N.03
Maggio/Giugno 2005

“La mia vocazione è l’amore”. La vocazione di Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo

Giunta al termine della sua breve esistenza s. Teresa ha potuto dichiarare di non aver mai negato nulla al Signore, già fin dall’età di tre anni. Se ciò è vero dobbiamo concludere che tutta la sua vita non è stata altro che realizzazione fedele e, dunque, trasparente manifestazione della sua vocazione. Questa, in effetti, quando è presa sul serio si identifica con la propria storia. È chiaro che, man mano che ci si avvicina al compimento, il mistero della vita si chiarifica progressivamente, e la persona arriva ad avere una visione sempre più piena e, diremmo, riassuntiva della sua vocazione, cioè di quel disegno di amore che, da sempre, Dio ha su di lei e che ha inizio con la chiamata all’esistenza. In questo senso potremmo dire che la gioiosa scoperta che Teresina esprime con la esclamazione: “la mia vocazione è l’amore!” non dice altro che la particolare illuminazione con la quale lo Spirito le ha fatto chiaramente vedere come l’amore sia realmente il culmine e l’anima che a tutto dà senso, che tutto riassume e che a tutto dà compimento. Quell’amore, comunque, che già da quando aveva tre anni, cioè da sempre, la sta plasmando e costruendo, in un crescendo sempre più invasivo e trasformante. La piena scoperta e consapevolezza della sua vocazione corrisponde al momento nel quale il Signore la sta introducendo nella fase conclusiva della sua perfetta attuazione.

È il momento nel quale ella scopre e vede con chiarezza che l’amore è davvero tutto, che senza amore tutto è niente, mentre con l’amore anche il nulla che è lei diventa tutto. Di più, ella intuisce che è proprio e degno dell’amore infinito chinarsi sul nulla e rivestirlo della sua ricchezza e che, pertanto, la sua piccolezza non solo non è un impedimento, ma una straordinaria opportunità. La gratuità assoluta dell’amore di Dio che con altrettanta assoluta libertà sceglie e forma la varietà infinita dei fiori che ne rivelano la bellezza, costituisce, dice Teresa, “il mistero della mia vocazione, di tutta intera la mia vita e soprattutto il mistero dei privilegi di Gesù per la mia anima… Egli non chiama quelli che ne sono degni, ma quelli che vuole” (MA 2r).

Avere l’evidenza di tutto ciò, viverlo e assimilarlo al punto da diventarne quasi una personificazione, costituisce la straordinaria grazia personale di s. Teresina, cui segue la missione di esserne nella Chiesa e nel mondo la vivente  proclamazione.

Non possiamo, però, non tenere presente che “Amerai con tutto!” costituisce una legge evangelica non solo fondamentale ma del tutto universale, e che, dunque, la vocazione all’amore è la vocazione di tutti. In effetti essere chiamati alla santità non significa altro che essere chiamati alla perfezione della carità, come sottolinea ancora sia la Parola di Dio che tutta la tradizione cristiana.

Da questo punto di vista la vocazione di s. Teresa è anche la nostra vocazione.

Il modo così vivo, profondo, onnicomprensivo con cui essa ha avuto la grazia di scoprire questo nucleo del Vangelo, di esperimentarlo e di comunicarlo si traduce nel dono più grande che il Signore ha fatto alla Chiesa dei nostri tempi. In un periodo in cui l’uomo si lascia sempre più portare dall’individualismo e dall’efficientismo, la riscoperta del primato assoluto e della causalità universale dell’amore costituisce un’autentica rivoluzione copernicana. La genialità dell’intuizione teresiana risulta ancora più chiara se pensiamo al clima giansenista che influenzava la pietà cristiana del tempo e che sentiva Dio più come giudice che come padre, così da presentare il cammino spirituale più come un eroico immolarsi per soddisfarne la tremenda giustizia che come fiducioso aprirsi alla sua infinita misericordia.

Nell’amore Teresa trova la ragione, il senso e il contenuto della sua vita; nel raccontarcela ella non fa altro che rivelarci come questo amore diventi storia, la sua storia, come la modelli e la costruisca, le dia contenuto e la conduca a pienezza. Una storia che, fin dall’inizio, non è altro che un dialogo di amore, un amore che cresce sempre più, fino ad aprirsi e come confondersi con gli orizzonti dell’amore infinito di Dio. Così la parola amore diventa la chiave di interpretazione della sua vita, il suo inizio, il suo contenuto e la sua sintesi conclusiva. Fatta per amore, circondata di amore, ripiena di amore essa è ugualmente fatta per amare, e in un modo così totale ed assoluto da trasformarsi in esso: “Io sarò l’amore”. Basterebbe leggere la splendida poesia “Vivere d’amore…” (febbraio 1895) che precede di poco l’Offerta all’Amore misericordioso (9 giugno dello stesso anno).

Il fatto che Teresa, scoprendo e vivendo fino in fondo e in modo personalissimo la sua vocazione all’amore, non fa altro che rivelare e riproporre la vocazione di tutti, non toglie nulla all’originalità del suo messaggio, anzi ne mette meglio in luce il realismo e la universalità. Ciò che rende questa creatura guida e compagna di viaggio per la Chiesa del terzo millennio è proprio la sua straordinaria capacità di inabissarsi nel mare dell’amore fin quasi a trasformarsi in esso, approfittando della sua nullità per chiedere e ottenere tutto e, insieme, utilizzando con semplicità e inventiva tutte le occasioni (piccole o grandi che siano) per renderle corpo e spazio dell’amore. Possiamo dire senza ombra di dubbio che la vita della nostra Santa è tutta una storia di amore.

 

 

Una storia di amore

Dicevamo che la vocazione si identifica con la vita. Quando Teresa esclama: “la mia vocazione è l’amore”, non compie un taglio con la vita passata, semplicemente la illumina e la rende comprensibile fin dalle sue prime battute, perché tutta circondata e come imbevuta di amore. Al termine della vita ella stessa scriverà: “Tu lo sai, o mio Dio, non ho mai desiderato che amarti, non ambisco altra gloria. Il tuo amore mi ha prevenuta fin dall’infanzia, è cresciuto con me, e ora è un abisso del quale non riesco a sondare la profondità… O mio Gesù, forse è un’illusione, ma mi sembra che non possa colmare un’anima con più amore di quello con cui hai colmato la mia” (MC 34v, 35r). Le letterine della sua prima infanzia rivelano già una bambina che non conosce e non esprime altro che affetto, tenerezza, amore. Questa ricchezza affettiva, come dimostrano gli scritti ulteriori, non farà che crescere con gli anni.

Quando comincia la narrazione della sua vita (gennaio 1895) Teresa si trova in un periodo della sua esistenza in cui può gettare uno sguardo lucido al passato. Ebbene la prima cosa che vi scorge è l’amore di predilezione di Dio che chiama a Sé quelli che vuole (MA 2r) e la sovrabbondanza della sua misericordia che, sola, opera tutto ciò che c’è di bene in lei (MA 3). “Per tutta la mia vita il buon Dio si è compiaciuto di circondarmi di amore”, non solo, ma “ne aveva posto anche nel mio piccolo cuore creandolo amante e sensibile” (MA 4v).

Presto capisce che l’amore di cui è circondata nell’ambito famigliare ne rivela e rimanda ad un altro ben più grande ed assorbente: quello di Gesù. “Nostro Signore, volendo per sé solo il mio primo sguardo si degnò di chiedermi il cuore fin dalla culla, se così posso esprimermi (A P. Roulland 1/11/1896). Dall’età di due anni si sente attratta verso lo Sposo delle vergini e “da allora, confessa, non ho mai cambiato decisione” (MA 6r). Col tempo tale attrazione cresce e “la chiamata divina diventa così pressante, dichiara, che se avessi dovuto attraversare le fiamme l’avrei fatto per essere fedele a Gesù” (MA 49r). La cosiddetta “conversione” del Natale 1886 non è stata altro che una più profonda scoperta e partecipazione del mistero dell’amore. “Sentii la carità entrarmi nel cuore, il bisogno di dimenticarmi per far piacere e da allora fui felice!” (MA 45v). Il passaggio dalla condizione egocentrica del bambino a quella di apertura e di oblatività dell’adulto viene operato nella santa dalla sete per la salvezza delle anime che Gesù comincia a comunicarle. “Volevo dar da bere al mio Amato, e io stessa mi sentivo divorata dalla sete per la salvezza delle anime” (MA 45v).

La conversione del Pranzini fu la riprova che tutto ciò veniva da Dio. Capì che il dono gratuito dell’amore ricevuto esige a sua volta il dono e che non si può amare davvero Gesù se non si partecipa la sua passione per la salvezza dei fratelli. Ma è pur sempre la consapevolezza e l’esperienza dell’ineffabile amore di Gesù per lei che suscita e fonda la sua risposta. Teresa lo esprime prendendo in prestito un celebre passo di  Ezechiele (16, 8-13) dove il profeta racconta, con simbolo sponsale, l’amore di predilezione con cui Dio stabilisce l’alleanza con il suo popolo. Il testo è splendido nella sua crudezza e la quattordicenne Teresa non ha alcuna esitazione ad applicarselo: “Passando vicino a me, Gesù ha visto che era venuto per me il tempo di essere amata, ha fatto alleanza con me e sono diventata sua” (MA 47r).

Un momento privilegiato del cammino vocazionale di Teresa lo abbiamo nel suo primo incontro con Gesù Eucaristia, da lei vissuto come una anticipazione dello sposalizio che si sarebbe celebrato al Carmelo, in intima unione con Paolina che quello stesso giorno emetteva la sua professione religiosa. “Ah, come fu dolce il primo bacio di Gesù all’anima mia!… Fu un bacio di amore, mi sentivo amata, e perciò dicevo: «Ti amo, mi do a Te per sempre». Non ci furono domande, non lotte, non sacrifici: da molto tempo Gesù e la povera piccola Teresa si erano guardati e si erano capiti… Quel giorno non era più uno sguardo ma una fusione, non erano più due: Teresa era scomparsa” (MA 35r). Lo sguardo di elezione e di predilezione con il quale Gesù le fa sentire il suo amore sponsale, totalitario, geloso ed esclusivo l’accompagnerà e le farà da viatico per tutta la vita. “A sopportare l’esilio di questa terra di pianti m’occorre lo sguardo del divin Salvatore; sguardo che m’ha rivelato i suoi incanti, e fatto presentire la gioia celeste… Lo sguardo del mio Dio, il suo sorriso che mi rapisce, ecco mio il cielo!” (P 32 ; 7 giugno 1896); “A te io m’abbandono o mio Divino Sposo, e io nient’altro ambisco che il dolce sguardo tuo” (P 52; 31 maggio 1897).

Teresa sente fortemente l’attrattiva dell’amore, sia umano che divino, lo confesserà lei stessa: “Io ho bisogno di un cuore ardente di tenerezza, a mio eterno inalienabile sostegno: cui tutto sia caro di me, che ami anche la mia debolezza, e mai m’abbandoni, né giorno né notte” (P 23). “L’ardente mio cuore vuol sempre donarsi, ha bisogno di mostrare la sua tenerezza” (P 36). Essere amata e amare, dunque, nel modo più pieno, totale, definitivo, permanente, eterno. Ma quale creatura glielo avrebbe potuto offrire? Proprio per questo il gesto di Gesù che l’ha prevenuta e le ha offerto il suo amore più grande l’ha subito, e definitivamente, conquistata: “Fin da piccina mi uscì dal cuore la promessa di sposare Gesù, Re dei cieli” (P 18). Gesù “fin dall’alba della mia vita venne a fidanzarsi con la mia anima rapita” (P 18); “Gesù… ricordati della tua sorellina che ti fece battere il cuore!” (P 24). L’amore di Gesù la prende davvero tutta, la risposta ad esso diventa in lei un’autentica passione: “Volevo amare, amare Gesù con passione” (MA 47v), in seguito userà un’altra espressione, altrettanto efficace, quando confessa che non le resta altro desiderio “se non quello di amare Gesù alla follia” (MA 83r). È la vigilia della sua offerta come vittima all’Amore misericordioso (9 giugno 1895). E poco dopo: “Donami presto, bocca adorabile, l’eterno tuo bacio!” (P 23; 12 agosto 1895). “Dammi mille cuori per amarti!… Dammi, per amarti, il tuo stesso Cuore divino” (P 24; 21 ottobre 1895). “Gesù, fa’ ch’io muoia di amore per te!” (P 31, 31 maggio 1896).

La consapevolezza che Dio la vuole e la custodisce per Sé, non fa che accrescere il suo desiderio di rispondere (MA 10rv). Ed è allora che il Signore le comincia a rivelare il tesoro della sofferenza come via e come espressione più piena dell’amore.

“Dovevo passare per il crogiuolo della prova e soffrire fin dalla mia infanzia per poter essere più presto offerta a Gesù” (MA 12r). Alla sofferenza per la morte della mamma si aggiunge presto quella prodotta dalla partenza per il Carmelo della sua seconda madre, Paolina. Teresa vive la vicenda come un nuovo abbandono se non proprio come un tradimento, e ne è letteralmente angosciata e la vita perde qualunque attrattiva visto che non è altro che sofferenza e separazione continua. “Versai lacrime molto amare, prosegue, perché non capivo ancora la gioia del sacrificio” (MA 25v). La misteriosa malattia che seguirà costituirà un passo ulteriore che la Provvidenza le fece fare per prepararla ad entrare pienamente nel mistero dell’amore crocifisso. Il suo desiderio generoso di appartenere unicamente al Signore e di farsi santa non era ancora accompagnato dalla piena consapevolezza del prezzo da pagare: “Allora non pensavo che bisognava soffrire molto per arrivare alla santità” (MA 32r), benché vedesse già lucidamente che non doveva fare affidamento su di sé, bensì “su Colui che è la Virtù, la Santità stessa: è Lui solo che accontentandosi dei miei deboli sforzi mi eleverà fino a Lui e, coprendomi dei suoi meriti infiniti, mi farà Santa” (Ivi).

La scoperta del valore della sofferenza è una grazia legata alla comunione eucaristica. “Ricordo che una volta (Maria) mi parlò della sofferenza; mi disse che io probabilmente non avrei camminato per quella via, ma che il Buon Dio mi avrebbe portata come una bambina. Il giorno dopo la comunione, mi tornarono in mente le parole di Maria; mi sentii in cuore un grande desiderio della sofferenza e nello stesso tempo ebbi l’intima certezza che Gesù mi riservava un gran numero di croci… La sofferenza cominciò ad attirarmi, aveva un fascino che m’incantava pur non conoscendola bene. Fino ad allora avevo sofferto senza amare la sofferenza: da quel giorno sentii per essa un vero amore” (MA 36r).

Il Signore completò l’opera quando, poco dopo la prima comunione, Teresina ricevette il sacramento della Confermazione: “In quel giorno, scrive, ricevetti la forza di soffrire, poiché poco dopo doveva cominciare il martirio della mia anima” (MA 36,37).

Va sottolineato che questa scoperta si trova unita e come all’interno del suo amore per Dio. Scrive, infatti: “Sentivo anche il desiderio di amare soltanto Dio, di trovare gioia solo in Lui” (MA 36v). Poco prima (MA 34r), alludendo al fatto che anche Paolina si stava preparando, come lei, ad un incontro del tutto particolare con il Signore, aveva scritto: “Sapevo che la mia Paolina era in ritiro come me, non perché Gesù si dava a lei, ma per darsi essa stessa a Gesù (MA 33v). La differenza tra la Comunione e la Professione espressa da Teresa secondo l’insegnamento ricevuto dalle sue stesse sorelle, è accentuata dal fatto che la professione religiosa viene concepita come scelta sponsale che comporta la maturità della persona e la condivisione piena della vita e del destino dello Sposo, mentre nella prima comunione eucaristica si sottolinea il dono di amore che il Signore fa di Sé e la gioia della comunione con Lui, proporzionata alla condizione di un bambino che, naturalmente, è più preparato ad accogliere il dono che a farlo. Nella esperienza di Teresa abbiamo la rettificazione di tutto questo. Innanzi tutto perché (Teresa non smetterà mai di sottolinearlo!) anche nella professione chi sceglie, invita e offre la piena intimità di vita è sempre il Signore Gesù; in secondo luogo perché anche nella prima comunione, il dono che Egli fa di Sé chiede di sua natura la risposta. La grazia speciale di Teresina è stata quella di dare una risposta piena, pur essendo bambina. Questo fatto è illuminante perché mostra che non è necessario crescere per amare Gesù davvero e per appartenere a Lui solo! Ma proprio perché l’amore di Teresa per Gesù è davvero totale e definitivo, ecco che deve necessariamente inglobare la sofferenza. “Spesso durante le mie comunioni, ripetevo queste parole dell’Imitazione: “O Gesù! Dolcezza ineffabile, cambia per me in amarezza tutte le consolazioni della terra!…” (MA 36v). La Santa ci tiene a chiarire che “questa preghiera, mi sembrava di ripeterla non per mia volontà, ma come una bambina che ripete le parole che una persona amica le ispira” (Ivi). È Gesù stesso, che superando e completando l’insegnamento della sorella Maria le fa capire tutto ciò, mostrandole la simbiosi strettissima che esiste tra sofferenza e amore.

Nella famigliarità con il mistero eucaristico ella trova la luce per penetrare e crescere sempre più nell’intimità con il Signore il quale “la istruiva in segreto nelle cose del suo amore” (MA 49r). Siamo nell’anno dell’Eucaristia e possiamo imparare da lei come viverlo: “Avevo preso come regola di comportamento di fare, senza mancarne una sola, le comunioni che il confessore mi avrebbe permesso, ma di lasciare che ne stabilisse lui il numero senza mai domandarglielo.

A quel tempo non avevo assolutamente l’audacia che possiedo ora, altrimenti avrei agito in un modo diverso, perché sono sicurissima che un’anima deve dire al suo confessore l’attrazione che sente a ricevere il suo Dio. Non è per restare nel ciborio d’oro che Egli ogni giorno discende dal Cielo, ma per trovare un altro Cielo che gli è infinitamente più caro del primo: il Cielo della nostra anima, fatta a sua immagine, il tempio vivente della adorabile Trinità” (MA 48v).

Il progressivo maturare della sua vocazione va di pari passo con la consapevolezza e l’esigenza del distacco. Ora, però, non si tratta più di rinunciare alle effimere gioie e frivolezze mondane (cfr. MA 32v), ma alla felicità vera, quale nella terra è possibile (MA 49v). Ma ciò che va sottolineato è che questi “distacchi” o “rinunce” fanno parte di un cammino di amore e vengono vissuti non come un doloroso tributo da pagare, ma come opportunità per approfondirlo e viverlo in pienezza. Ad essere precisi, dunque, maturare nella vocazione, per lei, è soprattutto crescere nell’amore. “Esternamente la mia vita sembrava la stessa… Soprattutto crescevo nell’amore del buon Dio, sentivo nel mio cuore degli slanci ancora sconosciuti, talvolta avevo dei veri e propri impeti di amore” (MA 52r). Con il viaggio in Italia comprende meglio la sua vocazione e missione ad essere apostola degli apostoli attraverso la preghiera e il sacrificio (MA 56r), e, insieme, l’indissolubilità tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

“Sono venuta per salvare le anime e soprattutto a pregare per i sacerdoti… Gesù mi fece capire che era per mezzo della croce che Egli voleva darmi delle anime e la mia attrazione per la sofferenza crebbe a mano a mano che aumentava la sofferenza” (MA 69v).

Con la malattia del padre, già durante il suo postulato, ella viene condotta dallo Spirito ad incontrare il volto insanguinato di Gesù (LT 95) e a scoprirne la bellezza. Quella sofferenza, che più grande non sarebbe stata possibile (cfr. MA 73r), viene da lei percepita come “la nostra più grande ricchezza” e uno stimolo ad annientarsi e dimenticarsi per consolare Gesù (MA 71r). Più tardi affermerà decisamente: “Solo la sofferenza può generare delle anime” (MA 81r). “Ah, le lacrime di Gesù che sorrisi sono!” (LT 108).

Ma è evidente che si tratta di una sofferenza che traduce amore.

 

 

“Io sarò l’amore”

Teresa capisce sempre meglio che “senza l’amore tutte le opere sono un nulla” e “che la felicità consiste solo nel nascondersi, nel restare nell’ignoranza delle cose create” (MA 81v). Con la morte del Padre (29 luglio 1894) e l’ingresso in monastero della sorella Celina (14 settembre) ella raggiunge una specie di vetta nel suo cammino spirituale: “Ora non ho più nessun desiderio, se non quello di amare Gesù alla follia… Non desidero nemmeno la sofferenza né la morte, eppure le amo tutte e due, ma è l’amore solo che mi attira… Non riesco a chiedere più nulla con ardore, tranne il compimento perfetto della volontà del Buon Dio sulla mia anima, senza che le creature possano porvi ostacolo… O Madre diletta! Come è dolce la via dell’amore…” (MA 83rv).

Sembrerebbe, dunque, che Teresa sia arrivata al vertice, ma il cammino dell’amore è certamente senza confini, e Gesù, “il dottore dei dottori” che la istruisce nel profondo dell’anima, ha ancora tante cose da insegnarle. Egli la fa penetrare in modo singolare nel mistero della Misericordia infinita di Dio, facendole contemplare e adorare tutte le altre divine perfezioni attraverso di essa; tutte le “appaiono raggianti di amore, perfino la Giustizia (e forse anche più di ogni altra) mi sembra rivestita di amore” (MA 83v). Il giorno 9 giugno 1895, festa della SS.ma Trinità, Teresa riceve “la grazia di capire più che mai quanto Gesù desideri essere amato” e si sente spinta ad offrirsi Vittima al suo Amore misericordioso, per lasciarlo totalmente libero di far traboccare nella sua anima “i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi” nel suo cuore divino. Gesù accetta senz’altro questo gesto della sua Sposa e “da quel giorno felice, confessa Teresa stessa, mi sembra che l’amore mi penetri e mi circondi, mi sembra che ad ogni istante questo amore Misericordioso mi rinnovi, purifichi la mia anima e non vi lasci nessuna traccia di peccato… Oh, come è dolce la via dell’Amore!

Come voglio impegnarmi a far sempre, con il più grande abbandono, la volontà del Buon Dio!” (84rv).

A questo punto sembra che Teresa abbia davvero definitivamente e completamente capita la sua vocazione e la sua missione. Ora non le rimane altro che camminare e proiettarsi sempre più “verso l’eterno abbraccio del vostro amore misericordioso”. Eppure sente che il suo cuore non è soddisfatto e che dunque lei non può ancora dire di aver trovato del tutto il suo senso definitivo.

Ella, in altri termini, deve ancora finire di scoprire la sua vocazione e la sua missione. Nella perfetta coerenza della prima intuizione quando capì che il Signore la voleva tutta ed esclusivamente per Sé, Teresa si è inoltrata profondamente nella via dell’amore, e in questo cammino il Signore le fa scoprire sempre nuovi orizzonti e dimensioni in cui si viene progressivamente concretizzando il suo carisma personalissimo e la sua singolare missione nella Chiesa.

Tale insoddisfazione può sorprendere perché Teresa la esprime proprio nel momento in cui enumera con estrema chiarezza gli elementi costitutivi della sua vocazione religiosa, contemplativa e missionaria insieme; dove si coglie chiaramente che l’essere madre, come conseguenza del suo essere vergine e sposa, costituisce già per lei un dato acquisito ed una esperienza vissuta. “Essere tua sposa, Gesù, essere carmelitana, essere, grazie all’unione con te, madre di anime… questi tre privilegi sono la mia vocazione: Carmelitana, sposa, madre” (MB 2v).

Eppure, ella dice, tutto ciò non le basta. Il suo amore a Gesù vorrebbe manifestarsi e concretizzarsi in tutte le espressioni ed attuazioni possibili che però essendo contrastanti (nel corpo di Cristo l’occhio non potrebbe essere al tempo stesso la mano!), sono chiaramente irrealizzabili; ma proprio per questo, continua Teresa, “i miei desideri mi facevano soffrire un vero e proprio martirio” (MB 3r). Ella intravede la soluzione quando scopre non solo il primato, ma l’assoluto dell’amore; quando, cioè, il Signore le fa capire che l’amore è davvero tutto e che il resto, senza di esso, è veramente niente! “Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra, il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo cuore era acceso di Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue… Capii che l’Amore racchiudeva tutte le vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi!… Insomma, che è Eterno!” (MB 3v).

Nella Chiesa sono certo necessari gli apostoli, i profeti, i dottori, i missionari e una gran varietà di altre categorie che offrono i più diversi servizi per la costruzione del corpo mistico di Cristo; ma tutti sono mossi da un unico dinamismo fondamentale: l’amore. Senza di esso non ci sarebbe più vita. La vita della Chiesa, dunque, è l’amore. “Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa” (MB 3v). Non per nulla l’evangelista Giovanni insegna che chi non ama sta nella morte, e l’apostolo Paolo che “tutti i doni più perfetti sono niente senza l’amore” (1Cor 3,13). Ma questo mostra come la conoscenza di questa verità non costituisce affatto una novità; anzi essa è tradizionale nella spiritualità cristiana e Teresa stessa non poteva non conoscerla. Eppure ella dice di trovarvi la risposta e la soluzione per tutte quelle aspirazioni contrastanti che prima la angustiavano e che sembravano insolubili.

Si deve trattare dunque di una scoperta straordinaria, e la sua reazione lo conferma abbondantemente: “Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore!… Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa mia madre, sarò l’Amore!… Così sarò tutto… così il mio sogno sarà realizzato!!!” (MB 3v). Teresa è talmente convinta che quanto ha scoperto come sua vocazione è un qualcosa di enorme ed incredibile che comincia a preoccuparsi dell’audacia dei suoi desideri, e arriva perfino a sospettare che si tratti di una forma di follia; tanto che sente il bisogno di ricorrere alla protezione di tutti i Santi e di prendere più esplicita consapevolezza di essere figlia della Chiesa che, in quanto sposa del Re dei Re, dispone di tutte le sue ricchezze e la può mettere a riparo dalle conseguenze delle sue eventuali assurdità (MB 4r).

In effetti Teresa non ha scoperto che, tra le virtù cristiane, la carità è quella più importante e che senza di essa non si compie nessun autentico servizio alla Chiesa. Questo lo sapeva da sempre! Il problema di Teresa non è come compiere bene una missione, il problema di Teresa è come compierle tutte. Per questo ella ha bisogno di scoprire che l’Amore, da solo, basta a tutto. Ma qui, evidentemente, non si può trattare di un Amore “comune”, un amore che tutti posseggono come dono di grazia, che fonda, sostiene e nobilita tutte e singole le vocazioni cristiane; si richiede un Amore che le riassuma tutte, che tutte le sovrasti e che tutte le realizzi. Ebbene, è questo l’amore che ha scoperto Teresa, l’Amore che abbraccia “tutti i tempi e tutti i luoghi”, l’Amore eterno ed Assoluto.

Solo questo Amore è Tutto. Ma proprio perché si tratta di un Amore che è tutto, per poter “essere tutto” (come lei vuole), non basta possederne una partecipazione, è necessario diventarlo. Per poter essere tutto come l’amore, è necessario diventare tutto amore. Ecco quello che Teresa ha capito, ed è per questo che dice: “Io sarò l’Amore”. Per essere davvero tutto non basta avere l’amore, bisogna esserlo, incarnarlo, divenirne la personificazione, al punto che la vita intera si traduca e divenga un continuo atto di amore. In effetti, è per questo motivo che Teresa ha emesso “l’Atto di offerta all’Amore misericordioso”: “Allo scopo di vivere in un atto di perfetto Amore, mi offro come vittima di olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde d’infinita tenerezza che sono racchiuse in Te, così che io diventi martire del tuo amore, o mio Dio” (Pr 6, 9 giugno 1895). Ci sembra che S. Teresa di Gesù e S. Giovanni della Croce quando spiegano l’unione trasformante facendo ricorso all’immagine della goccia che cade nell’oceano o del legno che viene tutto trasformato in bragia, affermino la stessa verità. Come la Sposa nel matrimonio spirituale di cui parlano i Dottori mistici, Teresa del Bambino Gesù si trasforma e diventa un tutt’uno con il suo amato. Questo spiega, in parte, la stupefacente naturalezza con cui Teresa fa sue le parole di Gesù e si rivolge al Padre facendo proprie le sue richieste e gli stessi suoi sentimenti: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, e il mondo sappia che tu li hai amati come m’hai amata” (MC 34rv). Lo stesso giorno della sua consacrazione all’Amore, il Signore ha voluto far sperimentare a Teresa che tutto ciò Lui lo compiva davvero in lei: “Stavo cominciando la Via Crucis ed ecco che improvvisamente sono stata presa da un così violento amore per il Buon Dio, che non posso spiegare ciò se non dicendo che era come se mi avessero immersa completamente nel fuoco. Oh, che fuoco e che dolcezza insieme! Bruciavo di amore e sentivo che non avrei potuto sopportare questo ardore, un minuto, un secondo di più, senza morire… Dall’età di quattordici anni avevo ben provato degli impeti di amore; ah come amavo il Buon Dio! Ma non era assolutamente come dopo la mia offerta all’Amore, non era una vera fiamma che mi bruciava” (QG 71,2).

La risposta alle immense brame della Santa sta, dunque, nella piena trasformazione in Gesù, Amore di Dio incarnato. “Per amarti come mi ami tu, devo far mio il tuo stesso amore, solo allora trovo riposo” (MC 35r). Ma come è possibile tutto ciò?

 

 

La via dell’infanzia

Dio va incontro all’uomo “nel Figlio” e, in Lui, gli offre tutto il suo amore. È Cristo l’amore di Dio per noi, perché Lui è il Figlio che costituisce il “tutto” del Padre. Il Verbo, “bambino eterno del Padre” (Von Balthasar), facendosi “bambino” tra gli uomini rivela e rende presente la sua misteriosa origine e il suo costitutivo personale, cioè la sua eterna filialità. Nel mistero della vita divina il Verbo esiste in forza di quell’unico atto con il quale il Padre, da sempre, lo sta generando. La traduzione umana, per quanto imperfetta, della espressione: “generazione eterna”, è “generazione continua” che sempre si sta attuando ed è sempre perfettamente attuata. Tale espressione ci mostra il mistero di un Dio-Bambino per il quale l’essere tale non è una condizione che gli sopravviene in forza del suo divenire Uomo nella storia, ma al contrario, il suo “farsi Bambino” nella storia è rivelazione del suo eterno essere nel grembo del Padre. L’essere nel grembo del Padre (cioè la sua condizione di Bambino) non è un particolare marginale della seconda Persona della Trinità Santa, ma la sua definizione stessa, la sua natura profonda e qualificante che, a sua volta, rivela il dinamismo misterioso della stessa intima vita trinitaria. Nella eterna generazione del Verbo, infatti, abbiamo la sempre nuova fecondità per la quale il Padre è tale comunicando se stesso in un Atto di eterno Amore, e la continua e sempre attuale nascita del Figlio il quale ricevendosi dal Padre con apertura incondizionata ed infinita si ritrova continuamente rivolto a Lui con lo stesso infinito Amore con il quale il Padre lo sta amando. Ora, ricevere la filiazione adottiva significa, per noi, partecipare in qualche modo, questo mistero. Noi veniamo coinvolti nel processo di quella generazione in cui l’essere-Bambino di Gesù non è un dato storico limitato e superato, ma rivelazione, offerta e partecipazione a noi della stessa vita trinitaria.

Opportunamente la Lettera Apostolica Divini Amoris Scientia sottolinea che, nella sua sostanza, l’infanzia spirituale nasce dall’esperienza “di essere figli adottivi del Padre in Gesù” (DAS 8). Questo richiamo all’essere figli ci ammonisce subito a non pensare all’infanzia spirituale come ad un insieme di atteggiamenti o comportamenti da bambini inconsapevoli e irresponsabili. Per il cristiano essere “bambino” vuol dire sapersi e sentirsi figlio, in Gesù, partecipandone la filiazione e comportandosi di conseguenza.

Ma per poter diventare figli e bambini è necessario prescindere da qualunque pretesa di auto affermazione, perché il figlio non si fa: viene fatto. Pensare ad una sia pur minima pretesa o iniziativa precedente significa contraddire il concetto stesso di generazione e di filiazione. Ed ecco l’altra rivoluzionaria scoperta di Teresina: per essere “assunti” da Gesù e diventare “figli” in Lui, e per seguire, dunque, la via dell’infanzia non bisogna avere qualità (né, tantomeno pretese) particolari, anzi non bisogna averne nessuna. Quanto meno si ha e si è, tanto più si è adatti. La fiducia che sostiene l’abbandono ha come unico, esclusivo fondamento la infinita misericordia di Dio, e come unica condizione la propria, definitiva impotenza e povertà. “Sono solo una bambina, impotente e debole: eppure la mia stessa debolezza mi dà l’audacia di offrirmi come vittima al tuo amore, o Gesù!” (MB 3v). Perché è proprio nella logica dell’Amore “che si abbassi fino al niente e che trasformi in fuoco questo niente” (MB 3v). Di una sola cosa ha bisogno Dio per trasformarci in Amore: che volontariamente e fiduciosamente gli mettiamo nelle mani il nostro niente. Crediamo che, in fondo, anche l’insegnamento di S. Giovanni della Croce con il suo triplice “nada” si riduca, proprio a questo: per accogliere il Tutto che è Dio, c’è bisogno solo del nostro niente! Ed ecco perché Teresa non solo non se ne duole, ma lo ama, il suo “piccolo niente” (LT 197; QG 8.8.1).

Proprio perché impotente Teresa può e ha diritto di fare totale affidamento solo sul Buon Dio, e solo perché è niente può legittimamente sperare e ottenere che l’Amore Onnipotente si degni di far tutto e di realizzare, dunque, tutti i suoi desideri. Ciò che le è impossibile se dovesse fare leva, anche solo in parte, su di sé, diventa invece possibile se lo si affida esclusivamente a Dio. Ancora una volta: l’essere piccoli non è un impedimento, ma un vantaggio! Questa convinzione profonda costituisce un elemento basilare della piccola via: “per amare Gesù, per essere vittima di amore, più si è deboli, senza desideri né virtù, più si è adatti alle operazioni di questo Amore che consuma e trasforma” (LT 197r).

Non c’è bisogno nemmeno di grandi desideri: “Ciò che gli piace è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia!” (Ivi).

L’unica cosa necessaria è “acconsentire a restare poveri e senza forza” (Ivi). Ma il difficile sta appunto qui, perché solo il povero di spirito è capace di nutrire tali sentimenti e “il vero povero in spirito dove trovarlo?”: “nella bassezza, nel nulla!”, risponde Teresa. Non ci rimane, dunque, che riconoscere e amare la nostra bassezza e nullità perché allora “Gesù verrà a cercarci… e ci trasformerà in fiamme di amore” (LT 197v). Di fronte a tale scoperta Teresa non si trattiene dall’esclamare: “Ah, se tutte le anime deboli ed imperfette sentissero ciò che sente la più piccola tra tutte le anime, l’anima della sua piccola Teresa, non una sola di esse dispererebbe di giungere in cima alla montagna dell’amore! Infatti Gesù non chiede grandi azioni, ma solo abbandono e riconoscenza” (MB 1v). “O Gesù, perché non mi è possibile dire a tutte le piccole anime quanto la tua condiscendenza è ineffabile?… Sento che se per assurdo tu trovassi un’anima più debole, e più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla di favori ancora più grandi, qualora si abbandonasse con fiducia completa alla misericordia infinita” (MB 5v). “Non è perché il Buon Dio, nella sua misericordia preveniente, ha preservato la mia anima dal peccato mortale, che io mi innalzo a Lui con la fiducia e l’amore” (MC 36v; QG 12.8.2).

Fa, dunque, parte essenziale del messaggio di Teresa non solo il riconoscimento del proprio niente, perché “al di fuori del Buon Dio tutto è vanità” (QG, 22.8), ma anche il “valore assoluto” che esso ha; perché solo riconoscendo ed essendo niente possiamo farci spazio dell’Essere che è Dio. Potremmo dire, infatti, con una espressione paradossale, che ciò che può accogliere e dare spazio all’infinito è solo il nulla, proprio perché solo il nulla non gli pone confini e condizioni. In definitiva ciò che ci distingue dal nulla è proprio il fatto che noi abbiamo la capacità di condizionare Dio o di collaborare con Lui. Per questo nessuna creatura è così vicina all’infinito come Colei che ha liberamente aderito nel modo più perfetto alla propria totale povertà. Maria ha potuto letteralmente “contenere” Dio proprio per la sua povertà: “Ha guardato la povertà della sua serva!”. Ma si tratta di una povertà, di un nulla al positivo, capace, cioè, di dire “sì”, ossia di disponibilità che tanto più è tale quanto più è incondizionata e tanto più è incondizionata quanto meno è capace di accampare pretese o porre condizioni, cioè non pretende, non presume, non possiede nulla!

E questo sarà tanto più vero quanto più la distanza tra il non avere e il non essere sarà ridotta. Dunque il non avere niente, anzi il sentirsi nulla davanti a Dio, non solo non è un impedimento, ma la condizione prima per poter vivere in pienezza e percorrere fino in fondo la “via dell’infanzia spirituale” e, così, raggiungere la propria identificazione con il Figlio. Questo, del resto, fa parte della logica dell’Amore e quindi del modo proprio di agire di Dio che è Amore: “Sì, perché l’Amore sia pienamente soddisfatto, bisogna che si abbassi fino al niente e che trasformi in fuoco questo niente” (MB 3v).

Così, Teresa “consumata senza posa” dalle “onde di infinita tenerezza” che riempiono il cuore di Cristo, viene “trasformata in questo fuoco divino” e, anche lei, ormai identificata con Lui, “diventa l’Amore”. “Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l’Amore”. Nel biglietto che scriverà a Teresa per ringraziarla dello scritto (il Manoscritto B) Maria riassumerà ottimamente il pensiero della sorella affermando: “Lei è posseduta dal Buon Dio, ma posseduta, come si dice… assolutamente”.

Le restanti pagine del manoscritto B con cui Teresa descrive e, poi, commenta e spiega in qualche modo questa esaltante scoperta, sono tutte orientate a sottolineare la sua piccolezza, la sua povertà, la sua incapacità, il suo niente e, allo stesso tempo, a proclamare e illustrare la invincibile certezza che tutto ciò non costituisce affatto un impedimento. D’altra parte, la consapevolezza della propria nullità non impedisce affatto di riconoscere i doni e l’amore di Dio per noi, anzi! “Sono un’anima piccolissima che il Buon Dio ha ricolmato di grazia” (QG 9.8.4); “Il Buon Dio mi ha caricata di grazie per me e per tanti altri” (QG 4.8.3); “Io non vedo per niente la mia bellezza, io vedo soltanto la grazia che ho ricevuto dal Buon Dio” (QG 10.8.2); “Mi sento così miserabile… anzi la parola miserabile non è giusta, perché sono ricca di tutti i tesori divini; ma è proprio per questo che mi umilio di più. Quando penso a tutte le grazie che il Buon Dio mi ha fatto, mi trattengo per non versare continuamente lacrime di riconoscenza” (QG 12.8.3).

L’amore della “verità” ha condotto direttamente Teresa alla virtù della umiltà che, partendo dalla consapevolezza del suo nulla e della sua assoluta impotenza, le impedì di appoggiarsi minimamente a quello che ella avrebbe potuto fare da sola e le aprì la strada della confidenza totale e della più assoluta semplicità. La santità appartiene soltanto a Dio, ed essa non si conquista con le opere o con l’impegno ascetico; la sua condizione è solo l’umiltà che, nella misura in cui spoglia l’anima della sua volontà, le permette di fare spazio a Dio e di abbandonarsi con fede assoluta alla sua grazia.

Questo messaggio mostra chiaramente come la santità sia davvero per tutti, proprio perché l’unica cosa che veramente si esige è quello di non essere niente, e riconoscerlo. La dottrina di Teresa sulla “piccola via” è diametralmente opposta a quella dell’autosufficienza propria della cultura moderna razionalista; ed è l’unica che riesce a dare significato al senso di “vuoto”, di “vacuità”, di “debolezza” del pensiero che caratterizzano l’uomo post-moderno. Essa è, allo stesso tempo, la risposta cattolica più radicale e provocante alla dottrina protestante sulla giustificazione mediante la “sola fides”. Dio fa tutto. All’uomo rimane una cosa sola: “abbandonarsi”, per lasciarsi portare, o meglio, per lasciarsi invadere, permeare e trasformare dall’Amore infinito, in amore.

Così Teresa ha frantumato il mito che per essere santi si debba necessariamente essere eroi, giganti, eccezionali. La santità non è una dura montagna da scalare, ma un oceano di amore in cui immergersi e naufragare. Se si vuol mantenere il simbolo della montagna, allora bisogna dire che la santità è una montagna di amore, e Dio stesso è l’ascensore che ce la fa salire. Potremmo dire, dunque, che la “piccola via” che Teresa ha scoperto, seguito e proposto non è altro che il gesto con il quale l’Amore (creatore e redentore) offre le braccia alla sua creatura che gli si abbandona, e la introduce nella sua intimità.

All’uomo non resta che diventare sempre più bambino, cioè “stringersi” e “abbandonarsi” completamente alla madre che lo solleva.

Teresa, dunque, ha definitivamente scoperto e compreso la sua vocazione e la sua missione: Ella sarà l’amore e passerà la sua vita ad amare. “Il mio solo martirio è l’amor tuo, lo sai bene, o sacratissimo Cuore di Gesù. Che se la mia anima sospira il tuo cielo è per amarti, per amarti sempre più“ (P 33, 4). “L’amore, questo furore celeste mi consuma sempre; che m’importano la vita o la morte?

La sola mia gioia è d’amarti!” (P 45, 7). “Capisco così bene che non c’è che l’amore che possa renderci graditi al Buon Dio, che questo Amore è l’unico Bene che bramo” (MB 1r). “Non c’è che una cosa da fare nella notte di questa vita: è amare, amare Gesù con tutta la forza del nostro cuore e salvargli le anime perché sia amato…!” (LT 96). “Sì, mio Amato, ecco come si consumerà la mia vita!… Non ho altro mezzo per provarti il mio amore che gettare fiori, cioè non lasciar sfuggire nessun piccolo sacrificio, nessuno sguardo, nessuna parola, approfittare di tutte le cose più piccole e farle per amore!… Voglio soffrire per amore e anche gioire per amore: così getterò fiori davanti al tuo trono; non ne incontrerò uno senza sfogliarlo per Te!” (MB 4rv).

 

 

L’amore fino alla fine

Teresa conosce bene la caratteristica o esigenza fondamentale dell’amore che è quella di essere con e di essere come la persona amata. È nella natura profonda dell’amore di proiettare l’amante nell’amato, di spingerlo ad essere come lui, a trasformarsi in lui, fino a scomparire per diventare lui. Se la realizzazione piena di tutto ciò non è possibile tra creature, essa è però possibile in rapporto con Dio, nel quale ci si può totalmente immergere senza disperdersi. Teresa ha sentito e vissuto fino in fondo questa esigenza nei riguardi di Cristo. Due sono gli aspetti principali del mistero di Cristo che Teresa ha colto tanto lucidamente. Innanzitutto ha visto in Gesù il Figlio prediletto del Padre, Colui che il Padre genera dall’eternità e che ci mostra nel mistero dell’infanzia uno squarcio sublime ed affascinante della vita intima di Dio stesso. Il secondo aspetto è che questo Figlio il Padre ce lo ha dato come contenuto del suo amore infinito verso di noi; amore che ha trovato la sua espressione suprema nella immolazione della croce.

Permeata totalmente da questo mistero di Cristo, Teresa, che si strugge di amore per Lui, è ansiosa di essere totalmente figlia come Lui, cioè tutta di Dio nella negazione assoluta di qualunque pretesa e di qualunque autosufficienza.

La “piccola via” è la formulazione del cammino che lo Spirito ha fatto compiere a Teresa in questo suo impegno di conformazione, trasformazione e immedesimazione nel suo Unico Amore: Gesù, Figlio eterno del Padre. Ma a questo punto il mistero dell’Amore si traduce necessariamente nel mistero della sofferenza. Diventare Gesù che non solo si accoglie totalmente dal Padre, ma che è sostanzialmente costituito dalla comunicazione che il Padre gli fa di se stesso, significa accogliere come sostanza della propria vita tutto ciò che il Padre comunica. (Non per nulla Gesù diceva: “Mio cibo è fare la volontà del Padre”). Il gesto con il quale il Padre prende il proprio Figlio e lo dona a noi (gesto che trova la sua suprema espressione sulla croce), viene dal Cristo assunto come contenuto del suo stesso essere; quindi, non come qualcosa marginale o subita, ma come attuazione del suo stesso vivere. E siccome il vivere di Gesù è amare, ne segue che, in Lui, l’amare è diventato soffrire e, viceversa, soffrire è diventato amare.

Partendo dal fatto che l’amore, soprattutto quello sponsale (LT 145), porta alla conformazione, e desiderando appassionatamente raggiungere questa identificazione con il suo Gesù, Teresa arriva a scoprire la luminosa grandezza del mistero della sofferenza e ne rimane conquistata. Alla luce della vivissima sofferenza sperimentata durante la malattia del padre privato dell’uso dell’intelletto, Teresa scopre sempre meglio la misteriosa e affascinante bellezza del volto martoriato di Cristo e se ne innamora appassionatamente (Pr 12 e 16). Ella capisce che è soprattutto nella sofferenza di Gesù che si rivela l’infinito amore di Dio per noi, che è soffrendo che Gesù ci ama e ci salva; capisce, dunque, che l’amore passa soprattutto attraverso la sofferenza: sia quello che Dio ci porta, sia quello con cui noi rispondiamo. E capisce anche che è solo associandoci alla sofferenza di Gesù che noi possiamo contribuire alla salvezza delle anime: “Vedo che la sofferenza sola può generare delle anime” (MA 81r). In tal modo il suo amore per la sofferenza cresce ancora, in quanto essa le serve per diventare come l’Amato e identificarsi con Lui, e, inoltre, per salvargli delle anime, cioè per amarlo e farlo amare. Così la sofferenza riassume e raggiunge davvero tutte le dimensioni dell’amore, di Dio e del prossimo.

A questo punto essa si rivela, in modo del tutto chiaro e trasparente, quale dono di predilezione del Padre (LT 81, 82, 83), sia perché rende conformi a Gesù, sia perché lo aiuta a salvare il mondo. La conclusione è che, proprio perché solo qui si può soffrire, la sofferenza è l’unica ragione che rende piacevole questa vita (LT 258). “Quaggiù tutto mi affatica, tutto mi è di peso. Trovo solo una gioia: quella di …soffrire per Gesù e questa gioia non sentita è al di sopra di ogni gioia!…” (LT 85). “Sì, patire amando è la più pura delle gioie” (P 54). “Soffrire, è proprio quello che mi piace nella vita” (QG 25.7.1 e nota).

Amare, soffrire, gioire: sono termini che potrebbero esprimere e riassumere tutta la esperienza cristiana di Teresa. Soffrire amando, amare soffrendo, soffrire gioendo; tali espressioni indicano, in fondo, la stessa realtà: la realtà di una persona che amando trova la sua gioia nell’identificarsi con l’Amato crocifisso e nel parteciparne fino in fondo il destino e la missione. Nella sua sofferenza ella sperimenta la sofferenza di Dio e del mondo, e questa sofferenza non è altro che la traduzione di quell’amore che la porta a identificarsi col suo Gesù e a spendersi per procuragli degli amici.

Ma come è possibile soffrire e gioire allo stesso tempo? Non sembrerebbe una contraddizione? S. Teresa dà una risposta semplicissima e profondissima, in tutto degna di un grande dottore della Chiesa. Innanzitutto ricorda che la gioia non è fatta di effervescenze esteriori e di sentimentalismi, “la gioia e il trasporto, dice, sono in fondo alla mia anima”, e ciò non deve indurre affatto a credere “che non ho sofferto molto” (QG 15.8.1). La ragione della pace e della gioia profonda del cuore sta nel fatto che essa vive pienamente abbandonata alla volontà di Dio, lasciandosi da essa totalmente “riempire”. “Il mio cuore è pieno della volontà del Buon Dio, così, quando vi si versa sopra qualcosa, questa non penetra all’interno” (QG 14.7.9); “Sono contenta di soffrire perché lo vuole il Buon Dio” (QG 29.8.2); “Per natura preferisco morire, ma non mi rallegro della morte se non perché essa è volontà del Buon Dio per me” (QG 27.7.13). La risposta al paradosso, dunque, sta nel fatto che, per Teresa, il contenuto della gioia sta nel compiere la volontà di Dio; e ciò vuol dire nell’accogliere Dio; la volontà di Dio infatti è Dio stesso. Come il Figlio che vive della vita del Padre, vive identicamente della sua volontà, per cui la volontà del Padre è realmente la sua vita e la sua pienezza, così, analogamente, si verifica in Teresa, nella misura in cui si va identificando con il suo Gesù. Ora, cosa è la felicità se non la pienezza della vita? Se è vero, dunque, che essere nella volontà di Dio e attuarla fino in fondo significa realizzarsi in pienezza, allora significa, identicamente, entrare e progredire nella gioia e nella felicità. Tutto, dunque, sta nel vedere se noi sentiamo nella volontà di Dio un limite oppure una pienezza, e se il compierla costituisce per noi un sacrificio o una esigenza del cuore. Ancora una volta: tutto dipende dall’amore.

Credo che uno degli insegnamenti fondamentali ed attualissimi di Teresa nuovo Dottore della Chiesa sia proprio quello di aiutarci a riscoprire le Beatitudini davvero come beatitudini, cioè come attuazione di gioia e di felicità, e non solo come vette di virtù eroiche che, proprio per questo, appaiono sempre più lontane e di, conseguenza, sono sempre meno praticate e sempre meno capite. Gesù ha dichiarato beati i poveri, gli umili, i sofferenti, i perseguitati, e tutti sono d’accordo nell’affermare che le Beatitudini sono la Magna Carta del cristianesimo, cioè la costituzione fondamentale senza la quale il cristianesimo non esisterebbe più. Ma mentre gli studiosi, al solito, continuano a discutere circa la loro interpretazione, i cristiani non solo non le vivono, ma non hanno più nemmeno il coraggio di parlarne. Tutti, in effetti, siamo capaci di scagliarci contro la povertà, intesa come disgrazia da combattere, ma nessuno che parli di povertà come beatitudine da vivere. E ciò anche, forse soprattutto, all’interno della vita religiosa stessa.

È chiaro che la povertà mette in sintonia con i poveri, la castità con i soli, la obbedienza con gli oppressi dal potere. Per cui chi fa i voti si sente istintivamente mandato di preferenza ai poveri, agli emarginati, ai maltrattati. Consacrati attraverso la partecipazione all’atto di morire casto, povero e obbediente di Cristo, come ricorda la Esortazione Vita Consecrata (n. 22), siamo inviati a portare ai poveri la buona novella della salvezza avvenuta e dello straordinario mistero in cui la morte diventa vita, la croce gioia, la rinuncia pienezza; e ad essere, dunque, testimoni di un radicale capovolgimento per cui i diseredati, gli emarginati e gli oppressi, sono i destinatari privilegiati della vera felicità. Si tratta di annunciare e mostrare che la povertà è ricchezza, la castità è amore, la obbedienza è libertà. E questo, proprio perché morte, cioè partecipazione al gesto supremo con cui Cristo in croce si rimette totalmente nelle mani del Padre: espressione umana più perfetta possibile del gesto con cui il Figlio si restituisce al Padre nella intima comunione di vita che è attuazione della loro beatitudine eterna. In forza di tale evento redentore, la sofferenza non è più un castigo ma un dono, la morte non è più una condanna ma una vocazione. ComeGesù, anche noi siamo chiamati a morire e a vivere la morte, non solo come condizione e preambolo alla vita, ma come una sua autentica partecipazione. In effetti il Cristo con il quale il cristiano è chiamato ad identificarsi è il Cristo attuale, che è risorto e glorificato.

Coloro che si trovano in situazione di morte, sono destinatari e depositari di una gioia che è loro propria. La missione è rivelarlo loro. E non evidentemente a parole, che in questi casi rischiano di essere solo controproducenti, ma con la vita. Ma quanti sono i cristiani di oggi che mostrano di amare davvero la croce? Forse sarebbe necessario riflettere un po’ più seriamente anche su questo aspetto fondamentale del messaggio teresiano. Anche perché dove non si ama più la croce si finisce col non amare più nemmeno Cristo; perché Cristo senza croce non esiste, e nemmeno l’amore.

Crediamo che Teresa del Bambino Gesù abbia raggiunto davvero il culmine del suo cammino vocazionale quando, conformata perfettamente al suo Sposo crocifisso, ha vissuto la sofferenza e la morte come attuazione suprema di amore e, di conseguenza, come pienezza di vita e di gioia. “Sì, patire amando è la più pura delle gioie” (P 54).