che si espongono con la proposta cristiana, che oggi è radicalmente impopolare. Ho detto fin dall’inizio: non per mettersi a contrastare – se non è necessario… quando è necessario, anche questo! – . Qualche segnale qua e là si vede ogni tanto. È importante sostenerli, è importante seguirli, è importante operare in questo tempo, e per questo, naturalmente, bisogna lavorare, bisogna approfondire – scusate la deformazione professionale – bisogna studiare, perché nessuno è nato “imparato”, bisogna fare in modo davvero che noi possiamo dire cose di spessore, cose di fronte alle quali si potrà dire: “Non sono d’accordo”, ma non si possa dire: “Cretinate, una cosa che non vale niente”. Questo è il punto. Di fronte alla proposta della fede cristiana, nessuno deve poter dire: “È una cosa da quattro soldi, che va bene per tre donnette sdentate”, e giù di lì, con tutto il rispetto per le donnette sdentate. Questo è un punto fondamentale e radicale.

 

La comunità cristiana

La forma della comunità cristiana. Non abbiamo mai parlato tanto di comunità come nell’ultimo trentennio. Evidentemente perché non c’è. Perché si parla sempre frequentemente di ciò che si vorrebbe e che non c’è. È necessario che la dimensione vocazionale caratterizzi, come indilazionabile priorità pastorale, l’impegno delle nostre comunità cristiane. Non un tema che si aggiunge, anzitutto, ma un orizzonte, una prospettiva, una tonalità, una qualità. Deve entrare dentro il sottofondo delle omelie, dei colloqui, della direzione spirituale. Deve essere un orizzonte, un colore.

Altro aspetto. È necessario passare dalla “tenuta”, secondo la logica di mercato, alla ripresa d’immagine, secondo la prospettiva della testimonianza di evangelizzazione. Se si guardano i numeri: “In fondo, è come la borsa degli ultimi due anni, oggi non ha perso tanto”… poi si fa il conto alla fine dell’anno: -25%. Passare dalla “tenuta” – dal “ma sì, teniamo ancora…” – alla ripresa d’immagine, una pastorale veramente di testimonianza e di evangelizzazione. Lasciare “intaccare”, per lo meno, la “pastorale dei clienti” nella quale siamo precipitati. Vengono, ci chiedono questo, quanto costa, eccetera. Il giovane, anche il giovane consumatore, non prova indulgenza per quelle istituzioni “simboliche” che decadono nel sistema mercantile. La pastorale dei clienti, della domanda e dell’offerta, produce (o alimenta) la mentalità del consumatore e la mentalità del consumatore consuma anche i rapporti. Non può diventare la logica della pastorale.

Un altro aspetto. Sviluppare la pastorale di accoglienza. Significa partire anzitutto dalla consapevolezza che coloro che sono di casa nelle nostre case sono un’esigua minoranza. Perché noi continuiamo a dire che è finita l’omogeneità cristiana, e continuiamo a praticare in tutti i suoi punti una pastorale di omogeneità cristiana. Dire “pastorale di accoglienza” non vuol dire fare un sorriso, vuol dire comprendere la difficoltà dell’altro. Un parroco di Roma raccontava della missione negli ambienti… “Abbiamo fatto la missione nella mia zona, zona commerciale, in tanti hanno partecipato, sono stati attivi… Ho pensato: Allora organizzo anche in parrocchia una cosa simile. Li invito ad un incontro”. Quanti sono andati? Nessuno. Allora, facevano finta? No. È come andare in un territorio sconosciuto… uno ha paura, non si espone. Rendiamocene conto, dobbiamo rendercene conto.

Pastorale dell’accoglienza significa sviluppare modalità concrete di approccio, di comunicazione, di rapporti – perché la pastorale è fatta di relazioni – che sconfiggano questa situazione di estraneità. A meno che noi pensiamo ancora come quel parroco che, quando arrivano i due fidanzati che vorrebbero sposarsi, dice: “Ma voi non vi ho mai visti!”. Come se non dovesse dire a se stesso: “Ma tu dov’eri? Perché non sapevi che c’erano questi?”. È il rovesciamento di questa mentalità, è un’infrastruttura essenziale, perché riemerga la relazione ecclesiale all’interno della quale nascono le vocazioni. Io credo che nessuno dei presenti si è fatto da sé, dal punto di vista ecclesiale. Sono tutte vocazioni che nascono dal contatto con preti, suore, frati, attivi, impegnati, significativi, contenti, contenti di quello che fanno. Senza questa relazione non è possibile. Questo, da diversi punti di vista, chiede una ministerialità più articolata; chiede inoltre che si superi la tentazione del piccolo gregge. Un autore nordamericano, poi trasferitosi in Nuova Zelanda (George Halzedon), ha proposto una città chiusa, Heritage Park, chiusa e protetta. La tentazione del piccolo gregge: “le comunità-ghetto, che assomigliano più a orfanotrofi, prigioni o manicomi, che a luoghi di libertà” (Phil Cohen). La comunione non è figlia del riduzionismo pastorale, del focolare – va bene anche quello, se accende altri fuochi, se no intossica –. La comunione è un percorso ascetico che esige tutto quello che esige un percorso ascetico.

Bisogna proporre comunità adulte. Una delle definizioni più centrate della nostra società è “la società della gratificazione istantanea” (Gerard Schultze). Il mondo giovanile è segnato da questo. E forse non soltanto il mondo giovanile. L’essere adulti significa aver superato questo che è tipico dell’adolescenza. Siamo invasi da adolescenti anagraficamente obsoleti. È necessario che riusciamo a costruire delle comunità adulte, cioè a far crescere delle persone. E allora, forse, bisogna rivedere il modo di fare il gruppo. Elementi – voi direte – che si conoscono già. Non ho scoperto niente di nuovo. Ma certamente anche la capacità di scoprire talenti, anche questo è importante; di impegnare le persone. Io non sarei qui se un viceparroco non mi avesse preso a farmi fare l’aiuto catechista, l’oratorio, questo e quest’altro… Non è detto che facendo questo venga fuori un prete, però… è importante capire come sono fatte le persone, valorizzare i loro aspetti. La vocazione cristiana è multiforme, e quindi fare in modo che si capisca che, nella Chiesa, i tipi, le tipologie non sono delle ingessature, degli stampi, ma sono dei riferimenti all’interno dei quali c’è la possibilità di esprimersi creativamente, e questo tocca alle nostre comunità. È chiaro che se noi adottiamo la prassi per cui, se questa persona è adatta per spostare i bicchieri, io le faccio spostare le bottiglie, perché così cresce nella virtù e secondo una certa spiritualità nota a parecchi dei presenti… Che uno debba essere disposto a spostare le bottiglie, pur essendo nato per spostare i bicchieri, questo appartiene alla spiritualità; ma che il superiore agisca in questo modo, non appartiene né alla spiritualità né all’intelligenza. Bisogna che emerga questo aspetto. L’aspetto, cioè, che il dedicarsi alla vita della Chiesa è qualche cosa di bello anche per lo sviluppo della propria persona, se si è chiamati a fare questo, è ovvio. Sapendo che nessuno può pensare di ritagliarsi la nicchia. Allora è necessaria questa capacità d’individuazione.

No alle proposte deboli; no alle proposte massimaliste; di fanatici ne abbiamo a sufficienza, non c’è bisogno di incrementarne il numero. Le proposte forti non sono quelle dei fanatici, sono quelle delle persone che hanno struttura e si sa bene che chi ha una struttura è capace anche di cambiare, come hanno sempre detto gli antichi: “Sapientis est mutare consilium” – …non ogni cinque minuti –. Dunque, personalità robuste, che crescono, che si progettano. Non ho detto ancora una cosa, con la quale quasi concludo. È chiaro che bisogna pregare. E certo! L’ha detto Gesù, e quindi non c’è bisogno di altra autorità, non c’è bisogno di argomentare, è sufficiente. Questa è una strada che va sempre bene e che non può essere lasciata da parte, perché se questa strada non viene battuta, tutto quello che ho detto fin qui e tutto quello che si potrebbe dire, probabilmente non servirebbe assolutamente a niente.

Pregare. Però vorrei precisare. Non perché chiami, ma perché mandi. Perché mi pare che il Vangelo dica così. Il Signore chiama, però mi sembra – se interpreto male me lo farà capire prima o poi – che sia qualche volta un po’ troppo rispettoso della nostra libertà. Allora bisogna pregare perché vinca quella sua ritrosia a scuoterci. Può sembrare una battuta, ma se io apro la Bibbia, trovo Amos (capitolo 7) che, al sacerdote Amasia che gli chiede cosa sia venuto a fare a Betel, risponde: “Ma io non ne avevo proprio nessuna intenzione, stavo a tagliare i sicomori, tranquillo… il Signore mi ha preso e mi ha buttato qua”. Che il Signore mandi! Vorrei fare eco, in un altro senso, ad una osservazione che ha fatto il Papa, che ha suscitato scalpore, “forse Dio si è un po’ stancato”, ecco: che non si stanchi dei nostri dinieghi. Mi viene in mente Geremia quando protesta: “Mi hai fatto violenza”. Ecco, pregare perché Dio torni a fare violenza. Mi viene in mente, da ultimo, Giona, che mi sembra un’icona quasi perfetta della nostra pastorale, timorosa di affrontare la grande città, Ninive, e allora meglio ritirarsi in buon ordine. Che butti ancora qualcuno a mare! Poi magari, intanto che lo facciamo per gli altri, forse, non sarà inutile che ci mettiamo dentro anche noi stessi, perché non ci sentiamo già chiamati, perché se la vocazione di Dio è al passato, rischia di essere una vocazione morta. Perché anche la nostra sia al futuro.