N.01
Gennaio/Febbraio 2004

Ogni dono nel dono di Cristo alla sua Chiesa (cfr. Ef 4,11-16)

Il tema della 41a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ha nel passo di Ef 4,7-16 il suo testo di riferimento. Si tratta di un brano molto denso teologicamente ed anche complesso dal punto di vista della struttura letteraria. 

Il testo di Ef 4, l-16 si inserisce nel contesto della seconda parte della lettera, in particolare si lega nella forma estesa che va dal v. 1 sino al v. 25.

La prima parte della lettera (1,3-3,21) è illustrativa del mistero, come superamento di contrapposizioni in Cristo e nella sua Chiesa; la seconda, piuttosto esortativa (4,1-6,9), un invito a vivere il mistero, che si conclude con una sorta di appello finale (6,10-20); il tutto incorniciato nelle indicazioni epistolari iniziali (1,1-2) e conclusive (6,21-24). In particolare il cap. 4 focalizza il mistero della Chiesa all’interno del grande mistero del progetto divino con gli spunti per i cristiani che ne conseguono.

 

Il contesto

Con 4,1 comincia un nuovo tema dopo la dossologia a Dio Padre (3,20-21). Il v. 25 chiude una riflessione sulla Chiesa e passa ad elencare una serie di vizi, che vanno in una direzione più moralistica.

Lo schema di 4,1-25 si suddivide agevolmente in due parti:

– esortazione all’unità dei cristiani: vv. 1-16;

– esemplificazioni negative da parte dei pagani: vv. 17-25.

È un parallelismo antitetico, in cui la prima parte traccia una sorta di profilo in positivo del cristiano, rispetto alla seconda parte che delinea gli atteggiamenti erronei dei pagani.

Come si vede un doppio pannello: chiaro e oscuro. Al centro di tale contrasto che l’autore inserisce a rompere il parallelismo, come un corpo a se stante, l’esaltazione dell’unità della Chiesa, modellata sull’unità di Dio (vv. 4,1-6). Difficile dire l’origine di questi versetti, forse un’antica acclamazione battesimale, ma certo essi servono a sottolineare come la Chiesa esprima nel tempo e nel mondo il progetto divino, eterno, manifestatosi in Cristo, attuatesi nella Chiesa, per opera dello Spirito, e interpellante ogni singolo cristiano. Il ritmo del testo è incalzante per via della ripetizione enfatica del numerale (heĩs/mìa/hèn) con un tono solenne, volto a rafforzare le ragioni costitutive dell’unità ecclesiale.

 

Il testo

I vv. 7-16 non fanno che offrire un’altra faccia della dimensione dell’unità della Chiesa. Il passo è così strutturabile:

– la tesi della diversità dei doni ministeriali della Chiesa/dono di Cristo (vv. 7-11);

– la motivazione cristologica sostenuta per mezzo della citazione scritturistica del v. 7, con un ulteriore commento (vv. 8-10);

– l’esplicitazione ecclesiologica della finalità dei doni per l’armonia di tutta la comunità (vv. 12-16).

 

La diversità dei doni/ministeri a partire dal dono di Cristo

A ciascuno è stata data la grazia nella misura del dono di Cristo. (v. 7)

Col v. 7 avviene come un passaggio dalla considerazione della vita trinitaria quale fattore fondante l’unità ecclesiale ad una comparazione più radicata nella dimensione cristologica. L’affermazione di svolta è la seguente: “A ciascuno è stata data la grazia nella misura del dono di Cristo” (v. 7). Si introduce, dunque, una distinzione, grammaticalmente sottolineata dalla posizione enfatica data al termine “noi”, che sembra chiaramente riferirsi ai credenti nell’azione di Dio (da tutti a ciascuno) cui segue evidentemente un’attenuazione incentrata su Cristo.

L’espressione appare un po’ sibillina, ma vuole porre l’accento sulla grazia (chàris), che qui va evidentemente letta come dono divino per l’edificazione della Chiesa (cfr. Rm 12,3-6). È chiaro che l’autore, in questo caso, pensa alla grazia, non come grazia salvifica, intesa in senso generale, così come, a partire dal prologo (cfr. 1,6.7), in tutta la lettera (cfr. 2,5.7.8; 3,2). Qui la grazia (chàris) e il dono specifico (chàrisma) sono in qualche modo da considerarsi equivalenti, senza un’accezione tecnica del secondo termine. Del resto già in 3,7-8 l’autore usa il primo per dire appunto la grazia del suo apostolato, mentre altrove il secondo per dire insieme il dono generale e il dono specifico (cfr. 1Cor 12).

Vale il principio per questo lessema chàris, che di fatto viene riespresso tra il dono specifico e il dono di Cristo, del “più che contiene il meno”. Il genitivo è chiaramente epesegetico: Cristo è il dono, alla luce del quale devono essere misurati, compresi e valutati tutti gli altri doni. La seconda parte del versetto pone infatti in luce la relazione fra il dono specifico e il Cristo che prima di essere donatore è dono. La misura del dono di Cristo è, inoltre, senza misura e quindi il dono è un’elargizione gratuita e incommensurabile di Dio nella quale e per la quale è possibile ogni altro dono nella comunità. Tale affermazione è l’assioma centrale da cui scaturirà ogni successiva riflessione.

 

Il dono che è anche donatore

Per questo sta scritto: Ascendendo in ciclo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini. (v. 8)

Dal dono di Cristo e nel dono di Cristo è contenuto ogni altro dono. Il dono viene manifestato come donatore grazie ad una stilizzazione compiuta attraverso una citazione scritturistica ed anche un’opportuna esegesi. La citazione biblica è il salmo 67,19 nella versione della LXX. L’autore prende i tre verbi del salmo, riferiti a Dio visto come un guerriero vittorioso, e li applica a Cristo: ascendendo… condusse prigionieri… distribuì beni agli uomini (édōken). L’ultimo verbo di fatto è stato trasformato, come testimoniano anche fonti rabbiniche successive, che spesso riferiscono il testo a Mosè con questa correzione; nel testo del salmo greco era prese (élabes) nel senso del bottino di guerra. E per meglio esplicitare la citazione, l’autore prosegue, secondo un procedimento rabbinico esegetico (per alcuni sarebbe il midrash pesher modello qumranico), in modo tale che da un vocabolo della citazione si sviluppa un’ulteriore spiegazione esegetica.

Nel nostro caso il termine in questione è anéb che diventa per la sua pregnanza semantica fortemente cristologico per indicare l’intronizzazione del Messia.

Ma che significa la parola “ascese”, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? (v. 9)

Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose. (v. 10)

Il movimento ascensionale viene letto come conseguenza di un precedente movimento di tipo discensionale, interpretato come discesa nelle “profondità della terra”, con probabile allusione all’incarnazione. Il linguaggio della salita al cielo (alla lettera hyperànō, “al di sopra dei cieli” con antitesi rispetto alle “profondità della terra”) vuole esprimere il compimento nell’esaltazione del Cristo risorto, con la vittoria sui nemici, da cui scaturisce la sua piena signoria, che è già presente nell’incarnazione, ma arriva a compimento solo con la risurrezione. Al termine di questo processo vi è un riempire tutte le cose da parte di Cristo al fine di riconciliarle con il Padre (cfr. Ef l,10). Colui che è asceso, in forza della sua signoria su tutte le cose, riempie il tutto e perciò dispensa anche nella Chiesa i suoi doni.

 

I doni-ministeriali per la crescita del corpo

È lui che ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori. (v. 11)

Il dare, che è indicato nella citazione scritturistica al v. 8, è ora esplicitato nel dono alla comunità, ossia nei doni ministeriali. La comunità è la culla di ogni ministero, ma non è una fonte autonoma. La sorgente è Cristo, il Signore risorto e glorificato che così come riempie ogni cosa, al tempo stessa arricchisce la Chiesa dei suoi doni, che sono i ministeri. Sono enumerati 5 tipi di ministero, dono del Risorto alla sua Chiesa: apostoli; profeti; evangelisti; pastori e maestri (ma potrebbe essere anche uno solo “pastori e maestri”, come se fosse un’endiadi).

Di fronte a questo breve elenco sorgono spontanee alcune domande: Perché solo questi ministeri e non altri? Perché non sono menzionati, ad esempio, quelli più istituzionali e parimenti antichi come l’episcopato o il diaconato? Gli elenchi conservati in 1Cor 12,7-10.28-30; Rm 12,6-8 sono infatti diversi. Tutti i ministeri enumerati in questo passo, dall’apostolo (cfr. Ef 3,6-9) sino al maestro, hanno in comune l’attività, anche se con diversa modalità, dell’annuncio. I primi due pongono l’accento sull’evangelizzazione, gli altri due sulla funzione di governo. Ma la finalità è unica:

per preparare i santi al ministero, per la costruzione del corpo di Cristo. (v. 12)

fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo. (v. 13)

Per quanto espressa con una forma grammaticale per accumulo, può essere così schematizzata: per la preparazione dei santi al ministero; per l’azione di servizio (eis érgon diakonìas); per la costruzione del corpo di Cristo. La finalità ultima (la crescita del corpo di Cristo) passa attraverso una serie di mediazioni, un ruolo verso i santi (cioè i cristiani) e un’opera di servizio.

L’unità della Chiesa, però, non vuoi dire uniformità, come richiama l’immagine del corpo (anche se qui non sviluppata): un solo corpo, una sola missione quella di Cristo, ma anche una necessaria diversità di funzioni per far crescere lo stesso corpo. Il concetto era già stato espresso altrove: sia nella medesima lettera (cfr. Ef 2,19-22); sia in altre (cfr. 1Cor 3,9-11.16). Vi sono dunque delle azioni di servizio che oltre ad essere finalizzate alla costruzione del corpo, sono dirette anche e soprattutto alla santificazione del medesimo. Nessun ministero nella Chiesa è meramente funzionale, nessun ministero è pura prestazione. Chi riceve il dono della chiamata al servizio ministeriale deve corrispondere ad esso, prima che con il buon espletamento del medesimo, con la piena partecipazione di mente e di cuore, che è opera di santificazione del ministro. In altre parole vi è la crescita della Chiesa “dal di dentro”, attraverso la crescita di coloro che servono, affinché tutti insieme possano crescere in alcune dimensioni: l’unità della fede (la comunione); la conoscenza piena (epìignōsis) del mistero; la maturazione dell’uomo perfetto; lo sviluppo che realizza la pienezza in Cristo.

I termini sono molti densi. Il primo appare evidente e richiama il contesto. Il secondo indica la conoscenza di tipo anche intellettuale, frutto dell’evangelizzazione e della catechesi, che aiuta i cristiani a penetrare nel mistero. Il terzo evoca l’immagine dell’uomo perfetto (téleios), maturo nella fede, contrapposto all’immaturo, come meta della formazione cristiana. Il quarto elemento, al di là dell’espressione ridondante (“la misura della statura…”), ripropone direttamente Gesù Cristo, come modello a cui guardare, prototipo della pienezza e uomo nuovo (cfr. 2,15), a cui tende il cammino formativo di tutta la Chiesa. Naturalmente non si tratta di un’identificazione, ma di assimilazione della Chiesa al suo sposo: un cammino che è “vocazione universale alla santità di tutti i fedeli” (cfr. LG 40), e non si realizzerà in tempi storici, ma solo escatologici. Quest’orizzonte di santità, che implica maturazione e crescita attraverso la conoscenza e la conformazione a Cristo, è la meta a cui guarda la Chiesa mentre si sforza di vivere l’unità. La maturità conduce all’unità in Cristo, l’immaturità, in senso ecclesiale, invece, spinge verso la passività e la influenzabilità.

Affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati qua e là da ogni soffiar di dottrine, succubi dell’impostura di uomini esperti nel trarre nell’errore. (v. 14)

L’autore utilizza due immagini che esplicitano la condizione di immaturità di alcuni cristiani, che non sono capaci di vivere nell’unità: la prima ripropone l’immagine dell’immaturo, la seconda è il battello in balia dei venti contrari ad indicare l’atteggiamento stupido, di chi si lascia frodare ed ingannare. Sono il rovescio della medaglia, il pericolo in cui si può incappare, se non si resta saldi nella conoscenza di fede maturata. Solo la coscienza attenta e vigile, ferma e forte, del credente maturo sventa gli inganni e i fraintendimenti. Allora si comprende bene il risalto dato in precedenza al ministero della parola nella Chiesa, diretto a promuovere una conoscenza fondata e irremovibile.

Vivendo invece la verità nell’amore, cresciamo sotto ogni aspetto in colui che è il capo, Cristo. (v. 15)

dal quale tutto il corpo, reso compatto ed unito da tutte le articolazioni che alimentano ciascun membro secondo la propria funzione, riceve incremento, edificandosi nell’amore. (v. 16).

Alle due immagini di instabilità subentra quella del dinamismo della crescita nell’unità. Per ben due volte vengono indicate le modalità di tale percorso: la verità nell’amore (v. 15); e l’amore (v. 16). Come interpretare la verità se non come fedeltà al vangelo ed insieme però anche fedeltà al prossimo? Così come in 4,24.25 la verità, intesa come veracità dell’attuazione del vangelo che si esprime nella modalità dell’amore, nell’accoglienza e nella fraternità, ossia anche sincerità verso le persone, è uno snodo centrale del discorso ecclesiale.

La verità verso Cristo è fedeltà al suo messaggio, la verità verso i fratelli è sincerità attenta e costruttiva. La verità evita lo sballottamento, l’essere ingannati ecc., mentre l’amore, come modalità di comunicazione della verità, rende possibile la crescita comunionale: una crescita verso (eis) Cristo che tocca ogni realtà del corpo ecclesiale. Nessuna vera crescita in un organismo sano è solo di una parte, ma investe tutto il corpo, tutta la persona: è unitaria e comunitaria. Così l’autore della lettera pensa anche della Chiesa. Con linguaggio ridondante, per mezzo di una metafora ben sviluppata, viene spiegato che ogni membro collegato all’altro, lo fa crescere grazie ad una comune energia che raggiunge tutti. Allo stesso modo il corpo ecclesiale, unito a Cristo, matura verso la pienezza che è Cristo stesso.

 

Conclusioni ed attualizzazioni

Il testo paolino, pur nella sua non immediata presa sull’ascoltatore-lettore, appare carico di possibili attualizzazioni vocazionali. Sullo sfondo di un profilo della comunità cristiana, riconducibile alla tensione unità-diversità, l’autore pone l’accento su tre aspetti della vocazione al ministero nella Chiesa:

– sull’origine di tale dono-chiamata, che procede direttamente da Cristo, il capo del corpo;

– sulla collocazione di tale ministero nella comunità e per la comunità;

– sulla, finalità di ogni dono-ministero che è la crescita di tutto il corpo.

Si tratta di aspetti centrali anche nella considerazione della realtà delle nostre comunità ecclesiali, da cui scaturiscono impegni ed interessi precisi per la pastorale vocazionale.

Il primo aspetto fotografa la sorgente del ministero nella natura gratuita della chiamata. È un dono che viene da Cristo, il donatore, alla comunità. Comprendere questo significa porsi di fronte alle vocazioni non con l’assillo di chi le considera solo un problema, ma di chi sa di attendere un dono. Un dono bisogna chiederlo, accoglierlo, valorizzarlo, stupendosi del come e del quando esso arriva, poiché è tutta grazia, sicura solo per via della promessa che il Signore non ha fatto a singoli, ma alla sua Chiesa, al suo corpo, alla comunità che vive in quel tempo e in quel luogo la testimonianza della fede e il servizio del vangelo.

Il secondo aspetto sottolinea il luogo e il destinatario dei doni nella comunità ecclesiale. La vocazione della comunità ecclesiale, che si specifica nelle forme della Chiesa locale e della parrocchia, che la localizza nel territorio, è quella di essere grembo fecondo, per opera dello Spirito Santo, dei doni del donatore Cristo.

La comunità ecclesiale, come casa di tutti, è il luogo, in cui si cresce in Cristo sotto ogni aspetto. È qui che si è chiamati alla vita cristiana, al ministero o al dono di sé nelle forme più svariate. È qui che dal Donatore si accoglie il dono della vocazione, che si traduce in dono della propria vita, per far crescere il Suo corpo.

La vocazione della comunità ecclesiale, è quella di far scoprire e sviluppare la vocazione di ciascuno che è quella di crescere in Cristo, ciascuno per la sua parte, in modo tale che tutto il corpo, in ogni sua articolazione, unito e compatto, secondo la propria originale funzione, riceva nutrimento e giunga alla sua piena maturazione.

In una realtà come la nostra, in cui l’appartenenza ecclesiale è sempre più debole, riconoscere lo spazio umile e quotidiano della, parrocchia, come semplice segno di comunione significa rimettere a fuoco la finalità di ogni vocazione, che è sempre unicamente ecclesiale.

L’ultimo aspetto è la finalità della crescita di tutti.

Non è pensabile una concezione elitaria della vocazione. La Chiesa è per sua natura popolare, aperta a tutti, anche se con percorsi e momenti differenziati, con venature carismatiche, che confluiscono però sapientemente e naturalmente nella dimensione unica della Chiesa come popolo di Dio in cammino verso la santificazione. Non è una questione di punti di vista teologici, ma una verità irrinunciabile della nostra fede: la communio sanctorum, che l’immagine del corpo manifesta in modo mirabile, hi virtù di questa solidarietà tra i credenti nella Chiesa la crescita di uno è misteriosamente legata a quella di tutti, così la vocazione di uno si inscrive in quella della comunità, luogo di scoperta e di sviluppo di ogni vocazione.