N.03
Maggio/Giugno 2005

“Come ciottolo di fiume”. Spiritualità del Carmelo nel cammino di un testimone, maestro e pastore: Anastasio Ballestrero

Non è facile sintetizzare in una conferenza il pensiero e la spiritualità che il cardinale Anastasio Alberto Ballestrero ha saputo trasmettere, ha insegnato e fortemente annunciato durante tutta la sua esistenza e con tutta la sua vita. Non è facile offrire una sintesi della risposta da lui data ad un preciso disegno di Dio che certamente ha trovato il suo culmine e la sua fonte nella vocazione al Carmelo e che egli ha sempre cercato di conoscere per aderirvi con risposta coerente e lieta, con gratitudine immensa e con filiale obbedienza a Colui che spesso e volentieri confessava suo Creatore e Padre. 

Mi è stato chiesto di presentarvi le linee portanti della spiritualità di A. A. Ballestrero e ho accettato volentieri l’invito per più di una ragione, ma la prima, anche se non è la principale, sta nel desiderio di approfondire sempre di più la mia conoscenza di lui e del suo magistero, oltre che di assaporare al meglio la sua spiritualità che, a mio avviso, sintetizza in modo mirabile la consapevolezza della propria creaturalità, l’estasi della divina figliolanza, il privilegio di essere carmelitano, il dono di essere ministro ordinato e l’impegno di essere vescovo.

È esattamente questa sintesi o profonda unità dei distinti che mi colpisce in lui, nei suoi scritti e nella sua esperienza personale. E reputo che questo debba essere il primo e principale insegnamento che possiamo ricevere dalla sua persona e dal suo itinerario spirituale: questo è quanto cercherò di esprimere e di comunicare qui e ora, ovviamente senza alcuna pretesa di completezza.

Sono pienamente consapevole di non aver saputo dare unità organica alla riflessione che sto per proporvi, ma spero di potervi trasmettere almeno una parte di quello “spirito” che anch’io – come un tempo il giovane Eliseo (vedi 2Re 2,9) – mi auguro di aver ricevuto da lui. Anastasio A. Ballestrero infatti può essere considerato non solo un padre nella fede, ma anche un maestro di vita spirituale. Secondo me egli è stato anche “profeta” avendo saputo ascoltare la Parola e, dopo averla assimilata, spezzarla agli altri con uno stile inconfondibile nell’esercizio di una maternità spirituale spinta fino all’eroismo. Quanti lo hanno conosciuto a fondo, cercando di superare qualche asperità di carattere, lo possono certamente testimoniare.

 

 

Le fonti alle quali mi sono ispirato

Sono ben millecinquecento le voci dei suoi scritti pubblicati, raccolte in catalogo, ma moltissimi altri allo stato di dattiloscritto giacciono presso vari monasteri carmelitani e attendono ancora di essere pubblicati. Alcuni di questi libri ho avuto il piacere di curare io personalmente: questo mi ha consentito di entrare sempre più e sempre meglio nel “santuario” della sua spiritualità e, se mi consentite, della sua vita mistica. Sono infatti persuaso che il Signore gli abbia accordato questo dono: non sono pochi né trascurabili i segni che ci inducono a pensarlo, primo fra tutti la sua ricerca di spazi di silenzio per dedicarsi alla contemplazione.

Di tutta questa ricchezza di testi poi è necessario precisare, senza voler mancare di rispetto, che Padre Anastasio, materialmente, non ha scritto nulla, perché in lui l’allergia congenita allo scrivere era pari al piacere che manifestava nel conversare e nel predicare. Qualche volta lo si vedeva con minuscoli foglietti di appunti tra le mani o sul tavolino, ma poi si restava spiazzati quando si leggevano queste sue “tracce di predicazione”. Spesso erano foglietti con orari di aerei o di treni, che dovevano portarlo ad altre destinazioni per altri impegni. Affermava: “Se non hai un foglietto in mano non ti prendono sul serio”. Ma sul tema che stava svolgendo la sua concentrazione era totale e grande la sua abilità nell’articolarne i vari aspetti secondo un ordine logico ineccepibile. Erano sorprendenti la sua capacità di analisi e la sua rara capacità di sintesi nei convegni, nelle assemblee, nelle commissioni di studio e di lavoro.

Ne sono testimone diretto, soprattutto in riferimento alle sedute della Conferenza Episcopale Italiana, sia nelle assemblee sia nelle riunioni della Presidenza e Consiglio Episcopale Permanente. Soprattutto, e vorrei sottolineare questo aspetto, in lui la parola non era mai vuoto verbalismo. La sua parola esprimeva sempre realtà che erano per Lui verità conosciuta e vissuta. Coniava espressioni e modi di dire che al momento ti lasciavano stupito, come quando ad esempio affermava che il cristiano “deve lasciarsi intridere del mistero di Dio”, deve “lasciarsi macerare dalla soave presenza della Trinità”. Allora coglievi immediatamente che la verità di quei verbi lui la viveva, e quello di essere “intriso o macerato da Dio” era il suo modo di assimilare il Mistero di Dio, di dire chi è Dio e di viverlo con tale pienezza da trasmetterlo a tutti in ogni circostanza con semplicità e gioia.

Un’altra fonte a cui attingerò largamente è la memoria del cuore, l’esperienza personale. Averlo incontrato è stato per me un dono di grazia, e per tre anni la collaborazione alla C.E.I. – lui era il presidente, io ne ero sottosegretario – è stata quasi quotidiana. L’amicizia che ne è nata, per sua bontà, è durata fino agli ultimi suoi giorni terreni, anche cronologicamente: sono stato, infatti, l’ultimo sacerdote da lui accolto con gioia insieme paterna e fraterna, quarantotto ore prima della sua dipartita da noi.

Devo pure confessarvi la tentazione di leggervi integralmente uno dei suoi magistrali interventi che, da religioso o da vescovo o da cardinale ha fatto in tema di vocazione di Dio e risposta coerente dell’uomo. Ma vi lascerò alcune indicazioni bibliografiche perché possiate, se lo vorrete, attingere direttamente alla fonte. Per questa conferenza attingerò soprattutto alla biografia dal titolo “Come ciottolo di fiume” molto sintetica e divulgativa, che recentemente ho voluto pubblicare per un bisogno del cuore, perché la memoria di lui non andasse perduta, ben consapevole che altri in futuro faranno meglio e più esaustivamente di me. È molto viva in me l’esortazione apostolica, che porto scritta su una mia immaginetta e che da quando è morto ho riferito a lui: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita imitatene la fede” (Eb 13,7).

Non riuscirò certamente a dire tutto di A. A. Ballestrero e forse neppure a farvi intravedere la ricchezza e la singolarità della sua testimonianza: ma ci voglio provare spinto, come dicevo, dal desiderio e quasi dal bisogno di entrare da figlio devoto e da discepolo riconoscente nei meandri della sua mente e del suo cuore per percepirne quei battiti d’amore che lo rivelano come uomo tutto evangelico.

Di lui ho sempre ammirato l’umanità limpida e trasparente, anche se non poche persone lo ritenevano furbo. Era una furbizia bonaria la sua, che lo rendeva simpatico ai più e permetteva di cogliere alcuni tratti della sua personalità, oltre che ricchezza di tante esperienze fatte, di profonda conoscenza dell’animo umano.

Di lui ho potuto sperimentare la tenerezza paterna, che non riusciva a nascondere soprattutto in certi momenti di grande verità. Può darsi che da giovane fosse assai esigente, mai però intransigente, con i suoi frati e con quanti erano stati affidati alle sue cure pastorali; ma da vescovo si è certamente distinto per la sua capacità di ascolto e di accoglienza, per la sua apertura d’animo, per la sua compassionevole carità. Lo ha dimostrato molte volte, soprattutto con alcuni presbiteri.

Di A. A. Ballestrero ho pure costatato la religiosità solare e semplice: il suo modo di pregare, il suo modo di presiedere la concelebrazione eucaristica, il suo modo di commentare la parola di Dio (indimenticabili certe sue omelie!), il suo modo di conversare su temi religiosi, il suo bisogno quasi fisiologico di raccoglimento, la sua istintiva ricerca di solitudine e il suo amore del silenzio.

Tutto questo fa parte della mia esperienza personale che, come ho detto, se non costituisce l’unica fonte di questa mia riflessione, certamente è quella che più di ogni altra motiva e giustifica quel carattere un po’ autobiografico di questo mio colloquio che non ho saputo né voluto evitare.

 

 

Fedeltà alla vocazione originaria

Il cardinale Alberto Anastasio Ballestrero nella sua lunga esistenza è sempre stato e sempre si è dimostrato un uomo realizzato, un cristiano autentico, un religioso felice, un sacerdote contento, un vescovo sereno, totalmente offerto a Dio, senza condizioni e senza rimpianti, pienamente realizzato nella sua identità di Figlio di Dio, chiamato al sacerdozio nel Carmelo Teresiano, per raggiungere in questa forma di vita evangelica la carità perfetta, cioè la santità voluta per lui da Dio secondo un preciso disegno del Padre, in Cristo Gesù che dona lo Spirito perché la risposta dell’uomo sia possibile e fedele. Ballestrero si è sempre visto e sentito creatura relativa a Dio, creatura amata con un amore fedele e geloso dal suo Creatore. La sua risposta è stata sempre un atto di fede e di abbandono in questo Signore e Padre. Come quella di Gesù, ha conosciuto il prezzo di un’obbedienza filiale spinta fino all’esperienza del “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, ma è stata pure segnata dalla consolazione spirituale che spesso lo immergeva nella contemplazione riconoscente fino alle lacrime per il dono che Dio era, non solo per lui, ma in lui.

Mi sia consentita una sottolineatura che potrebbe sembrare ovvia, ma non lo è affatto. Nei suoi interventi, e ora nei suoi scritti, il Nostro fa frequente ed esplicito riferimento al binomio “Creatore-creatura” e si ha la netta sensazione che sta qui il fondamento primo e irrinunciabile della sua spiritualità. Questo pensiero gli era assai familiare e lo coltivava con timore e tremore. Nello stesso tempo però egli nutriva radicale fiducia verso il suo Creatore e gli si rivolgeva con la libertà e la fiducia del figlio: forse un figlio un po’ discolo e molto vivace, ma pur sempre devoto e riconoscente. Affermava: “L’uomo è una creatura relativa a Dio. Creando tutte le cose, Dio disse semplicemente: sia fatto. (…) Per l’uomo ha un’espressione unica: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». In questo possessivo c’è una volontà precisa di rapporto, di relazione. Dio vuole l’uomo a sua immagine e somiglianza e volendolo tale, dà senso, contenuto al suo essere che sta creando: l’uomo è caratterizzato immediatamente dall’essere immagine, … non ha significato in sé, ma per il rapporto con un altro Essere, con Dio. (…) L’intima sostanza dell’essere umano sta in questo rapporto di immagine (…). Se l’uomo non fosse capace di manifestare Dio, Dio non sarebbe riuscito nella sua intenzione… (…).Una creatura che evidentemente non è Dio, ma che è capace in se stessa di esprimerlo, cioè di significarlo, di annunziarlo, di esserne immagine. Una creatura, quindi, che si caratterizza per un rapporto immanente con Dio: ecco l’uomo!”.

Queste, appena lette, sono espressioni della prima pagina di un bellissimo corso di esercizi che le Carmelitane scalze del monastero di S. Giuseppe di Roma hanno pubblicato nel 1986 per il cinquantesimo anniversario della Ordinazione sacerdotale del Cardinale e che allora, ve lo confesso, non sono riuscito a presentare che con una sola pagina forse scialba, diviso com’ero tra lo stupore per la straordinaria semplicità dell’esposizione dottrinale di “un messaggio immenso” e la capacità pedagogica di chi lo trasmetteva: “Una guida, scrivevo, che sa adattare il suo servizio alle asperità del percorso, ma quando la meta si fa vicina ama sottrarsi fino a scomparire!”. Oggi, a distanza di venti anni, mi sento di sottoscrivere pienamente quella valutazione perché in essa riconosco una delle scelte fondamentali del metodo pedagogico del Nostro.

L’affermazione giovannea che “Dio è amore… In questo si è manifestato l’amore, che non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4, 8-10) sta a fondamento della sua teologia, che era sempre riflesso luminoso della sua vita di comunione e di intimità con Dio prima di essere, come anche lo era, una scienza appresa attraverso studi severi e metodici. Non ha mai cessato di studiare per tutta la sua vita e anche in età avanzata ha sempre coltivato l’amore per la lettura: era un divoratore di libri. La sua cultura era eminentemente ma non esclusivamente teologica. Aveva interessi sconfinati e variegati, ma sempre riconducibili all’esercizio del suo magistero e del suo ministero. Anche questo – sia detto chiaramente – è un tratto caratteristico della sua spiritualità: cosa degna di essere rilevata anche a nostro ammonimento. Con altrettanta chiarezza l’evangelista Giovanni offre pure la modalità della risposta dell’uomo: “E noi abbiamo creduto all’amore” (1Gv 4,16). Anche questo aspetto va esplicitato a chiare lettere. Infatti, se da un lato egli sentiva fino allo commozione la dimensione preveniente dell’amore di Dio per lui, d’altro lato avvertiva fino alla spasimo il dovere di corrispondere all’amore di Dio con tutte le sue energie fisiche e spirituali. È un atteggiamento che fa capolino da ogni sua pagina e ci mette sulla pista giusta per descrivere sia pure a grandi linee la sua spiritualità. Il suo dialogo con Dio non era fatto solo di parole più o meno forbite, ma anche e soprattutto di grandi desideri, di propositi forti e di concreta corrispondenza alla divina chiamata.

Capitava a volte, nelle assemblee o in gruppi di lavoro, di vederlo inquietarsi, anche se la sua capacità di autodominio era straordinaria e le sue risposte o i suoi interventi risultavano sempre pacati, pur se critici. Ebbene, questo accadeva quasi sempre quando il suo o i suoi interlocutori al loro discorso ponevano la premessa: “Dal semplice punto di vista umano…Umanamente parlando…”.

Allora ti accorgevi che il primo movimento dell’animo di Ballestrero era di fuoco. Spesso commentava: “Ma non hanno capito niente! Non si può fare un discorso serio sull’uomo prescindendo da Dio. Esiste un unico discorso possibile sull’uomo, quello che tiene conto della vera essenza dell’uomo, cioè del suo essere relazione con Dio! Certo, dobbiamo essere costruttori del nostro progetto di vita, ma la prima logica è quella di entrare nella logica di Colui che, giorno per giorno, ci sceglie e giorno per giorno ci costruisce, collocandoci nel suo progetto. Progetto meraviglioso di cui conosciamo poche cose, ma nel quale progredendo conosceremo sempre più lo splendore, splendore che si chiama gloria di Dio” (Chiamati per nome. Esercizi spirituali alle Juniores, settembre 1977. Dattiloscritto).

Qui comincia a emergere la sua personale attitudine dinanzi al mistero della vocazione: essa è dono, semplicemente dono e come tale va considerata e vissuta. Dal dono possiamo intuire qualcosa del Donatore e solo dal Donatore possiamo e dobbiamo accoglierla con animo commosso e riconoscente, senza troppi come e perché. Il dono è così grande e immeritato che da parte nostra ci sta bene solo il sì dell’accoglienza pronta e generosa. Ballestrero forse sta tutto qui – qui possiamo riconoscere il centro nevralgico della sua spiritualità – e lo dobbiamo studiare a partire da questo dato.

Ora vorrei ricordare quello che forse costituisce il primo momento di questa sua meravigliosa chiamata: il 21 giugno 1923, a nove anni, la prima Comunione, eucaristica, (e morirà esattamente il 21 giugno 1998, 75 anni dopo, una morte, la sua che sta quasi a significare che l’incontro con Gesù attraverso il faticoso cammino della fede di tutta una vita, ora diveniva incontro faccia a faccia nella visione), lascia in lui un segno incancellabile che orienta ogni sua scelta. Il dono semplice di un’immagine, che rappresenta una beata carmelitana scalza di Firenze, S. Teresa Margherita Redi, lo lascia pensoso. Non sa il latino e chiede la traduzione al sacerdote che gli ha fatto quel dono: “Deus caritas est”, Dio è amore. “È di lì che è cominciato. Che Dio è amore è una cosa che è sempre rimasta nella mia mente e nel mio cuore…”. Nel testamento scritto settant’anni dopo affermerà: “All’ Ordine della Madonna del Carmelo devo tutto, soprattutto l’inesauribile scoperta che Dio è Amore e che la preghiera ne è l’inesauribile esperienza”. Un discorso di fede il suo, fede da Lui approfondita attraverso gli studi seri della sua formazione scolastica, che avevano in S. Tommaso il maestro e che più tardi, nella frequentazione mensile del circolo dei coniugi Maritain a Parigi, avranno l’occasione privilegiata di approfondimento. Ma discorso di fede mai disgiunto da esperienza di vita, come dicevamo prima, che in ogni occasione, fin dalla più tenera età, lo hanno portato a sperimentare l’azione di Dio su di Lui, sulla Chiesa e nel mondo, in modo particolare quell’esperienza unica dell’azione dello Spirito Santo che per Anastasio Ballestrero è stato il Concilio Ecumenico Vaticano II.

 

 

Il grande evento del Concilio Vaticano II

A proposito del Concilio ritengo necessario fare una sosta nel nostro itinerario. Prima di essere esperienza di comunione ecclesiale, infatti, l’avvenimento del Vaticano II per Ballestrero, che vi partecipò dall’inizio alla fine, sia come presidente di tutti i Superiori Generali degli ordini religiosi, sia come esperto nella Commissione dottrinale, è stata esperienza di incontro con Dio Amore, da cui è uscito letteralmente trasformato, gioioso testimone della sua consacrazione religiosa riscoperta ed amata come dono di Dio. Confermato nelle sue intuizioni, ma anche arricchito di nuove dimensioni e nuove prospettive della teologia, Ballestrero vivrà la sua risposta alla chiamata di Dio come rendimento di grazie per il dono ricevuto, come esercizio di libertà filiale che lo immerge sempre più profondamente nella realtà di comunione che Dio è. Vivrà la sua risposta a Dio come testimonianza che si fa profezia esemplare di un’esistenza accolta come vocazione, come chiamata a diventare quello che già siamo: creature di Dio volute a sua immagine e somiglianza, partecipi della sua stessa natura.

Al Vaticano II padre Ballestrero ha dato un valido contributo di pensiero e di dialogo, ma dal Concilio egli ha certamente ricevuto molto, moltissimo. Ne sono ancora una volta testimone diretto, avendolo sentito parlare da teologo prima del Concilio e avendolo frequentato dopo. Ebbene ho avvertito la grande novità del suo parlare e del suo argomentare: nulla di nuovo dal punto di vista contenutistico, ma certamente molto di nuovo nell’impostazione metodologica del discorso, soprattutto nell’ispirazione biblica e nell’afflato spirituale.

Ho avuto modo di seguire la riedizione di un suo libro, totalmente dedicato alla teologia e alla spiritualità del Concilio Vaticano II. In quella occasione ho avuto parecchi scambi e confronti con il card. A. A. Ballestrero, allora presidente della CEI, e devo riconoscere che era suo vivo desiderio poter contribuire con tutte le sue forze alla diffusione degli insegnamenti e della spiritualità conciliare. Penso che, dopo il dono della vocazione carmelitana, quello del Concilio sia stato da lui considerato come il dono più bello perché lo ha stimolato a riscoprire la dimensione ecclesiale della sua vocazione.

Oso affermare – ma lo faccio dopo lunga riflessione e a ragion veduta – che il Vaticano II ha provocato nel Nostro una sorta di conversione, soprattutto a livello di metodologia della ricerca teologica. A. A. Ballestrero, dopo l’esperienza diretta di padre conciliare, ha abbandonato la rigidità di una teologia scolastica tradizionale e ha adottato il metodo della riflessione teologica conciliare, che non si accontenta di coniare definizioni dogmatiche ma si diletta a contemplare il mistero rivelato nell’ascolto della Parola di Dio seguendo i ritmi della storia della salvezza. Lo stile della sua predicazione, come quello del Concilio, era per lo più uno stile narrativo, non scevro da alcuni tratti autobiografici, che dava brio e freschezza al suo parlare.

Quello che egli ha imparato dal Concilio Vaticano II lo ha assimilato a tal punto che ormai non solo la sua predicazione ma la sua stessa spiritualità si sono rivestite, direi, dei panni conciliari. Il volume al quale ho accennato poc’anzi, Fare memoria del Concilio (ed. Bertello, Borgo San Dalmazzo 1986), ne è testimonianza sempre viva. In esso infatti il card. Anastasio A. Ballestrero riafferma “il nostro comune impegno ad essere preti e pastori del Concilio, a diventare sempre più predicatori del Concilio, a vivere il Concilio nella lettera e nello spirito, a far passare il suo insegnamento nel cuore delle nostre comunità, a educare i nostri fedeli nella luce e nella grazia del Concilio, a ringraziare il Signore per averci chiamato a vivere e a servire in questo momento conciliare della storia della Chiesa” (pag. 223).

Tra i documenti conciliari quelli ai quali egli ha potuto offrire molto della sua competenza e della sua sensibilità sono la Lumen gentium e la Perfectae charitatis, ma non c’è alcun dubbio che padre Ballestrero ha anzitutto accolto il Concilio Vaticano II come dono di Dio, come evento di straordinaria importanza per la Chiesa e per il mondo intero, come rinnovato invito del Signore a vivere la sua vocazione con piena e totale dedizione alla causa del Regno.

Ma mi è caro ricordare un altro singolare e simpatico apporto di padre Anastasio Ballestrero al Vaticano II: quello che riguarda la formulazione dell’incipit della Gaudium et spes. La precedente stesura infatti iniziava con le parole Luctus et angor mentre Gaudium et spes veniva di seguito: questo al Nostro parve qualcosa di troppo deprimente e triste. Gli venne allora l’ispirazione di suggerire lo scambio dei due binomi. Fu così che la famosa costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo prese il titolo di Gaudium et spes: un dettaglio, direi, non trascurabile.

 

 

I tratti caratteristici della sua testimonianza

La sua è stata la testimonianza di un’esistenza completamente consegnata a Dio come risposta alla verità conosciuta della volontà di Dio su di lui: una testimonianza dai forti caratteri autobiografici. Per interpretare adeguatamente gli scritti di padre Ballestrero occorre avere un’antenna sensibile, capace cioè di riconoscere e di raccogliere i dati autobiografici. Non è impresa difficile, soprattutto per chi gli è stato vicino.

Il titolo della biografia “Come ciottolo di fiume” se prende spunto da una sua preghiera ormai famosa, si riferisce anche al suo cammino di religioso nel Carmelo secondo il carisma di Teresa d’Avila, di Giovanni della Croce, di Teresa di Lisieux, per non citare che i Dottori della Chiesa del Carmelo da lui sempre definito “Ordine benedetto della Vergine Maria”. In una bellissima pagina di un testo carmelitano delle origini (Institutio primorum monacorum), descrivendo il Monte Carmelo, il luogo geografico della Terra Santa, dove l’Ordine è nato attraverso l’iniziativa di alcuni crociati che nel XIII secolo si erano ritirati a vita eremitica, si parla di un fiume che rende fecondo il terreno. In modo figurato ed allegorico il fiume viene chiamato Carit e l’eremita è invitato ad abitare in queste acque della carità, immerso totalmente in Dio che è carità, in colloquio d’amore con lui nella contemplazione, per fare esperienza fin da questa vita di quello che il dono battesimale è nella sua essenza: partecipazione alla vita stessa di Dio.

Sento di poter affermare, per quanto mi è stato dato di conoscerlo direttamente, come per moltissime testimonianze di coloro che lo hanno incontrato, che P. Anastasio visse sempre con questo unico anelito: immergersi nell’oceano infinito di amore che Dio è. La sua vita è stata un atto ininterrotto di fede, di consegna di sé nelle mani di Dio come un sasso, un ciottolo nelle acque di un fiume, che viene portato verso l’oceano e lungo il cammino viene smussato, levigato, lavorato, sia dalle onde come dai vari detriti che incontra, senza opporre resistenza, senza prendere iniziativa se non quella di aderire allo scorrere dell’acqua, con i suoi tempi e i suoi flussi. Temporeggiava, era lento nel decidere: qualcuno con piglio critico lo diceva a volte di lui, ignorando che il non decidere in fretta, la non apparente presa di posizioni drastiche, il non fare era il suo modo di lasciar fare al Signore per non intralciare in sé e nell’altro l’azione dello Spirito santo. Il silenzio di P. Anastasio fu veramente l’incarnazione del versetto della regola carmelitana mutuato dal profeta Isaia: “Nel silenzio e nell’abbandono fiducioso sta la vostra forza” (30,15). Sempre, in ogni stagione della sua vita il silenzio l’ha accompagnato: da religioso, da vescovo, da cardinale.

Ascoltare Dio nella brezza di Elia (vedi 1Re 19,11-13), il profeta a cui gli eremiti si ispirarono come padre della loro regola, significò per Ballestrero la capacità di un’immolazione costante, che spesso lo scarnificava (è una delle sue confidenze), ma che lo rendeva capace di una carità senza limiti verso tutti.

E questo amore verso i fratelli è sempre stato la prova del nove della sua comunione piena con Dio-Amore. “A Te il silenzio è lode” (Tibi silentium laus): l’espressione iniziale del Salmo 65(64) secondo il testo masoretico esprime forse una delle convinzioni più profonde e più congeniali al Nostro. Egli si sentiva attratto dal silenzio e lo cercava con tutto il peso della sua personalità: a lui si addice pienamente quest’altra espressione del Salmo 62(61),2: “Verso Dio vibra di silenzio l’anima mia”.

Un giorno, a Torino, dopo una celebrazione alla Consolata in sacrestia davanti ai fedeli aveva ascoltato in silenzio gli insulti pesanti di uno dei suoi preti. Disse a Sr. Antonina di tornare a casa in tram e lui si fece accompagnare da P. Giuseppe alla casa di quel prete che, fermatosi a dare in escandescenze arrivò dopo di lui e sbiancò nel vederselo sulla porta di casa. “Senti, caro, sono venuto e ti ho atteso qui, perché tu possa dirmi con più tranquillità le tue ragioni” (Come ciottolo di fiume, Cinisello Balsamo 2004). Non c’è dubbio che in questo modo l’arcivescovo rivelava un aspetto della sua personalità: non pretendeva certo di avere sempre ragione, ma con tutti si apriva al dialogo e si metteva alla ricerca della verità e della giustizia.

La santità come meta della chiamata da parte di Dio a vivere da figli nel Figlio, gli ha fatto scrivere una pagina bellissima su Avvenire in occasione della dichiarazione a Dottore della Chiesa di S. Teresa di Lisieux, qualche mese prima di lasciarci. Ma egli non ha atteso il 1997 per richiamarci alla realtà della gratuità del dono di Dio che esige dall’uomo solo una risposta di fede e di abbandono. Nel 1942 per la rivista di Vita Spirituale del suo Ordine in un articolo dal titolo “Tutto è grazia”, proprio rifacendosi all’espressione famosa della Santa, ha steso pagine stupende su questa “via della confidenza e dell’abbandono” come unica percorribile dall’uomo per rispondere alla vocazione alla santità, che è la perfetta realizzazione di sé. Mentre Teresa di Gesù Bambino si vedeva come un granellino di sabbia, P. Anastasio di sé dirà di essere un ciottolo:

“…Che cosa farai, di questo ciottolo che io sono,

di questo piccolo sasso

che tu hai creato e che lavori ogni giorno

con la potenza della tua pazienza

con la forza invincibile

del tuo amore trasfigurante?”.

Importante è trovarmi ogni giorno là

dove tu mi metti, senza ritardi.

E io per questa pietra sento di avere una voce:

voglio gridarti, o Dio,

la mia felicità di trovarmi nelle tue mani

malleabile

per renderti servizio

per essere tempio della tua gloria”.

A Torino, alle Religiose della sua diocesi, nell’anno santo dell’83 in più meditazioni richiamerà questo impegno: “Siate quello che dovete essere…Diventate quello che siete”, impegnando la loro riflessione sulla vocazione alla santità come realizzazione piena del loro essere donne, battezzate e consacrate. L’ondata del femminismo era imperante allora, come in parte anche oggi. Ebbene il card. Ballestrero allora, ma sono certo che lo ripeterebbe anche ora, additava alle religiose l’unica via sulla quale possono trovare quella piena realizzazione di se stesse che il Creatore ha messo nel loro cuore: la via della santità intesa come accoglienza del dono di Dio e come abbandono personale alla Sua chiamata. A questo punto però devo spendere quattro parole sul discernimento vocazionale.

 

 

Sul discernimento vocazionale

Nel magistero di Ballestrero il discernimento vocazionale ha sempre avuto un preciso luogo teologico: la vocazione dell’uomo a divenire quello che è, santo ad immagine del Santo che lo ha chiamato (1Pt 1,15), conforme all’immagine perfetta che è il Figlio in cui per mezzo del Battesimo siamo figli (Rm 8,29).

Era solito affermare che non ci può essere autentico e fruttuoso discernimento vocazionale se non si parte da quella che il Concilio ha definito vocazione universale alla santità, cioè vocazione propria di ogni uomo, intesa come realizzazione di sé quale immagine di Dio che è Amore.

Gratuità della chiamata e meta comune della santità, raggiunta per sinergia tra dono di grazia e risposta fedele dell’uomo: sono queste le premesse teologiche che, nel magistero di P. Anastasio, non sono mai disgiunte. Il cammino personale di ogni battezzato è caratterizzato dalla risposta coerente e fedele al Dio che chiama a realizzare la vocazione alla santità nella sequela Christi. Nessun idealismo nella sua lettura della vocazione cristiana, ma sempre e solo realismo evangelico, attualizzato alla stregua dei tempi e delle situazioni personali.

La vita come vocazione per Ballestrero non è un privilegio esclusivo di stati di vita speciali, quali per esempio il sacerdozio ministeriale o la consacrazione religiosa, ma è il proprium di ogni creatura umana chiamata da Dio all’esistenza.

La chiamata all’esistere è già vocazione e deve diventare risposta affinché l’immagine di Dio che l’uomo è nel disegno del Creatore diventi realtà vissuta.

In uno degli ultimi corsi di Esercizi Spirituali da lui guidato – Prima le radici (ed. S. Paolo 1996) –, richiamando alla realtà del Battesimo come verità che si contrappone “alle verità provvisorie che non sono quelle per cui siamo nati, le verità terrene che non fanno la sapienza dell’uomo, perché vengono prima le radici che le foglie…” afferma: “La varietà delle vocazioni cristiane ha nel Battesimo la sua matrice sacramentale. La molteplicità delle vocazioni esprime la ricchezza infinita della vocazione di Cristo, ogni vocazione in certo modo rende manifesta e dà testimonianza alla santità e alla vocazione di Gesù, cioè di quello che il Padre ha voluto da Gesù e che Gesù è venuto a compiere.

Perciò tutti siamo realizzatori di una vocazione che in Lui è piena, che in Lui solo è perfezione umana e al di fuori di Lui non ha compimento” (pag. 50). Di questa varietà vocazionale indicava con chiarezza lo splendore, i limiti e il carattere: “La varietà delle vocazioni, affermava, mentre sottolinea la ricchezza della vocazione di Cristo, esprime anche la parzialità e potremmo dire la povertà delle vocazioni umane. Solo Cristo ha la vocazione plenaria che tutto realizza, i battezzati ne realizzano una parte e la varietà delle vocazioni è per ciò stesso la ragione di una santità che nell’umiltà di Cristo si radica e alla perfezione di Cristo si ispira. È in questa luce che il battezzato entra nei disegni

del Padre e viene assunto nella realtà del mistero di Cristo non tanto per realizzare se stesso, quanto per realizzare Cristo; non tanto per glorificare il proprio nome, ma per manifestare la gloria e la misericordia del Signore”. E concludeva: “Per questo le vocazioni cristiane, nessuna esclusa, si caratterizzano per una dimensione di consacrazione prima di tutto; di ecclesialità in secondo luogo e per una dimensione di santità a compimento di tutto” (pag. 51).

Un solo episodio. Ad un convegno nazionale di Madri Generali sulla vita religiosa, il cui oggetto di studio era il discernimento vocazionale e l’accompagnamento spirituale del religioso fino alla professione definitiva dei voti, dopo aver ascoltato la relatrice circa l’opportunità di un percorso più lungo nel tempo e di una maggiore qualificazione scientifica e culturale dei soggetti, in vista di una loro maturità più solida e completa, gli fu data la parola. Premetto che, da Provinciale prima e da Generale del suo Ordine per due mandati lui aveva imposto per l’accettazione al noviziato almeno la Terza media (siamo nel 1948) e gli studi classici per tutti i candidati al sacerdozio; e per i suoi religiosi aveva voluto l’erezione della facoltà teologica dell’Ordine, il Teresianum, oggi Università pontificia, senza precludere loro l’accesso alle università anche statali (siamo negli anni ’50, prima del Concilio). Ebbene, così intervenne. “Sa a che cosa pensavo mentre lei ripeteva ‘maturità, maturità, maturità’? pensavo alle pere, che a furia di maturare diventano marce… Il percorso da lei delineato porterebbe il soggetto ad essere in grado di donarsi a Dio solo dopo i quarant’anni.

Perché prima ci sono tutte le varie specializzazioni e lauree e diplomi da conseguire, poi tutte le esperienze di questo mondo da fare nel campo dell’apostolato specifico dell’Istituto, … poi… poi… Poi se ne vanno, perché tempo per incontrare Gesù Cristo, per stare davanti a lui ad ascoltarlo, ad innamorarsi sempre più di lui non lo hanno avuto. Terminata la formazione, meglio la maturazione, con tutti i suoi attestati e diplomi, le inviate non alla cattedra, ma alla casa dove avete radunato quelle vostre sante sorelle che, anziane e ammalate, dopo aver speso tutte se stesse per il Signore sono in attesa della sua venuta. Qui la maturità si rivela: dire di sì per tutta la vita per marcire in un ricovero con la laurea in tasca? No. E se ne vanno. Ma, quando avete aiutato le giovani a capire che essere consacrati è un gesto di Dio che ti sceglie e ti manda per prolungare nel tempo e nella storia l’esperienza di Gesù benedetto, il Figlio in tutto obbediente al Padre? Il testo latino della Lumen Gentium in cui si parla dei consacrati è stato tradotto male in italiano. Il Consecrantur tradotto col possessivo si consacrano, si riferisce ai religiosi, ma il testo ha una nota aggiuntiva che afferma a Deo consecrantur. Sono consacrati da Dio. Non è umanesimo la vita religiosa, è vita trascendentale a livello di redenzione salvifica radicata nel mistero della Trinità” (da una conversazione registrata in un Carmelo). “Vita trascendentale a livello di redenzione salvifica, radicata nel mistero della Trinità”: il linguaggio è tecnico, degno di un teologo consumato ma non si fa fatica a entrare con lui nel vivo del discorso. Il discernimento vocazionale per Ballestrero non implica tanto la ricerca di segni positivi o negativi di una qualsiasi vocazione (“Non è umanesimo la vita religiosa”), non può esaurirsi nelle indagini psicoanalitiche oggi di moda, quanto piuttosto la ricerca della volontà di Dio e del suo progetto sui di noi mediante un’introspezione che è possibile quando l’anima si lascia illuminare pienamente dalla luce divina: “Alla tua luce vediamo la luce” (Salmo 36(35),10). Ecco un’altra pagina di Anastasio A. Ballestrero sul tema spinoso del discernimento vocazionale: “Quanto al discernimento vocazionale al quale dobbiamo tanta attenzione specialmente coi tempi che corrono, è necessario stare attenti a non farne un problema psico-antropologico prevalente, un’analisi sociologica pertinente, un’analisi culturale approfondita. Dio chiama chi vuole e quando Lui chiama manifesta una volontà, la volontà di adeguare alla sua chiamata le creature che chiama. Il riconoscere se sia vero che il Signore chiama non va giudicato unicamente dalle qualità che secondo noi devono caratterizzare il chiamato, ma piuttosto dal saper scrutare con la sapienza della fede e della carità quali siano i progetti di Dio. (…): Dovremmo, percorrendo il Vangelo, osservare come Cristo chiama, come Cristo educa, come Cristo porta a compimento il processo consacratorio di un’esistenza”.

 

 

Ballestrero maestro di vita spirituale

Il tempo di una conferenza non ci offre la possibilità di accostarci in modo esaustivo all’intero e articolato magistero di A. A. Ballestrero sul tema della vocazione e delle vocazioni, ma vorrei fare ancora un’annotazione che reputo di una certa importanza appunto perché pretende di cogliere una costante della sua predicazione e quindi un punto fermo della sua spiritualità.

Da religioso, con responsabilità formative all’interno del suo Ordine fino alla responsabilità di Superiore Generale del Carmelo teresiano e di Presidente internazionale di tutti i Superiori maggiori, come Vescovo e Pastore di una Chiesa locale, quella di Bari prima e quella di Torino e quindi come responsabile di una

Conferenza Episcopale, quella italiana, Anastasio A. Ballestrero ha sempre privilegiato sul piano operativo questa visione teologica della vita come vocazione, esigendo per sé e per gli altri collaboratori il rispetto della diversità e specificità di ogni vocazione, differenziando programmi e mezzi secondo le esigenze dei carismi e dei doni. Un solo esempio, che stavolta si riferisce alla vocazione laicale nella Chiesa. Infatti padre Ballestrero, religioso consacrato in un ordine contemplativo, ha sempre amato e stimato i laici e li ha sempre chiamati a compiti di responsabilità e di collaborazione fattiva nella comunità ecclesiale. (Se vi è possibile vi esorterei a leggere e gustare un fascicolo, edito dall’Azione Cattolica, con una sua meditazione al corso di formazione per responsabili del 1975, dal titolo “La Vocazione all’Azione Cattolica”, un gioiello!).

A Torino, da Arcivescovo, uno dei chiodi fissi della sua pastorale fu la formazione dei laici nell’ambito delle loro varie vocazioni, con una precisazione però, che non dava mai per scontata. Non voleva un medico cattolico, un insegnante cattolico, un operaio cattolico. Esigeva, per coerenza col Battesimo ricevuto, un cattolico che opera come medico, come insegnante e come operaio.

Metteva in guardia circa le modalità di questa formazione affermando con insistenza: “Abbiamo bisogno di formare laici, però dobbiamo persuaderci che non possiamo formare i laici senza i laici. Fare diversamente sarebbe una forma di clericalismo deteriore! Per questo i programmi dei corsi per gli operatori pastorali non devono essere strutturati per creare preti o diaconi in miniatura e neppure per soddisfare la curiosità intellettuale delle persone di mezza età… ma per formare qualificati collaboratori dei parroci, secondo la vocazione propria del laico…” (Come ciottolo di fiume, Cinisello Balsamo 2004).

Ma è tempo di focalizzare la nostra attenzione su alcuni aspetti del magistero di P. Anastasio, che si riferiscono più direttamente all’ambito delle vocazioni di speciale consacrazione, quelle che ebbe più care e per le quali diede tutto se stesso, sia a livello comunitario nella predicazione instancabile di corsi di Esercizi spirituali, come negli incontri personali di direzione spirituale e di confessione sacramentale.

Il suo insegnamento risultava ed è ancor oggi incisivo perché, in questo ambito, oltre che esposizione di sapiente e chiara dottrina troviamo offerta cordiale e convinta della sua esperienza di vita. Con una certa aria sorniona ai convegni sull’aggiornamento dei vari aspetti, mezzi e percorsi della vita religiosa, usciva con battute pronte e precise per fare il punto della situazione, per riportare dentro limiti accettabili un discorso che aveva conosciuto intemperanze o provocazioni teologiche e dottrinali fuorvianti: “Con me il Signore non ha agito così”. Le affermazioni che poco prima erano risuonate e che ti apparivano folgoranti intuizioni per la soluzione dei problemi, lui le riportava tutte al cuore di un’unica verità: “Dio chiama ancora oggi, come sempre. E se chiama, oggi come sempre, dà al chiamato i mezzi e la grazia per rispondere… Non annacquiamo i doni di Dio e la risposta…”. Portava poi le ragioni della sua fede in Dio che chiama e nell’uomo che, perché chiamato, può rispondere. Erano a volte battute che ti lasciavano sulle labbra il sorriso a metà, perché le parole che seguivano erano così sostanziate di sapienza evangelica che d’improvviso ti facevano attento nell’ascolto, ti liberavano da inquietanti problematiche, ti rendevano lieto per la riscoperta dell’amore di Dio per la sua creatura. Dietro la battuta ci stava una preparazione profonda, esistenziale sul tema dibattuto e, come lui affermava lapidamente, “reso problematico dalla nostra problematicità, perché se oggi non siamo problematici non siamo seri, se non siamo problematici non siamo importanti!”.

 

 

La vita come vocazione

Nella primavera del 1994, predicando un corso di Esercizi ai giovani salesiani studenti di teologia (il corso è pubblicato dalla LDC col titolo Consacrati a Dio nella Chiesa), così esordiva: “Vi auguro che questi giorni siano una festa di pensieri santi. Per mantenere questo clima festivo non ho alcuna intenzione di farvi arrampicare per le acrobazie della filosofia o della teologia dei tempi nostri. A questo pensano i vostri illustri ed eccellenti professori. Il Signore li aiuti, ma questo è più la vostra penitenza che la vostra festa. Io vorrei invece aprirvi il cuore, il cuore di un vecchio battezzato, che sa che cosa vuol dire essere graziato da Dio in una vocazione, uno che ha fatto della consacrazione religiosa il contenuto esclusivo della propria esistenza. Parleremo della vita religiosa, ma non ne faremo un trattato. Non ne ho nessuna voglia e francamente ai trattati non credo più. Qualche volta dico al Signore: ‘Signore, ho insegnato teologia per vent’anni, ma quanto tempo ho perso!’ Non andatelo a dire ai vostri professori, se no mi mandano qualche anatema… Ma la verità è festa dell’anima, è splendore dello spirito, è effusione di carità… Allora in questi giorni sulla consacrazione parleremo più con la sapienza del cuore che con la sapienza della mente…”.

Non possiamo non rilevare il tono pacato e sereno, non privo di qualche tonalità ironica e quasi polemica. Ma quello che più colpisce è il puntare subito su quello che sarà il tema di tutto il corso di Esercizi Spirituali e il gusto di prospettarne fin dall’inizio tutta la bellezza e tutta l’attrattiva possibile. Se c’è una scuola da frequentare nella vita è solo ed esclusivamente la scuola del Vangelo nella quale il Maestro Gesù si fa nostra guida per illuminare il nostro cammino personale e comunitario.

Di questo corso di Esercizi voglio leggere con voi una pagina dalle meditazioni del primo giorno, che molto opportunamente è stata intitolata “Il Mistero della vocazione”. Riassume a mio avviso in modo sintetico e chiaro il pensiero di P. Anastasio che possiamo ritrovare in tutti i suoi interventi, anche quelli fatti come Vescovo e Cardinale in sedi più qualificate di un corso di esercizi.

Mi riferisco a suoi interventi al Concilio, nelle plenarie delle Congregazioni Pontificie per la Dottrina della fede o in quella per i Religiosi e gli Istituti di vita apostolica, e nei vari Sinodi dei vescovi a cui ha partecipato.

Così disse ai giovani salesiani: “«Vieni e seguimi!» (Luca 18,22): non è un sigillo che il Signore Dio mette alla tua scelta, ma una scelta che il Signore fa, una scelta illuminata dalla sua sapienza, ma soprattutto una scelta vivificata dalla sua carità. Dio chiama, e quando siamo chiamati da Dio non tocca a noi domandarci se siamo capaci o meno di obbedire alla chiamata. Il fatto che Egli chiama diventa per noi forza per seguirlo. «Vieni e seguimi!» – è sempre lui a parlare – Dio irrompe nella vita delle sue creature senza preamboli. La preparazione vocazionale di Pietro e di suo fratello, di Giacomo e di Giovanni, chiamati così repentinamente a seguirlo è stata una preparazione vocazionale anomala, diciamo noi. Cristo poteva fare tutto. Ma non dimentichiamo che ciò che Cristo fa è esemplare e troppi prolegomeni vocazionali, troppi tirocini vocazionali fondati sulle cose umane tolgono l’afflato dello Spirito Santo e tolgono addirittura l’identità dell’autentica consacrazione. Si può arrivare ad una deformazione della vocazione religiosa, identificandola con una scelta professionale. Ho deciso di fare il medico, ho deciso di fare il frate: è su per giù la stessa cosa. Queste note secolarizzanti, che serpeggiano un po’ dappertutto oggi specialmente, contraddicono al contegno di Cristo che chiama all’improvviso, subitaneamente, che vuole essere seguito subito. «Lasciate le reti lo seguirono…Vado a seppellire mio padre, poi vengo… No, lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va’ e annunzia il regno di Dio!» (Luca 5,11; 9,59s)”.

Non c’è alcun dubbio che questo modo di argomentare rivela un forte attaccamento al Vangelo interpretato ad litteram, un po’ come faceva Francesco d’Assisi. Nello stesso tempo tradisce quel radicalismo evangelico che spesso e volentieri serpeggia negli scritti di Anastasio A. Ballestrero e lo vediamo tracimare anche oggi. Nessuno si spaventi dinanzi al termine “radicalismo evangelico” soprattutto quando lo si applica agli scritti e alla vita di Anastasio A. Ballestrero. Egli infatti sapeva essere anche un uomo gioviale, un amico cordiale, un ospite allegro, un padre affettuoso, un fratello fidato; sapeva abbinare la radicalità delle scelte di vita cristiana e religiosa alla gioia di una conversazione protratta a piacimento, di un pasto condiviso in amicizia (non credeva affatto ai cosiddetti pranzi di lavoro e non li voleva affatto), di una gita di sollievo.

“Questi metodi di vocazione di Cristo – sono ancora parole sue – devono tanto farci pensare, devono spogliarci dei cosiddetti diritti, così assolutizzati dall’idolatria dell’uomo, cedendo il passo alla signoria di Dio. (…) Ma il Signore faceva miracoli, il Signore cambiava i cuori, illuminava le menti… E il Signore oggi non lo fa più? Nel dono vocazionale siamo sicuri che questo prodigio della gratuità divina, questo prodigio della potenza divina non si ripeta?

Se ci fidassimo meno di noi, fossimo più capaci di credere che il Signore ci ha scelti non perché lo meritavamo, ma perché eravamo gli ultimi, forse le cose andrebbero meglio. (…) Questa miscela misteriosa, dove lo splendore della potenza, dell’amore di Dio dilaga e dove la consapevolezza della povertà della creatura si fa presente nella stessa misura è la vocazione. (…) E di fronte al Signore che chiama bisogna dire sì. (…) Possiamo anche noi avere dubbi, perplessità, possiamo anche noi chiedere a Gesù come qualcuno ha fatto: «Signore dove abiti? Da dove vieni? Dove vai?». Le risposte stanno nel «Vieni e vedi». Andando dove egli ci conduce, si vede; vedendo si crede; credendo, la vita cambia completamente. Questo intreccio di dinamismi divini, di esperienze profondamente umane, costituiscono il fenomeno di una vocazione” (pag. 14-18).

Sinceramente si rimane un po’ perplessi dinanzi a una riflessione di questo genere, a meno che uno abbia avuto la grazia di conoscere il card. A. A. Ballestrero e abbia avuto la fortuna di frequentarlo da vicino. Allora questo modo di ragionare non meraviglia più. Qui si riconosce non solo il suo stile letterario ma ancor prima il marchio della sua personalità, l’impronta della sua parola sempre viva e incisiva, il segno inconfondibile della sua spiritualità.

 

 

Fedeltà alla propria vocazione

Un’altra costante del magistero del Cardinale sul tema vocazionale è quella della fedeltà. Passo ancora a lui la parola e stavolta scelgo un discorso rivolto ai sacerdoti. Lo so che in parte mi vado ripetendo, ma lo faccio appositamente a partire dalla convinzione che in A. A. Ballestrero le idee-madri sono poche e che per comprenderle a fondo è necessario riascoltarle spesso.

Qui il card. A. A. Ballestrero delinea a chiare lettere i tratti caratteristici della spiritualità presbiterale e lo fa con parole semplici ma quanto mai incisive. Scrive: “Il primo atteggiamento rimane quello della fede; è quello per il quale non accettiamo mai di considerare il fatto che siamo sacerdoti come un fatto puramente storico ed esteriore, ma lo consideriamo come un mistero di grazia che continua, come un mistero in atto, come una realtà viva che sta maturando, che sta realizzandosi, che coinvolge la nostra esistenza: non la pregiudica, nel senso che ci colloca in una situazione irrimediabile, ma la coinvolge giorno per giorno assumendola. E questa capacità di essere assunti da una luce di fede nella grazia della vocazione deve attuarsi attraverso la fedeltà di ogni giorno.

Così pure – secondo atteggiamento – dobbiamo portare avanti la fedeltà alla nostra vocazione sacerdotale accrescendo in noi la capacità di interpretare la nostra vocazione sacerdotale come vocazione che implica il maturare dell’amore di Dio nelle sue varie manifestazioni: la fede in un Dio che è amore, la fede in Gesù che è il rivelatore dell’amore, e l’amicizia con Cristo che, proprio in quanto rivelatore dell’amore, è il sacramento attraverso il quale la comunione personale con Dio diventa progressivamente esperienza di vita. Da questo punto di vista mi pare sia tanto necessario confrontare sempre la nostra fedeltà alla vocazione con il dinamismo e con la vitalità della nostra esperienza di amicizia con Cristo.

Terzo atteggiamento, nell’impegno di fedeltà alla nostra vocazione è la verifica dell’incremento che ha, nella nostra vita il senso ecclesiale, il senso del ministero ecclesiale. Anche su questo punto non ci possiamo consolidare in una certa prassi e in un certo stile, ma dobbiamo progredire, perché non si è mai sufficientemente fedeli a questa scelta vocazionale. «Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Giovanni 15,16). Per fare questo non possiamo accontentarci di organizzare il nostro sacerdozio sotto la luce dell’efficienza e del metodo, ma dobbiamo cercare di viverlo nella luce della fecondità dell’amore, che scaturisce dalla vocazione e per il quale la vocazione ci è data. (…) Quando noi sacerdoti lasciamo che la nostra vocazione si assesti… finiamo col diventare degli astensionisti nei confronti del mistero vocazionale tale quale il Signore ce lo ha messo dentro, cioè come un fermento inesauribile. (…) Abbiamo bisogno di rimanere aperti di fronte al dono di Dio, perché se non lo facciamo è segno che la nostra fedeltà è stanca e va verso il decadimento. Lo stesso dicasi dell’esultanza spirituale. Di sacerdoti angosciati ce n’è tanti per il mondo, e – intendiamoci bene – le ragioni dell’angoscia non mancano. (…) Sarebbe superficiale non capire l’angoscia del sacerdote specialmente in certi momenti, di fronte a certi problemi, a certe situazioni e soprattutto a certe tensioni dello spirito e della vita. Ma si può esultare anche nella tribolazione, anche nell’angoscia. E noi dobbiamo rimanere creature che sentono l’esultanza dello spirito, proprio pensando alla vocazione e vivendola con la consapevolezza che l’esultanza del sacerdote caratterizza la dimensione profetica della sua vocazione e allo stesso tempo l’aiuta a diventare particolarmente segno” (Bari, maggio 1974).

A questa testimonianza profetica di un sacerdozio felice A. A. Ballestrero dedicherà interamente la seconda meditazione della giornata, in cui il fatto della vocazione viene ulteriormente descritto come fatto ecclesiale che richiede di rompere la congiura del silenzio con cui si riduce a puro intimismo il fatto della chiamata e della risposta vocazionale. Da questo punto di vista invita ad una riflessione sul bisogno che oggi il mondo ha della testimonianza di una vocazione felice, che diventa stimolo e sorgente di altre vocazioni. Sono riflessioni, queste sulla testimonianza di una vocazione felice quale soluzione per superare la crisi delle vocazioni, che Ballestrero ha sempre additato come soluzione vera al problema dei seminari che si svuotano, degli Istituti religiosi che scompaiono.

Diceva: “La diocesi ha bisogno di vocazioni. Dobbiamo pregare perché il Signore ce le mandi, ma dobbiamo anche essere convinti, che la radice di coloro che verranno siamo noi sacerdoti di oggi. Dobbiamo sentirlo come uno stimolo, come un pungolo: il mio sacerdozio è radice di un altro sacerdozio?

Oppure è una realtà così stanca, così sistemata che ha appena appena quel tanto di ossigeno necessario ad andare avanti? C’è l’esuberanza del nostro sacerdozio? C’è il turgore – diciamo così –, di una linfa che da dentro di noi ha bisogno di propagarsi, di essere feconda di nuovi sacerdoti?” (ibidem).

Chi ha conosciuto A. A. Ballestrero, o anche solo chi ne ha letto la biografia, non può non riconoscere il fatto che incontrandolo si avvertiva la gioia incontenibile del suo esserci, del suo relazionarsi, del suo incontrarti; la gioia della vocazione avuta in dono, della vita religiosa e del ministero esercitato; la gioia del cammino fatto e da fare, la gioia della totale consacrazione a Dio e della piena dedizione ai fratelli. Era e rimane questo il suo contributo personale alla soluzione del problema della crisi vocazionale.

 

 

Conclusione

Concludo nella consapevolezza di aver detto poco o nulla e male della testimonianza di vita e del magistero di padre Anastasio, il religioso, il vescovo e il cardinale che, oltre ad essere stato un autentico padre della Chiesa o, come lo definisce il cardinale C. M. Martini, “una figura di prim’ordine nell’ultimo scorcio del XX secolo”, è stato e rimane figura esemplare sotto diversi profili: una creatura che ha creduto che “Dio è amore” ed ha risposto con pienezza d’amore e di coerenza a questo Dio che lo chiamava con una vocazione personale irripetibile ad essere nel tempo e nella storia “come un’umanità aggiunta dove il Cristo avrebbe completato il suo mistero di redentore dell’uomo”.

Sono parole della B. Elisabetta della Trinità, un’altra famosa carmelitana, parole che Ballestrero ha vissuto in un martirio del cuore, dello spirito e del corpo con un abbandono in Dio adorato, conosciuto, amato come Padre. Di lui la biografia che ha offerto lo spunto per questa conferenza, ha solo tentato di esprimere qualche bagliore. Secondo le parole di Giovanni della Croce, dopo un cammino di purificazione sia attiva che passiva l’anima per dono di Dio può essere così configurata e trasformata nel Figlio, da partecipare fin da questa vita in modo oscuro, ma reale e sperimentale alla aspirazione dello Spirito Santo in seno alla Trinità. È questa la meta, è questo il cuore del carisma carmelitano, che nella Vergine Maria, invocata non solo come Madre ma anche come Sorella, ha la sua icona e figura pienamente realizzata. Le preghiere preferite di P. Anastasio erano il Pater noster e il Magnificat: la dichiarazione cioè del suo essere figlio e lo stupore della sua riconoscenza per esserlo in modo così divino.

Chiedendo perdono a lui e a voi per la mia insufficienza, vi offro ora come dessert una delle sue preghiere. Gli venivano spontanee dal cuore più che dalle labbra durante le sue riflessioni e meditazioni; sono il segno evidente e commovente del suo stare davanti a Dio, in colloquio personale con Lui, immerso in Lui proprio mentre parlava agli uomini.

Così, come ciottolo nell’acqua di un fiume, mai a galla, mai in superficie come spesso accade a noi nelle nostre preghiere svogliate e distratte, ma adagiato sul fondo, nel seno di Dio, come un bambino nelle acque tranquille del grembo della madre.

 

 

SEGUIMI!

Fammi fedele, Gesù, al tuo “Vieni e seguimi!”.

Dicendomi “Vieni”, non hai detto:

andremo qui, andremo a far questo, a far quello.

Hai detto in modo assoluto “Vieni e seguimi!”;

perciò il nostro andare è seguirti.

Seguirti con fedeltà, ma anche con umiltà.

Non ti dirò come Pietro: “Signore dove vai? Darò la mia vita per te”.

Tu mi risponderesti: “Ci sarà chi ti cingerà i fianchi e ti condurrà dove non vorresti”.

Signore, mi sia dato di seguirti e non di precederti.

Mi sia dato di seguirti senza domandare dove mi porti.

Ho tanta fiducia in te e mi basta; dove tu mi porterai verrò.

Se ti seguirò, potrò diventare testimone di tutti i tuoi miracoli;

se invece vorrò precederti, non conoscerò che follia e peccato.

Dove ti piacerà camminare, là io camminerò.

Gesù, per dove ti piacerà passare, là io passerò.

Mi basti Tu, perché non solo cammini per la mia strada

ma sei addirittura “ la mia strada”.

Se sarai per me via serena e pianeggiante, sii benedetto!

Se sarai sentiero affocato e polveroso, sii ugualmente benedetto!

Mi basta sapere, per la mia pace,

che non sono chiamato a camminare per tante strade,

ma per una sola: Te.

Tu sei la strada che mi conduce alla meta: in Patria, alla Casa del Padre.

Sarò pellegrino fino a quel momento.

Allora finalmente nessuno mi comanderà di andare,

né tu mi dirai più: “Vieni!”,

ma la tua voce, fatta di amore, mi inviterà: “Rimani!”.

 

 

 

Bibliografia

Indicazioni bibliografiche degli scritti pubblicati, quasi sempre non rivisti dall’autore, trascritti da registrazione, sul tema proposto:

Mio bene sei Tu, Signore, Ed. La Scala., Noci 1993.

Guardate a Cristo e sarete raggianti, Ed. Ancora, Milano 1985.

Battesimo e consacrazione religiosa, Ed. USMI, Torino 1981.

Luce sul mio cammino, Ed. Ancora, Milano 1978.

Offerta a Te gradita, Ed. O.C.D., Roma 1992.

La consacrazione, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1998.

Mistero d’amore, Ed. Elle Di Ci, Torino 1994.

Credo nello Spirito Santo, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1998.

Vita consacrata, dono di redenzione, Ed. Elle Di Ci, Torino 1085.

Consacrati a Dio nella Chiesa, Ed. Elle Di Ci, Torino 1995.

Come ciottolo di fiume, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1986.

Deo gratias, Ed. Esperienze, Fossano.

Bollettino Diocesano di Bari per gli anni 1974 – 1977.

Bollettino Diocesano di Torino per gli anni 1977 – 1999.