N.02
Marzo/Aprile 2003

Pastorale familiare, giovanile, vocazionale: perché e come lavorare insieme

 

 

 

(Il testo è ricavato da registrazione e non è stato rivisto dall’Autore)

 

Vi ringrazio per avermi invitato a questo incontro con voi, che rappresenta uno degli appuntamenti tradizionali del cammino della Chiesa italiana, soprattutto delle sue strutture, della Conferenza Episcopale Italiana, all’interno dell’anno pastorale. Ringrazio don Luca Bonari delle parole che mi ha detto, riconfermo a lui, a don Ghizzoni e don Ladisa, e a tutti gli amici del Centro Nazionale Vocazioni, la mia fiducia, il mio incoraggiamento. Mi sembra che il cammino che è stato fatto in questi anni, a partire dal lavoro svolto prima da monsignor Castellani in poi, sia un cammino proficuo e la presenza di tutti voi lo sta a dimostrare.

Entro subito dentro al tema di questa tavola rotonda che introduco con il mio intervento. Il tema del vostro convenire è un numero, il numero 51 degli Orientamenti pastorali dell’episcopato per questo primo decennio dell’anno 2000. Io sto sempre alla ricerca dei pericoli, e anche in questo caso vedo un pericolo che è quello di isolare questa problematica che il numero 51 ci propone, cioè quella del “maggior coordinamento tra la pastorale giovanile, quella familiare e quella vocazionale”, dal resto degli Orientamenti pastorali. Vorrei allora introdurre il confronto che si stabilirà tra i responsabili nazionali degli Uffici e dei Servizi e dei Centri che si interessano di questi settori pastorali… vorrei introdurlo con alcune considerazioni che ci riportino alle chiavi di lettura degli Orientamenti, che possono permetterci di leggere il problema della connessione tra pastorale vocazionale, pastorale giovanile e pastorale familiare, non semplicemente come un problema di accostamento tra settori pastorali, di sovrapposizione tra campi pastorali, tantomeno di spartizione di interessi tra diversi attori della vita pastorale. Credo che abbiamo bisogno di una chiave di lettura degli Orientamenti che globalmente ci permetta di evitare questo approccio semplicemente di aggiunta delle preoccupazioni e degli interessi dell’uno o dell’altro dei settori pastorali in questione. E qui propongo tre chiavi di lettura degli Orientamenti, che a questo riguardo mi sembrano interessanti.

 

Cambiamento globale

La prima, parte dallo stesso titolo degli Orientamenti. Gli Orientamenti non parlano solo di “comunicare il Vangelo”, ma sottolineano che questa comunicazione avviene “in un mondo che cambia”. Ora la realtà del cambiamento è una realtà che accompagna da sempre la vita dell’uomo, e quindi non meriterebbe una particolare sottolineatura. Se qui viene sottolineato è perché si percepisce che il cambiamento che caratterizza l’epoca che noi viviamo è un cambiamento globale. Non è semplicemente la crisi di un settore – es.: è entrata in crisi la famiglia, oggi; oppure c’è la crisi dei giovani… – e non è semplicemente neanche l’accumularsi di tante crisi settoriali. Ciascuno degli operatori pastorali rischia – a mio modo di vedere – di interpretare in tal senso la situazione culturale che stiamo attraversando; vedendola dal proprio punto di vista, percepisce gli elementi critici che toccano l’ambito pastorale di interesse a prescindere dalle crisi che toccano gli altri ambiti. Così che ci si accumulano le crisi una all’altra. Ma quello che gli Orientamenti pastorali vorrebbero aiutarci a capire è che qui non stiamo di fronte ad una crisi settoriale, a molteplici crisi settoriali, ma stiamo di fronte ad una crisi globale, ad un cambiamento globale, perché ciò che cambia sono i fondamenti stessi della cultura. Io sono solito dire che soprattutto cambia la percezione che noi abbiamo del tempo, quindi sono i riferimenti ultimi del rapporto dell’uomo con se stesso; cambiano i modi di relazionarsi degli uomini tra di loro; cambia il modo con cui l’uomo percepisce se stesso nell’articolazione delle dimensioni spirituali e materiali: tempo, comunicazione, rapporto spirito-materia, sono tutti ambiti che non hanno a che fare con questo o con quel settore pastorale, ma toccano le radici stesse dell’esistenza umana. Ciò che è messo in questione – ripeto – non è un settore ma il fondamento stesso della identità dell’uomo e della sua convivenza. Da questo punto di vista, allora, è impossibile pensare di poter salvare porzioni a se stanti della realtà pastorale, o della realtà umana più vasta, prescindendo da una riflessione e da una comprensione della globalità del cambiamento culturale. Direi che questo è un primo punto che dovrebbe molto interrogarci, nel senso che non ci si salva se non insieme, non ci sono accorgimenti che questo o quel settore pastorale può assumere per trovare la via d’uscita dei propri problemi e dei propri interrogativi.

Prima di tutto c’è una riflessione da fare, che riguarda, appunto, la comprensione che noi abbiamo del cambiamento culturale.

 

Centralità della contemplazione

Seconda chiave di lettura degli Orientamenti che a me sembra utile per capire come impostare il confronto tra i tre ambiti pastorali.

Questi Orientamenti vorrebbero segnare una novità nel modello comune degli orientamenti pastorali così come l’abbiamo sperimentato fini ad oggi, in quanto, per la loro buona metà, non fanno una proposta direttamente pastorale, ma fanno una proposta spirituale. La prima parte degli Orientamenti non è dedicata, infatti, a dirci il “che fare” della pastorale della Chiesa oggi, ma è un invito ad una contemplazione del volto di Cristo, lo sguardo fisso su Gesù, l’inviato del Padre. La sfida che gli Orientamenti propongono, prima ancora e anzitutto, e quindi a fondamento anche di quel che verrà detto successivamente nella seconda parte, è quella di un ritorno alla centralità della contemplazione, e quindi alla questione della fede, della fede nella persona di Cristo. Ed è una sfida grossa, anche questa, perché contrasta con tendenze contrarie non indifferenti, anzitutto le tendenze culturali contrarie. Viviamo in una società dominata dall’efficienza, non certo dalla dimensione contemplativa, e le cose si misurano non per quanto penetrano all’interno della persona, ma per quanto producono di visibile all’interno di una società o di una vita personale. Viviamo in una società dell’effimero, in cui le esperienze si sovrappongono l’una all’altra, per cui ciò che conta non è tanto avere un ancoraggio sicuro, quanto piuttosto rinnovarsi continuamente, inventare qualcosa di nuovo nella propria esperienza personale. In una cultura così parlare di contemplazione significa andare proprio controcorrente.

E parlare di contemplazione della figura di Cristo significa andare controcorrente anche nei confronti di quelle tendenze, pur presenti all’interno della nostra situazione culturale, che si definiscono come tendenze spirituali, ma che si presentano con accentuati caratteri di vaghezza, di indeterminatezza. Anzi, lo spirituale che oggi va di moda è proprio quello che è più indeterminato possibile, nei suoi riferimenti; sia perché è un accumulo di riferimenti religiosi presi dalle più varie sorgenti, sia perché è (anche qui) un susseguirsi di esperienze spirituali che non si ancorano ad una precisa identità, ma vanno alla ricerca di continua novità. Lo spiritualismo, che è pure un’esperienza tipica del mondo giovanile di oggi, ha poco a che fare con questo invito ad un accentuato ritorno alla dimensione spirituale e contemplativa della vita cristiana, attorno alla figura di Gesù Cristo, della persona di Gesù Cristo. Terzo aspetto che va contro è questo, che anche nel mondo ecclesiale quest’invito alla contemplazione della persona di Gesù Cristo non trova un’immediata accoglienza. Visto che ci troviamo di fronte ad una realtà ecclesiale, oggi, talmente variegata, in cui la molteplicità delle appartenenze rischia di far valere di più i tratti della distinzione su quelli della unità. Che cosa ci contraddistingue?: l’essere cristiani? o l’essere di…, di…, di…? e dietro al “di” mettete tutte le appartenenze religiose, istituzionali, movimentiste, associative e così via.

Riportare tutto a Cristo, come unico fondamento della fede e della vita, è una sfida. Sfida alla cultura, sfida alla cultura religiosa, sfida alla cultura ecclesiale. Direi che da questo punto di vista questa centralità della contemplazione di Cristo è qualcosa che deve avere il primato su tutti gli accorgimenti che poi don Luca Bonari, don Paolo Giulietti e don Sergio Nicolli ci diranno sul modo con cui connettere tra di loro i tre mondi delle vocazioni, dei giovani e della famiglia.

 

Pastorale “riconciliata”

Terza chiave di lettura degli Orientamenti che è, secondo me, da tenere presente per fondare un buon confronto, è quella che – questo soprattutto nella seconda parte degli Orientamenti; al di là delle indicazioni che vengono date su comunità riunite attorno all’Eucaristia; comunità che si spende verso tutti, soprattutto verso coloro che sono sulle soglie della comunità stessa, fuori o dentro di essa; al di là di questi aspetti e delle indicazioni pratiche che vengono date per i diversi soggetti pastorali – c’è un’ispirazione di fondo che è quella di proiettarci verso una Chiesa, e conseguentemente una pastorale, maggiormente riconciliata. Riconciliata nel senso di tendente a fare unità di quelle polarizzazioni che hanno caratterizzato fino ad oggi tanta esperienza di Chiesa e tanta progettualità pastorale nella nostra realtà ecclesiale italiana. Faccio soltanto alcuni esempi. Torniamo al tema della contemplazione. Noi sappiamo bene come a volte l’attenzione alla contemplazione sia stata premiata, in alcuni ambienti ecclesiali, a scapito del servizio concreto, e, viceversa, l’impegno nel servizio – vuoi ecclesiale, vuoi servizio all’uomo – sia stato così enfatizzato in altri ambienti ecclesiali a scapito delle istanze proprie della contemplazione e della vita spirituale. Far sintesi tra contemplazione e servizio, riconciliare questi due mondi che sono all’interno di ciascuno di noi, ma sono anche all’interno delle nostre comunità parrocchiali, e che magari, a volte, dividono, contrappongono, creano tensioni reali all’interno delle nostre comunità, credo che sia un’ispirazione di fondo di questi Orientamenti, come pure riconciliare chi punta tutto sulla formazione – fino a dimenticare che alla fine il Signore ci ha chiamati per una missione – e chi, invece, puntando tutto per la missione, dimentica che occorre pure formarsi per la missione stessa. Formazione e missione sono altre due forme di vita cristiana che devono convivere: non esiste una formazione che non sia per se stessa missionaria, e non esiste una vera missione che non abbia alla sua base un’autentica formazione. Ma anche qui, quanti stanno lì a formarsi tutta una vita prima di partire a dare un servizio! E quanti sono partiti per un servizio senza adeguata formazione e si sono persi l’identità nel cammino stesso! Ci sono soprattutto – e qui finisco questo terzo punto delle chiavi di lettura – i numeri 34 e 35 del nostro Documento, una polarizzazione che forse tutte le riassume e che va anch’essa riconciliata ed è quella che viene espressa nei due termini del mettersi in ascolto della cultura degli uomini, del mondo, e dell’affermare, dall’altra parte, le ragioni tipiche e irriducibili della trascendenza del Vangelo. Anche qui c’è chi apre il suo cuore agli altri fino a perdere se stesso e c’è chi, in nome della propria identità, scambia l’identità con l’intolleranza verso gli altri, e l’incapacità di accoglierli nella propria vita. Ci sono immagini di cristiani così, ci sono immagini di comunità ecclesiali così, ci sono immagini di pastorali che camminano su queste due strade divaricate. Riconciliare l’ascolto di ogni germe di umanità più o meno battezzata, ma che esprime autenticamente il seme del Verbo, la Parola dello Spirito che parla dove vuole, e dall’altra la trascendenza del Vangelo, la sua irriducibilità ad ogni esperienza, ideologia, proposta umana, il “di più” del Vangelo, è un’altra delle strade della riconciliazione ecclesiale e pastorale che mi sembra molto importante da tenere presente per ogni confronto che possiamo fare.

 

Scelta di priorità

Da ultimo, per concludere. Il nostro Documento fa anche una proposta di priorità, e la proposta di priorità è quella che appunto viene presentata nei numeri attorno a quel 51 – i numeri 51, 52, 53, 54, 55 – dicendo che all’interno di questi dieci anni giovani e famiglia devono essere al centro dell’attenzione pastorale. Qui il problema vocazionale, la proposta vocazionale viene a incrociare appunto il tracciato pastorale che i Vescovi propongono. Perché questa scelta di priorità? Viene detto esplicitamente – mi piace però ribadirlo –. Perché ciò che si percepisce essere oggi in gioco, e in gioco nel senso anche col rischio di perdere la partita, è la trasmissione generazionale della fede, la trasmissione della fede da una generazione all’altra. Perché occorre comunicare il Vangelo in un mondo che cambia? Perché quella trasmissione naturale della fede, che avveniva di generazione in generazione, alle nuove generazioni di giovani, per il tramite, fondamentalmente dell’istituzione famiglia, oggi questo modello di trasmissione è rotto, completamente, rotto! Anche quando la famiglia è la migliore delle famiglie, perché la famiglia non è un mondo isolato, ma vive all’interno di una cultura che nega, in qualche modo, alla famiglia questo suo ruolo propositivo di valori, di principi di vita, di proposte, di progetti, di esistenza. Ciò che è in gioco oggi è, quindi, la trasmissione della fede tra le generazioni. E allora capite che la percezione del problema della fede oggi, in questo modo, fa sì che quel che prima poteva essere trattato pastoralmente attraverso un’articolazione di settori, oggi diventa un problema di persone. Le persone, la famiglia. Le persone sono la famiglia, le persone sono i giovani… Credo che questa sia la vera conversione pastorale che siamo chiamati a fare: da una pastorale di problemi e di settori – es.: il problema vocazionale astratto – a un problema di persone: uomo, donna, sposo, sposa, madri, padri, genitori, figli… Il problema vocazionale, ovviamente, sta dentro e, direi, può diventare il trade-union delle persone-famiglia e delle persone-giovani, della personagiovane. Perché proprio il progetto di vita è ciò che una famiglia deve poter consegnare ai propri figli, è ciò che i giovani vanno cercando all’interno della loro maturazione.

Direi che questo senso di lettura della scelta di priorità giovani-famiglia, non come ambiti, ma come recupero della dimensione personale all’interno del problema della trasmissione della fede riporta il problema del progetto-vita e il progetto-vocazione, quindi, al centro di un processo pastorale che riceve nuove luci da questa impostazione che gli Orientamenti tentano di dare. Ecco, come tradurre poi queste istanze generali nel concreto della progettualità pastorale di famiglia, giovani e vocazioni lo lascio a don Bonari, a don Giulietti e a don Nicolli…