N.03
Maggio/Giugno 2003

I santi e le sante giovani passioniste: dall’educazione dell’affettività alla santità

Ci sono molti santi, venerabili e servi di Dio della Congregazione della Passione, morti in giovane età. Altri sono vissuti più a lungo e qualcuno anche molto. Ho pensato di scegliere, fra questi personaggi, dei santi dei quali fosse possibile mostrare, attraverso la documentazione esistente, il grande equilibrio affettivo, la capacità relazionale e la fecondità cristiana. Tra questi eccelle certamente il Fondatore Paolo della Croce, di cui posso dire fin da ora che è una personalità di grande ricchezza e fecondità anche umana. Presenterò poi il beato Domenico Barberi, san Gabriele dell’Addolorata e santa Gemma Galgani.

 

 

 

Il giovane Paolo Danei e lo sviluppo della personalità di Paolo della Croce

Come per molti profeti, come per Paolo apostolo e per tanti altri santi, all’origine della totale consacrazione di Paolo Danei al Signore ci fu un avvenimento, un incontro che marcò una volta per sempre la vita di Paolo. Esternamente non fu niente di eccezionale, si trattò di una conversazione tenuta da un sacerdote di cui non si conosce il nome. Paolo era allora fra i diciannove e i venti anni. Pur essendo un ottimo cristiano, primogenito di una numerosa e osservante famiglia, si sentì invaso da una grande contrizione per quella che considerava lontananza da Dio e decise di donarsi interamente a Dio. Chiamò quell’avvenimento la sua conversione, perché allora egli fu preso, si potrebbe dire totalmente catturato dalla vocazione alla consacrazione della sua vita a Dio. Non poté attuare immediatamente la sua vocazione perché ritenne di dover assolvere ad alcuni doveri familiari, ma intraprese una vita di intensa preghiera, si appassionò soprattutto per lo studio delle opere dei grandi mistici, quali Teresa, Giovanni della Croce, Francesco di Sales e tanti altri e si dette ad opere di apostolato secondo la sua condizione di giovane laico.

Nel fiore dell’età Paolo, con i suoi 180 centimetri di statura, superava di molto la media dei giovani di allora. Aveva la faccia allungata e l’occhio profondo. Uno zio prete benestante pensò di lasciare a lui le sue proprietà e si preoccupò anche di trovargli un buon partito per il matrimonio, una ragazza di buona famiglia che si innamorò fortemente di Paolo. Con molto rammarico, però, quando zio Cristoforo espose il suo progetto al nipote, si sentì rispondere che lui aveva già fatto voto di castità e di celibato. Per nulla scoraggiato l’intraprendente zio scrisse a Roma per ottenere la dispensa da quel voto e tentò di nuovo di far innamorare il nipote. Paolo faceva di tutto per liberarsi da quel progetto e fu favorito da alcuni dissensi che sorsero fra la sua famiglia e quella della spasimante e nel frattempo Cristoforo morì. Paolo rinunciò all’eredità dello zio prete, tenendo per sé soltanto un breviario che gli serviva per la preghiera.

La morte di don Cristoforo, però, non spense l’amore della ragazza, che lo seguiva dappertutto, anche in chiesa, e si domandava come facesse a rimanere tanto tempo immobile come uno scoglio nella gelida navata. Lentamente la ragazza capì che non c’era niente da fare. Divenuto adulto, Paolo ricordava con tenerezza questi episodi della sua gioventù e ammirava, per così dire l’io di allora. Diceva: “Quando ero ragazzo, io ero un buon ragazzo. Volesse Iddio che io fossi adesso come ero allora: lo dico a mia confusione”[1].

 

 

L’armonico sviluppo della personalità di Paolo

Che la resistenza di Paolo non derivasse da insensibilità verso l’altro sesso, né ancor meno da misoginia, ma unicamente dalle esigenze della sua consacrazione a Dio, risulta da tutto il resto della sua vita e particolarmente dai suoi rapporti con le donne. Non è facile comunicare in poco tempo quella che fu la ricca e pur semplice personalità di Paolo della Croce, mistico, evangelizzatore, fondatore, padre spirituale di un gran numero di persone. Fra i molti aspetti che si potrebbero illuminare, ne evidenzierò tre che mi paiono importanti per noi: la sua socialità, l’equilibrio dei giudizi specialmente nella direzione spirituale, l’affettività.

 

La socialità

Fin da giovane Paolo ebbe un gran numero di persone care di ambedue i sessi, predicò, ancora laico, esercizi spirituali alle monache di clausura e ai seminaristi che stavano per essere ordinati sacerdoti, diresse spiritualmente molte persone di ogni ceto sociale, predicò missioni popolari particolarmente su richiesta della marchesa Marianna Della Scala Del Pozzo. Le missioni popolari che fece più tardi in gran numero soprattutto nella Maremma Toscana e nell’Alto Lazio radunavano sempre un gran numero di persone. Alcune di loro Paolo le incontrava individualmente e così esse intraprendevano con lui quel cammino spirituale che è documentato da migliaia di lettere, che scriveva con grande sacrificio, spesso durante la notte.

Alcune persone gli furono particolarmente care e con esse aveva anche una grande confidenza, sempre moderata dal primato dell’amore verso Dio. Con loro arrivava a sperimentare una grande unità di spirito. La prima persona con la quale ebbe un grande affetto spirituale fu Agnese Grazi, giovane di una famiglia benestante di Orbetello che Paolo incontrò per la prima volta nel 1730, all’età di 36 anni. La comunione interiore con lei era forte e continua, così da arrivare a esperienze simili alla telepatia, con comandi mentali percepiti a distanza dalla giovane[2]. Da Agnese, come da altre anime mistiche, Paolo riceveva un conforto molto grande nelle sue tribolazioni. Si confidava con lei più ancora che con i suoi religiosi. In un certo periodo dovette diradare le visite e confessarla solo nel confessionale perché c’era chi mormorava della troppa confidenza che aveva con lei. Agnese morì a quarantuno anni. Paolo la preparò al passo supremo e volle che fosse sepolta nella chiesa del primo convento passionista sul Monte Argentario.

 

Equilibrio nei rapporti e nella direzione spirituale

La serenità e l’equilibrio della personalità di Paolo appare nella direzione spirituale di moltissime persone, ma particolarmente in quella di Tommaso Fossi. Questi era un signore dell’isola d’Elba, in Toscana, che Paolo conobbe in una delle sue missioni. Padre di otto figli, si entusiasmò talmente della vita di pietà che tendeva a trasformare la sua casa in una specie di monastero e a chiedere a moglie e figli di adeguarsi al suo fervore. Paolo non si stancava di ripetergli che il cammino di Dio per lui era quello del laico sposato e non del sacerdote o del religioso. Ascoltiamo qualche passo espressivo delle sue lettere:

“È necessario che lei faccia la vita da buon cristiano accasato, che attenda agli obblighi del suo stato, che accudisca alla sua casa… questa è la volontà di Dio e lei puol farsi santo anche in mezzo ai suoi affari”[3].

“Le penitenze non sono per lei né per la sua compagna, non comportandole né il loro stato di santo matrimonio né la loro complessione gracile e debole”[4].

 

Dove più appare l’equilibrio umano di Paolo è nell’allontanare l’aspirazione ricorrente di Tommaso a praticare la continenza coniugale, imponendola almeno moralmente anche alla consorte. Più volte gli scrive in termini come i seguenti: 

“Lei sa che intorno alla continenza coniugale io sono stato sempre forte, massime per le prove da lei riferitemi in scritto e a voce: l’uno e l’altra devono stare in santa libertà coniugale, cioè di sempre essere in libertà tam petendi quam reddendi. Così si conserva più la santa carità e si chiude la via al diavolo per molte tentazioni, massime per la gelosia che V. S. mi accenna. Vede dunque e tocca con mano che è errore fare tali risoluzioni? Che forse ex parte uxoris nascono più da modestia che da risoluzione di volontà?”[5]

“Il debito del santo matrimonio chiesto e reso nei debiti modi e con la santa intenzione dovuta non impedisce che loro siano santi nel loro stato”[6].

 

La castità di Paolo, il suo essere celibe, non ha nulla della morbosità sacrale o della paura, del ribrezzo verso la sessualità propria di alcuni pseudomistici o bigotti.

 

L’affettività

Socievole verso tutti, Paolo sviluppò anche una grande affettività, che diventava talvolta una vera tenerezza. Scriveva alla Grazi:

“Io mi sono allungato più del dovere. Ecco con quanta confidenza in Dio si dilata il mio spirito col suo; ma non è forse dovere che il povero padre qualche volta faccia qualche sfogo di carità con i suoi figlioli?”[7].

Non vuole che la monaca Cherubina Bresciani lo chiami col tenero nome di babbo, molto usato in Toscana, come dimostrerà più tardi santa Gemma con il suo padre spirituale padre Germano. Ne approfitta però per riaffermare la sua paternità: 

“Quando lei mi parla in lettera o altro lasci quel termine di babbo, che sebbene è detto con semplicità e carità, è però termine di secolo: meglio che lei mi chiami col nome più tenero di padre, giacché Dio, gran Padre delle misericordie, me l’ha data per figlia, col cuore purissimo del suo diletto Figlio Cristo Gesù”[8].

 

Aveva un autentico affetto verso tutti, abbracciando i missionari che tornavano affaticati dalle missioni o i giovani studenti e stringendoseli al petto. Al di là delle testimonianze che si trovano nei processi per la canonizzazione, ci sono i suoi scritti che manifestano la sua affettività. Scriveva a P. Fulgenzio Pastorelli:

“Carissimo padre Rettore, quanto l’amo io non so esprimere”[9].

 

La conclusione delle sue lettere è quasi sempre una benedizione, piena di fede, di calore umano e, a volte, di poesia. Scriveva alla Grazi:

“Gesù la benedica e la consumi tutta fino al sangue e alla midolla delle ossa nel fuoco che arde nel suo dolcissimo Cuore, dove si può bere a mari questo fuoco divino. Amen”[10].

 

A una monaca di clausura:

“Il Signore le conceda raddoppiate felicità e la lascio nel seno immacolato di Maria santissima e nel presepio ai piedi di Gesù Bambino”[11].

 

Questa affettività che raggiungeva la tenerezza non gli impediva di scrivere a volte frasi come le seguenti alle sue discepole:

“Intorno a quello che lei mi dice che è staccata da me, mi creda che mai m’è caduto in pensiero che né lei né altre siano attaccate a questa puzzolentissima carogna e, grazie a Dio, vado con tanta circospezione in questo che non saprei più. E se mi fossi accorto di avere un minimo attacco alle anime che dirigo, mai più le avrei sentite, per non esser ladro dell’amore che si deve tutto a Dio”[12].

 

Queste frasi possono sembrare in contraddizione con quelle riportate sopra, ma si comprende bene la loro coerenza se si ricorda che in Paolo tutto parte da Dio e fa riferimento a Lui, tutto parte dalla consacrazione dell’intera sua persona a Dio. Il suo affetto è grande, ma è vissuto sempre all’interno della sua consacrazione a Dio e dell’amore totalitario che ha verso di Lui. Sulla base di questa serena socialità, Paolo della Croce sviluppò un’intensa attività pedagogica, sia all’interno della congregazione maschile e femminile dei passionisti e delle passioniste che lui fondò, sia con il gran numero di persone che diresse spiritualmente.

 

 

 

Beato Domenico Barberi

Questo passionista viterbese della prima metà dell’Ottocento (morì in Inghilterra nel 1849) è rimasto celebre per i rapporti che ebbe col Movimento di Oxford, sorto in seno all’anglicanesimo e perché attraverso di lui passarono alla Chiesa cattolica illustri anglicani quali il cardinal Newman e Giorgio Spencer, che lo seguì nella congregazione passionista, della stessa nobile famiglia a cui apparteneva Lady Diana. Ben presto orfano di ambedue i genitori, raccolto per carità da uno zio nella sua azienda agricola, questo uomo che avrebbe scritto più di cento opere teologiche, spirituali, filosofiche, non ebbe da ragazzo l’opportunità di studiare. Sapeva però leggere e leggeva con avidità tutto ciò che gli capitava fra mano. Conobbe i passionisti e iniziò un cammino spirituale perché alcuni di essi furono accolti nella tenuta dove lui lavorava al tempo della soppressione napoleonica degli istituti religiosi. Sotto la loro direzione prese a praticare la meditazione e, evitata la coscrizione coatta nell’esercito napoleonico, fece voto di aggregarsi a loro non appena fossero stati ristabiliti gli ordini religiosi. Simultaneamente, però, si innamorò di una ragazza e prese a trascurare la preghiera.

Nell’interessante autobiografia, così ne parla:

“Non mi avvedevo, al principio quali dure e inestricabili catene io fabbricavo al mio povero cuore. Me ne cominciai ad accorgere dopo qualche mese, quando mi trovai talmente allacciato che mi sembrava una cosa impossibile, ancorché avessi voluto, il distogliermene. Il giorno e la notte li passavo col pensiero in lei. È vero bensì che il desiderio di commettervi il peccato non mi pare che mai mi venisse e tutto il mio pensiero era di sposarla. Ma intanto tante compiacenze, tanti sogni… E quel che è peggio io mi vedevo talmente legato che se mi fosse stato proposto di dover lasciar lei o di dover perdere eternamente Dio, io senza punto esitare avrei scelto di perdere Dio, parendomi che anche all’inferno sarei io stato felice qualora mi fossi trovato in sua compagnia”[13].

 

Per molto tempo Domenico rimase incerto fra il desiderio di sposare la ragazza di cui era innamorato e quello di adempiere il voto fatto di diventare passionista. Un suo fratello, di nome Deodato, lo spingeva con forza e con amore a seguire la via indicatagli dal Signore. Peraltro non sembrava verosimile che gli istituti religiosi fossero ristabiliti in breve tempo. Così Domenico continuava ad accarezzare il suo progetto di matrimonio. Il cambiamento di atteggiamento avvenne nel giorno della festa di santa Rosa, patrona di Viterbo, nel quale si trovò in una piazza dove da un lato stava suo fratello, dall’altro la ragazza. Ebbe la forza di andare verso il fratello e da quel giorno trovò anche la forza di manifestare alla ragazza il suo impegno per la vita religiosa. La fatica che fece, però, fu grandissima. “Non può immaginarsi – scriveva nell’autobiografia- quanta fosse la violenza che io dovetti farmi. Basti dire che le giunture delle mani e dei piedi mi tremavano ed appena potei reggermi in piedi”[14].

Seguì un periodo di grandi gioie spirituali che Domenico, col suo linguaggio verista, descrive, così:

“Iddio, per allettare, in quei tempi altro non mostra che le mammelle. Questi due o tre mesi, o anche di più, furono passati da me in un mare di delizie. Tutto quello che vedevo, mi sembrava che mi parlasse di Dio. Tutte le creature mi annunciavano la bontà divina. Io me ne stavo nella campagna lavorando e nello stesso tempo ero sempre immerso in Dio”[15].

 

Naturalmente questo periodo passò, ma Domenico mantenne sempre la concezione della vocazione religiosa come quella di un’esperienza di comunione con Dio, un’esperienza mistica che, anche nelle prove più dure, non scadeva mai nella mentalità della sudditanza e della legge, ma manteneva sempre lo stile di un rapporto fra persone vive, piene di amore l’una per l’altra. Caratteristico, a questo proposito, è che una delle prime opere che Domenico scrisse fosse il Commento al Cantico dei Cantici. Si può dire veramente per lui che un amore forte che era stato seminato nel suo cuore ebbe ragione di un rapporto non nato e non vissuto nella luce di Dio. Questo era sorto in lui quasi per caso e si era mantenuto per la forza dell’istinto, particolarmente comprensibile in un giovane dedito alla coltivazione della campagna. L’amore seminato in lui dal Signore sfociò in una totale consacrazione della propria vita e siccome fu una consacrazione che proveniva dall’azione dello Spirito Santo, non produsse alcuno squilibrio nella sua personalità, anzi contribuì a fare di Domenico una personalità superiore.

Non posso dilungarmi molto per mostrare come questo si è verificato. Accenno soltanto al fatto che anche Domenico ebbe sempre uffici di responsabilità che portò avanti con grande equilibrio, fu provinciale e fu scelto come superiore del primo gruppo di passionisti che uscì dall’Italia per fondare la congregazione all’estero. Il grande Newman, forse il teologo cristiano più profondo del secolo XIX, scelse lui per fare la sua abiura dell’anglicanesimo e passare alla Chiesa cattolica, dove poi divenne cardinale. Newman aveva una grande stima di Domenico. Il Barberi visse una vita austera e soprattutto molto laboriosa, che lo condusse alla morte all’età di 57 anni. Nonostante ciò mantenne uno spirito fresco e vivo e fu anche umorista. Scriveva ad esempio alle monache benedettine di Veroli alle quali aveva predicato un corso di esercizi spirituali:

“Che le possano cogliere cento saette per una, simili a quelle che colse a santa Teresa. Che possano tutte essere bruciate vive in quel fuoco che scese sopra gli apostoli il giorno di Pentecoste. Che possano ardere in anima e corpo. Che possano essere consumate vive da quelle fiamme che consumarono il Cuore di Gesù e quello di Maria Santissima”.

Esprimeva poi il desiderio che simili imprecazioni le rilanciassero contro di lui e contro il mondo intero[16]. Un’opera del Barberi che meriterebbe di essere conosciuta come uno dei testi più importanti che hanno anticipato il Movimento ecumenico è la Lettera ai professori di Oxford che tanto colpì il Newman e molti altri illustri accademici di quella università[17]. Scritta nel 1841 in risposta a un articolo di John Dalgairns apparso sul giornale L’Univers, di Parigi, essa manifesta un’apertura di mente e di cuore e un affetto verso coloro che chiamava già allora fratelli separati, veramente impressionante. Gli rispondeva l’autore dell’articolo citato:

“Non credere, Padre mio (mi sia lecito parlarti così) che nessun anglicano a cui sia pervenuta la tua benevolentissima lettera, abbia accolto di malanimo i tuoi ammonimenti. La carità, come una freccia ardente, si fa strada da sé e dovunque penetra, accende un fuoco. Credo, perciò, che il fuoco d’amore sia cresciuto nel cuore di tutti coloro che abbiano letto le tue parole piene d’amore”[18].

Come si vede, anche in Domenico la docilità alla chiamata di Dio lo aveva portato ad un’apertura di cuore vasta quanto le dimensioni del mondo intero.

 

 

 

San Gabriele dell’Addolorata

Dei santi che stiamo considerando, Gabriele fu probabilmente colui che ebbe maggiori opportunità di avere compagnie mondane e stringere amicizie. Tutti lo dicono amante delle serate mondane e lui stesso le ricorda per compiangerle nelle sue lettere. Forse era esagerato l’appellativo attribuitogli di ballerino[19], ma non si possono avere dubbi sul ricordo di un personaggio assolutamente degno di fede quale fu il beato Bernardo Silvestrelli, suo compagno di noviziato e futuro grande generale della congregazione, che quando lo incontrò per la prima volta si domandò: “Riuscirà questo damerino? Ma quando si mise all’opera dovetti ricredermi ed esclamare: questo damerino ci passerà avanti a tutti”[20]. Come il beato Domenico, anche Gabriele riconosce in se stesso la radicale fragilità della natura umana. Riconosce, cioè, che se è salvo e in comunione con Dio, è per grazia. In circostanze diverse, forse non si sarebbe incamminato nella via della santità. Ricordava il suo illuminato direttore P. Norberto Cassinelli: 

“Confratel Gabriele mi confessò, anzi mi assicurò asseverantemente che se il provinciale differiva la sua accettazione per esaminarlo, egli non si sarebbe fatto religioso né allora né mai. In quei giorni sarebbe intervenuto un veglione che lo avrebbe affezionato al mondo e gli avrebbe fatto sacrificare la vocazione. La decisione del provinciale lo salvò”[21].

 

Tra le amicizie che ebbe si ricorda quella della giovane Pennacchini, che si recò a salutare quando partì per il convento[22]. Il fratello Michele si fece premura di precisare, nei processi, che fu una semplice amicizia, che non ci fu fidanzamento, anche se il papà di Gabriele, Sante Possenti, avrebbe gradito una sua sistemazione mediante un matrimonio con la Pennacchini[23]. Religioso a Pievetorina, confratel Gabriele suscitò la meraviglia del direttore che tanto l’ammirava – il P. Norberto Cassinelli – per le tante dimostrazioni di affetto e di gratitudine che fece alla governante Pacifica Cucchi, che, in mancanza della mamma, morta quando aveva quattro anni, ne aveva curato l’educazione[24].

In ordine al tema del nostro incontro, in Gabriele dell’Addolorata, morto quando aveva appena 24 anni dopo aver vissuto i sei anni della sua vita religiosa in una specie di clausura, fatta di preghiera e di studio, metterei in evidenza gli elementi seguenti:

– la sua devozione alla Madonna. Sarebbe il caso di dire che non si trattava di qualcosa di devozionale, ma di qualcosa di mistico;

– il suo entusiasmo per la vita religiosa anche quando, ben presto, comparve la malattia che lo avrebbe portato alla morte, la gioia con cui visse sempre la propria consacrazione. Scriveva a suo papà: “La mia vita è un continuo godere; i giorni, anzi i mesi passano rapidissimi e troppo bene si sta al servizio di un Padrone e di una Padrona che giornalmente ripagano troppo bene i loro servi”[25];

– la grande riconoscenza che aveva verso chi si prendeva cura di lui, preoccupandosi più di loro che di se stesso, la grande delicatezza verso medici e infermieri;

– a causa della malattia, Gabriele ebbe modo di contattare la gente delle valli sotto il Gran Sasso e con loro si mostrò straordinariamente socievole, fraterno, sempre pronto a parlare di Dio e della cara Madonna Addolorata;

– lo spirito di misericordia che manifestava verso i compagni, chiedendo insistentemente che fossero dispensati dalle penitenze disciplinari che a volte ricevevano;

– la serenità con cui parlava della sua propria morte e con la quale si preparò e si avvicinò ad essa.

 

 

 

Santa Gemma Galgani

Siamo ancora nel mese di aprile 2003, nel quale ricorre il centenario della morte di santa Gemma Galgani, avvenuta appunto a Lucca l’11 aprile 1903, quando lei aveva l’età di venticinque anni e non credo che possiamo trascurare di ricordarla. Gemma la si potrebbe definire una santa dall’affettività travolgente e, simultaneamente, una santa che, persuasa di dover vivere una unione di natura veramente sponsale con Gesù Crocifisso, si è tenuta lontana da ogni relazione che potesse in qualche modo entrare in concorrenza con tale sponsalità, rappresentare, per così dire, una specie di adulterio spirituale.

Può darsi che nelle deposizioni dei processi e in certi atteggiamenti di grande pudore della santa si possa riscontrare l’influsso della mentalità del tempo, caratterizzata dal ben noto puritanesimo, cioè da un’eccessiva e forse non ben illuminata insistenza sulla virtù della castità[26]. Non solo le testimonianze di chi la ha conosciuta, ma le stesse fotografie parlano di un comportamento estremamente riservato e continuamente concentrato su “Gesù solo”, come lei soleva dire. Ci sono poi i fatti concreti dei giovani – almeno due – che si erano innamorati di lei. Questo accadde quando lei dimorò a Camaiore, presso Viareggio in Versilia. Come è noto Gemma perse la mamma quando aveva soltanto otto anni e il babbo quando ne aveva diciannove. Dopo la morte precoce del babbo, seguita al tracollo economico di una famiglia benestante quale era la sua, Gemma fu accolta dalla zia Carolina Lencioni, sorella del suo babbo, nella sua casa di Camaiore e vi rimase per un anno. Anche in seguito vi andava per passarvi qualche mese d’estate. Due giovani, Romeo dalle Lucche e Girolamo Bertozzi, figlio del medico del paese, si innamorarono di lei. Il primo la osservava e la circuiva in ogni modo. Il secondo la chiese ufficialmente in sposa. Gemma si allontanò da loro senza alterigia e senza disprezzo. Per evitare la presenza del secondo, abbandonò la zia e tornò a Lucca. A chi le domandava spiegazioni rispondeva: “A Camaiore ci stavo bene, ma c’era uno che mi voleva, io non voglio marito perché voglio essere tutta di Gesù”[27].

Quando non c’erano simili pretese, Gemma aveva un comportamento semplice e gentile con tutti. Così la ricordava Pilade Franceschi che, da bambino, era stato suo alunno:

“Col trascorrere degli anni, la lieve differenza di età aveva perduto d’importanza e sembravamo quasi coetanei. Gemma, umile e schietta, scevra di sussiego, sembrava neppur ricordarsi di essermi stata maestra nella mia più tenera infanzia e mi trattava con affabile, pacata gentilezza, da pari a pari. A me invece, un ardente affetto rispettoso, un vivo senso di devozione verso questo essere superiore faceva battere il cuore… Non era mia parente, non ne ero stato, nel senso comune della parola, innamorato – l’averla conosciuta da bimbo e rispettata quale essere superiore su questa terra furono forse i motivi che me lo impedirono – ma questa sacra amicizia io non la potei mai dimenticare”[28].

 

Al di là di questi rapporti pieni di affabilità e di calore umano, c’è da considerare tutta la potenza di amore che Gemma sviluppò verso la Chiesa, verso i sacerdoti, verso le persone che ebbe vicino e che servì come i bambini della famiglia Giannini, verso i peccatori. Questi suoi affetti partivano dal suo grande amore verso Gesù Crocifisso e ad esso tornavano. Il fenomeno più celebre della vita di Gemma, quello della sua stimmatizzazione, ha secondo me un significato che va ben al di là del fatto fisico a cui si è dato tanto rilievo sia da parte di chi lo considerava autentico, sia da parte di chi lo considerava illusorio e frutto di isterismo. Esso significa la totale immedesimazione di Gemma col Crocifisso, fino alla totale offerta di sé e alla disponibilità a bere il calice di Gesù fino all’ultima goccia[29]. Il passo seguente, scritto con semplicità al suo padre spirituale P. Germano, ci può dare la misura delle esperienze interiori che rallegravano e stupivano una vita tanto travagliata:

“Alle volte sono costretta ad esclamare: dove sono?, dove mi trovo? Chi è mai vicino a me? Senza nessun fuoco vicino mi sento tutta bruciare; senza nessuna catena addosso, a Gesù mi sento stretta e legata; da cento fiamme mi sento tutta struggere, che mi fanno vivere e mi fanno morire. Soffro, vivo e muoio continuamente, ma la mia vita con tante altre vite del mondo non la cambierei a nessun patto. Mai non sto ferma: vorrei volare, vorrei parlare e a tutti vorrei gridare: amate Gesù solo solo. Più che posso, nel mondo cerco di lasciare ogni cosa, ma invece trovo tutto. Fuggo tutti i piaceri della vita e trovo invece un piacere tanto grosso che mi fa contenta tutta. Sento di amare, ma chi amo non lo intendo, non lo capisco. Ma nella mia tanta ignoranza, sento che è un Bene immenso, un Bene grande. È Gesù”[30].

 

 

Incontro, alleanza, consacrazione

Ciò che determina lo sviluppo della personalità dei santi che abbiamo ricordato non è una forza morale che si possa definire magari eroica, non è una lotta fra lo spirito e la carne a favore del dominio dello spirito, ma è l’incontro con una Persona percepita come vivente, che germina un’alleanza e una totale consacrazione della vita a quella Persona e alla missione che da Lei ricevono. Se non fosse così la relazione fra questi santi e le altre persone, specialmente, ma non esclusivamente, di sesso diverso, sarebbe stata compromessa. Si sarebbero manifestati inesorabilmente degli squilibri, dei bisogni e delle conseguenti ricerche di compensazioni. La compensazione si può trovare nelle soddisfazioni della carriera, del lavoro, del successo. Allora però l’autorità diventa potere, il lavoro diventa ossessione e il successo schiavitù. La relazione con gli altri diventa difficile, quella con l’altro sesso patologica.

Accenno brevemente al fatto che non sempre coloro che fanno una scelta celibataria sono mossi da motivazioni così esistenziali e di fede. A volte la scelta celibataria è una scelta di ripiego per la paura delle responsabilità e del coinvolgimento in un rapporto molto stretto quale è quello matrimoniale. Può essere, quindi, preservazione di sé, cioè l’esatto opposto della spiritualità della croce: chi ama la propria vita la dona, chi preserva la propria vita la perde (cfr. Gv 12,25). Delle proprie paure e preservazioni si ha di solito poca coscienza. La scelta di ripiego viene rivestita di motivazioni ideali molto gratificanti già a livello inconscio. Entrano in gioco meccanismi di sublimazione. È allora che si producono le distorsioni della ricerca più o meno cosciente delle compensazioni, quali possono essere il potere, il denaro, ambizioni varie, ricerca di soddisfazioni ambigue, lavoro frenetico e nevrotico, aggressività. Di solito queste compensazioni hanno effetti assai più negativi di quelli che possono derivare dalla soddisfazione degli impulsi sessuali, ma non urtano tanto la mentalità etica dominante nella società ed anche in ambienti ecclesiastici.

Non è per caso che la vita mistica sia paragonata già fin dall’Antico Testamento a un rapporto sponsale: pensiamo al Cantico dei Cantici e all’interpretazione che ad esso è stata data già dai commentatori ebrei e poi dai Padri della Chiesa. Alla base di ogni rapporto affettivo dei santi c’è un rapporto affettivo coinvolgente, quello con Dio e col Cristo Crocifisso. Questo rapporto affettivo di base è stato presentato forse più spesso dal punto di vista delle rinunce alle soddisfazioni di un’affettività immediata che esso comporta piuttosto che dal punto di vista della gioia grande che esso produce. Così, più che la mistica è stata presentata l’ascetica, più che la grazia la volontà (con una mentalità notevolmente pelagiana), più che la docilità all’azione dello Spirito l’eroismo.

L’esempio ben documentato di Paolo apostolo è paradigmatico per tutti noi e spiega bene anche l’esperienza degli apostoli e dei primi discepoli: tutto comincia con un incontro. Sulla base di esso, Paolo può dire: Vivo nella fede di Cristo, cioè nella fiducia e nell’affidamento perché ho riconosciuto che Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Amato, riamo. Amando Lui, amo tutti in Lui. Allora il celibato che Paolo preferisce non è una diminuzione, ma un ampliamento, non è un meno, ma un più, non è legato o dipendente da svalutazione della sessualità, da paure sacrali o tabù, ma è conseguente a un’esigenza di servizio totale del Regno di Dio. Senza togliere nulla alla grandezza del sacramento del matrimonio, del quale parla in termini di profonda ammirazione (cfr. Ef 5,32), Paolo percepisce che per lui matrimonio e famiglia rappresenterebbero un impedimento alla piena espressione dello Spirito che gli brucia dentro (cfr. 1Cor 7,32-35). Di questa natura è l’esperienza che i santi della congregazione passionista hanno fatto, sia che, come Paolo e Gemma avessero già scelto il Signore quando hanno avuto la proposta di matrimonio, sia che, come Domenico o Gabriele, abbiano dovuto lottare per seguire una voce che li chiamava, ma che all’inizio appariva tenue di fronte alle attrazioni di una soddisfazione immediata, come può essere accaduto a molti di noi.

Questo ci fa riflettere sull’importanza dell’autenticità della vocazione alla consacrazione e della scelta di una vita celibataria. Si tratta di una vera esperienza di Dio, di un’esperienza mistica come base della scelta celibataria. Se questa manca, la scelta non si regge, oppure si degrada in compensazioni equivoche. Si tratta di una sponsalità mistica, non fantastica, ma reale, in quanto comunicazione fra persone: ha amato me, Lui ha dato tutto se stesso per me fino alla morte in croce, io non posso preservarmi. La gratitudine mi porta a donarmi a Lui. Fra le mille frasi che si potrebbero citare, mi piace concludere questa presentazione di alcuni santi passionisti con qualche espressione dell’amore bruciante di Gemma Galgani, della quale, come ho già ricordato, stiamo celebrando il centenario della nascita al cielo:

“Sai, Gesù, perché nel mondo non ho trovato un amore sincero come il tuo? Perché il tuo amore è immenso! Per amar te, amo non amar gli altri”[31].

“O mio Dio, Gesù, ostia santa, a te consacro tutte le mie tenerezze. Mi sono accorta, Gesù, che il tuo affetto mi cercava ed io son corsa; la tua carità mi chiamava ed io son venuta subito”[32].

 

Riguardo alla sua vocazione, Gemma ha una certezza: l’amore verso il prossimo, oltre che manifestarsi nella gentilezza e nei servizi della quotidianità, si dovrà manifestare nella continuazione della Passione del suo Amore Crocifisso, con il quale è immedesimata. Questa vocazione le è stata confermata dall’autorità della Chiesa per mezzo dei suoi direttori spirituali:

“Gesù, quel peccatore l’ho nelle mie mani, ti offro tutta me stessa. Ho tutti i permessi, posso offrirti tutto. Fai pure con me quello che vuoi. È nelle mie mani; ne renderò conto io. Lo vedrò salvo. Non voglio giustizia, ma la misericordia. Sì, ho avuto tutti i permessi, posso patire. La croce la sopporto, perché è croce tua. I patimenti sono i tuoi. Ho il trionfo, levami e conducimi con te. Voglio venire con te. Gesù, ti amo tanto”[33].

Gli ultimi giorni di Gemma furono una vera discesa negli inferni dell’umanità, insieme al suo crocifisso Signore. Ma quando lei morì, in quel sabato santo 1903, suonavano le campane della risurrezione. Una vita nuova stava cominciando, una vita che continua ancora oggi e si espande in tutto il mondo ogni giorno di più. Si avvera ancora la promessa: sono venuto per portare vita e per portarla in abbondanza (cfr. Gv 10,10).

 

 

 

Note

[1] Cfr. LIPPI A., Mistico ed evangelizzatore. San Paolo della Croce, Paoline, Cinisello B., 1993, pp. 44-46.

[2] Cfr. ID., ibidem, p. 143.

[3] SAN PAOLO DELLA CROCE, Lettere ai laici, a cura di Anselmi M., I, Cipi, Roma, 2002, pp. 765-766 (09-08-1738).

[4] Ibidem, p. 808 (16-03-1748). 

[5] Ibidem, p. 794 (11-08-1746). 

[6] Ibidem, p. 809 (16-03-1748).

[7] Ibidem, II, p. 1416 (29-08-1737).

[8] Lettere di san Paolo della Croce, Roma, 1924, I, p. 456 (20-11-1937).

[9] SAN PAOLO DELLA CROCE, Lettere ai passionisti, a cura di Giorgini F., p. 244 (02-12-1747). 

[10] Lettere ai laici, cit., II, p. 1560 (04-08-1740).

[11] Lettere di san Paolo della Croce, Roma, 1924, cit., IV, p. 150 (24-12-1774).

[12] Lettere ai laici, cit., II, p. 1341 (30-08-1736).

[13] BEATO DOMENICO DELLA MADRE DI DIO (Barberi), Scritti spirituali, I; Autobiografia, a cura di Giorgini F., Cipi, Roma, p. 26.

[14] Ibidem, p. 34.

[15] Ibidem, p. 36.

[16] FEDERICO DELL’ADDOLORATA, Il beato Domenico della Madre di Dio, Passionisti, Roma, 1963, p. 241.

[17] DOMENICO DELLA MADRE DI DIO (Barberi), Lettera ai professori di Oxford, a cura di F. Giorgini, Cipi, Roma, 1990.

[18] Cfr. GIORGINI F., CAPITANIO M., LIPPI A., Il beato Domenico Barberi scrittore, in “La Sapienza della croce” (rivista), 11, 1996, pp. 59-61.

[19] Cfr. D’ANASTASIO F., Vita e risveglio di san Gabriele dell’Addolorata, I, 62. 

[20] Ibidem, 27.

[21] Riportato in D’ANASTASIO F., op. cit., p. 130. 

[22] Ibidem, 62.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem, p. 165.

[25] SAN GABRIELE DELL’ADDOLORATA, Lettere familiari ed altri scritti, a cura di Zecca T., Stauròs, Pescara, 1981, p. 51.

[26] Rimando, a questo proposito, alla biografia critica di ZOFFOLI E., La povera Gemma. Saggi critici storico-teologici, Ed. Il Crocifisso, Roma, 1957, pp. 692-699 (Casta e pura come un angelo).

[27] Cfr. Ibidem, p. 11.

[28] Ibidem, p. 423.

[29] Cfr. SANTA GEMMA GALGANI, Autobiografia, in Scritti vari, Passionisti, Roma, 1958, p. 256. 

[30] SANTA GEMMA GALGANI, Lettere, Passionisti, Roma, 1941, pp. 166-167.

[31] SANTA GEMMA GALGANI, Sola con Gesù solo, a cura di Zecca T., San Paolo, Cinisello B., 2002, p. 42.

[32] Ibidem, p. 64.

[33] Estasi, cit., p. 20.