N.03
Maggio/Giugno 2005

L’accompagnatore vocazionale e l’intervento di Dio

L’accompagnatore vocazionale ha la sua storia. E questa storia è per prima cosa il suo tesoro, il luogo in cui riconosce la misericordia di Dio, concretamente all’opera per lui. E poi diventa tesoro da spendere per gli altri: aiutare con l’accompagnamento a riconoscere Dio presente e attivo e a rispondere al suo amore. Questo è il tema delle pagine che seguono: come “utilizzare” la propria vita per aiutare le persone che si accompagnano a riconoscere e amare l’intervento di Dio nella loro?

Di Teresa di Lisieux[1] tutti conoscono per lo meno Storia di un’anima, che è esattamente un lavoro di “contemplazione” dell’intervento di Dio. Per Teresa, la lode della misericordia è la ragione dello scrivere la propria storia e lei lo dice chiaramente. Fa una rilettura della propria vita nella certezza della misericordia e, nello stesso tempo, coglie il possibile uso di quella storia per guidare altri: è un’acuta consapevolezza che sempre Teresa ha avuto, quella che la sua storia farà del bene.

Quando Teresa insegna ad altri, fa riferimento alla sua esperienza: lo fa con le sorelle, specie Celina, con le novizie, con i due fratelli missionari che educa per lettera, con le persone con cui è in corrispondenza, perfino con l’anziana priora del suo monastero. Di più, lo sente come missione futura che continuerà, come lei dice, dal cielo: la sua esperienza diventa insegnamento. Questo che in Teresa leggiamo come un dono tutto particolare, l’utilizzazione della sua vita, possiamo però riconoscerlo anche nella nostra, come qualcosa di semplicemente ordinario. “Usare” la propria vita non significa raccontarla, ma apprendere da essa ed elaborare alcune esperienze che diventano poi un qualcosa da mettere a disposizione. Di queste esperienze qui ne sottolineiamo tre: 

– lo sguardo della misericordia, un modo di guardare la vita e di farla guardare, nella sicurezza dell’intervento misericordioso di Dio: Dio è intervenuto;

– la fede nella promessa che quella misericordia iniziata non cessa e quindi una sostanziale fiducia nella bontà della vita e del futuro, così difficile da credere oggi: Dio continua e continuerà a intervenire;

– il coraggio che insegna a pretendere, per così dire, la misericordia e la fedeltà di Dio a quella promessa, e quindi un atteggiamento di resistenza nelle difficoltà, di insistenza, di “reclamo” della fedeltà di Dio, che viene da un’assoluta familiarità: Dio deve intervenire ancora.

Quindi riconoscere, affidarsi e investire. Un cammino prima da fare e poi da indicare.

 

Lo sguardo della misericordia. Guardare e insegnare a guardare

Teresa: Credevo di ascoltare la mia storia (Manoscritto A)

La Parola: Vedi questa donna? (Lc 7,36-50)

Noi: il passato e il presente

 

La sera di Pentecoste del 1887, era il 29 maggio, Teresa decide di comunicare al papà il suo desiderio, la sua decisione di entrare al Carmelo a 15 anni. Nel manoscritto A racconta come ha fatto la sua grande confidenza e la reazione del papà che, per quanto commosso, non disse nemmeno un parola per distogliermi dalla mia vocazione. Il papà compie un gesto simbolico che Teresa racconta così:

Avvicinandosi ad un muro non molto alto, mi mostrò dei fiorellini bianchi simili a dei gigli in miniatura e, prendendo uno di quei fiori, me lo diede spiegandomi con quanta cura il buon Dio l’aveva fatto nascere e l’aveva conservato fino a quel giorno. Sentendolo parlare, credevo di ascoltare la mia storia, tanta era la somiglianza tra quello che Gesù aveva fatto per il piccolo fiore e la piccola Teresa… Ricevetti quel fiorellino come una reliquia e vidi che nel coglierlo papà aveva tolto tutte le sue radici senza spezzarle: sembrava destinato a vivere ancora in un’altra terra più fertile del muschio tenero nel quale erano trascorsi i suoi primi giorni… Era proprio questo stesso atto che papà aveva fatto per me alcuni istanti prima, permettendomi di salire la montagna del Carmelo e di lasciare la dolce valle, testimone dei miei primi passi nella vita[2].

L’immagine del fiore può parere a qualcuno infantile o leziosa, ma in realtà è estremamente significativa. Dice la fede in qualcuno che ha avuto cura del fiore dall’inizio. Dice che quel qualcuno ha fatto crescere il fiore con un progetto. Dice che il fiore è stato affidato a delle mani precise e che ha delle radici che gli consentono di continuare a vivere passando di mano in mano. Credevo di ascoltare la mia storia. Teresa riconosce per sé la cura, il progetto e le mediazioni. Guarda e capisce l’amore misericordioso. Senza la percezione della cura ricevuta, di un progetto esistente, dell’intreccio di mediazioni concrete nella vita, non si dà inizio di cammino vocazionale. Lo sguardo della misericordia: verifichiamo il nostro sguardo alla luce della Parola. La Parola di Dio ce lo insegna con chiarezza. Come guarda Gesù? Prendiamo l’episodio della peccatrice nel vangelo secondo Luca.

 

Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”. Gesù allora gli disse: “Simone, ho una cosa da dirti”. Ed egli: “Maestro, dì pure”. “Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose: “Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gli disse Gesù: “Hai giudicato bene”. E volgendosi verso la donna, disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!” (Lc 7,36-50).

 

 

Non c’è un vangelo più bello per dire lo sguardo di Gesù. Vedi questa donna? Sembra una domanda retorica, ma ascoltiamola invece proprio come una domanda: la vedi? No, non la vede. Simone non vede questa donna. Vede una peccatrice, vede un passato disordinato e confuso, vede un mucchio di peccati affastellati, non vede questa donna. Vede colpe, sbagli, vergogna. Non vede questa donna.

E Gesù, invece, cosa vede lui? Gesù vede i gesti nuovi, e in essi il pentimento, il desiderio, soprattutto l’amore… Non che non veda il peccato, infatti dice che le sono perdonati i suoi molti peccati, ma vede anche e soprattutto il resto e questo resto riscatta il negativo e dà senso all’insieme. Agli occhi di Simone, la vita difficile e sbagliata della donna squalifica i suoi gesti. Agli occhi di Gesù, invece, li rende più preziosi e lui li descrive come una liturgia.

Cosa vedi, Simone? Sentiamo la stessa domanda rivolta a noi. Cosa vediamo noi e cosa vede lui nella nostra vita, negli altri? Noi vediamo peccato, colpa, infedeltà, con poca speranza; vediamo un passato che determina, limiti che scoraggiano, immondizia da nascondere e mascherare. Lui vede possibilità di crescita, un cambiamento già iniziato, già sufficientemente avvenuto; vede disponibilità, desideri buoni, risorse di bene. Cosa vedi, Simone? Che sguardo hai? Uno sguardo ingenuo? Risentito? Abbattuto? Uno sguardo ingenuo è uno sguardo distratto, che non trova niente di interessante nel passato, che non coglie connessioni tra ieri e oggi. Interrogato, non ha niente da dire, oppure dice: “Tutto bene”. Per rimanere ingenuo, spesso deve operare una idealizzazione, negando aspetti di sofferenza del passato. Ma in realtà è uno sguardo che si alimenta della paura dei possibili condizionamenti, che teme di andare più a fondo e trovare magari di che star male. Uno sguardo risentito è un notare negativo, arrabbiato con la vita: qualcosa è andato male. Ciò che non va oggi, è colpa dello ieri. “Se non fosse successo, se avessi avuto un’altra storia…”. In questa recriminazione risentita, non viene percepito nessuno spazio di libertà, ma si leggono deterministicamente le condizioni che rendono inevitabili le difficoltà presenti o l’attuale insoddisfazione.

Uno sguardo abbattuto oscilla tra l’autoaccusa: “È colpa mia, non sono capace, sbaglio sempre”, e il lamento: “Io sono stato sfortunato, capitano tutte a me”. In ultima analisi, l’attribuzione è esterna, pur se impersonale e fatalistica: l’insoddisfazione dipende cioè da altro, dipende da fuori, e se dipende da “come sono fatto”, non c’è niente da fare, perché è capitato così e non si vede cosa cambiare. Non ci si assume nessuna responsabilità, come invece sarebbe se si dicesse: “Ho sbagliato, ma posso provare a fare diversamente”. Lo sguardo abbattuto resiste al cambiamento: sarà sempre così.

Non c’è solo il passato oggetto del nostro sguardo. E il presente? Come guardiamo gli altri, la famiglia o la comunità, il servizio e gli impegni, le situazioni, gli eventi che capitano? Come vediamo il limite e come lo interpretiamo? Lo sguardo sul presente e sull’altro può essere sospettoso, superficiale, a senso unico. Uno sguardo sospettoso: l’altro è sentito come una minaccia (“ma cosa vuole?”), come possibilità di giudizio e di rifiuto. L’altro è un nemico da temere o un concorrente da vincere. Nasce allora paura e aggressività. La competizione entra come un veleno sottile nelle relazioni: l’altro o io, non c’è posto per due. Quanto è dato agli altri è tolto a sé, come se di affetto e di stima non ce ne fosse abbastanza per tutti e bisognasse darsi da fare per averli. Uno sguardo superficiale: ci si tiene a distanza di sicurezza, quel tanto che basta, un poco indifferenti. Si vorrebbe andare d’accordo con tutti, ma si cerca di evitare sia intimità, sia conflitti; non viene neppure in mente di far crescere o approfondire le relazioni. Gentili con tutti, non si cerca nessuno. Le relazioni sono spesso orientate a quello che c’è da fare. Si guarda con un po’ di superiorità chi si impantana in legami affettivi o si coinvolge in vicende emozionali. In realtà c’è paura, paura che andare vicino agli altri e sperimentare affetti sia pericoloso; paura di soffrire, per cui è meglio non sentire troppo; paura di perdere un controllo di sé che dà sicurezza.

Lo sguardo unilaterale può essere possessivo oppure, in senso contrario, eccessivamente responsabilizzato. Uno sguardo possessivo vede l’altro solo in quanto può dare: è possibile fonte di piacere; può dare sicurezza, stima, affetto, sostegno. È cercato per questo, lo si vorrebbe possedere per questo, a volte lo si getta via se non serve più, e comunque non si vedono le sue esigenze. L’altro è “per me”. Si tende a dominare affettivamente, a tenere l’altro legato, a “sequestrarlo”, per timore di essere abbandonati. Uno sguardo responsabilizzato vede con una grande sensibilità le sofferenze degli altri e subito sente di dover dare. Il problema non è il dare, naturalmente, ma il non saper ricevere. Istintivamente si percepisce l’altro come “uno che ha bisogno di me”, mai come uno “di cui io ho bisogno”. Si ascoltano tutti, ma non ci si confida con nessuno. Non si sa chiedere ed è come se si sentisse di non aver diritto alcuno per sé. Da qualche parte restano in deposito i propri problemi, le proprie fatiche ed ansie che nascostamente ingombrano.

Sono solo esempi di sguardi, questi. Possiamo cercare di individuare il nostro sguardo prevalente. E con questa esperienza cogliere poi lo sguardo della persona che accompagniamo e insegnare a guardare come Teresa ha guardato la piccola sassifraga bianca. Se noi tendiamo a banalizzare fatti e sentimenti, allora non aiutiamo a guardare. Ritenendo normale ogni difficoltà, non prendiamo in considerazione le contraddizioni e diciamo: non pensarci troppo che passerà, un momento di crisi ce lo hanno tutti; puoi sempre prendere qualche pastiglia per ridurre l’ansia, non c’è niente di male; non servono le indagini sullo ieri… E non interrogandoci, sciupiamo anche i segni della misericordia che passa.

Neppure se spiritualizziamo tutto troppo in fretta, aiutiamo a guardare davvero. La risposta troppo pronta, anche se giusta, scavalca la fatica del crescere: sappiamo che fede, perdono, obbedienza sono le grandi proposte fatte a chi vuole seguire Gesù. Ma lo sguardo della misericordia conosce bene la lentezza del cammino e l’abbraccia, senza evitare il percorso di ciò che è umano. Dando peso deterministico al male che c’è stato, alimentiamo la sensazione che se la storia della persona è complicata non c’è niente da fare: con difficoltà si vedono le risorse pur presenti, c’è poca fiducia nella possibilità di aiutare.

Non si può chiedere di più, si dice… e inattiviamo energie possibili. Bisogna fare invece come fa il papà di Teresa, dire: “Questo è quello che ti è successo”, mostrando il fiore. Qualsiasi cosa ha un senso e anche ciò che è piccolo dice la misericordia. Quello che accade è momento di grazia, non incidente di percorso. Non è qualcosa che non avrebbe dovuto succedere, ma forse qualcosa che proprio doveva succedere, che va bene sia successa, perché spalanca una nuova comprensione di sé e di Dio che vuol dire qualcosa e lo fa così, attraverso quello che capita nella vita.

Come interviene Dio attraverso quello che capita? Occorre dare il nome alle cose, per capire come Dio sta intervenendo e cosa sta chiedendo: cosa Dio vuole ora da questa storia, quale partecipazione alla sua croce, alla sua missione e al suo amore vuole chiedere. Il fiorellino è per Teresa simbolo di tutto questo, della mia storia, quello che Gesù aveva fatto per la piccola Teresa.

Noi possiamo averne un altro, di simbolo, e possiamo aiutare chi accompagniamo a trovare il proprio piccolo fiore: chi per esempio, attraverso la rilettura della propria storia con sguardo di misericordia, scopre che ha sempre tentato di rispondere alle aspettative di tutti, ma forse gli è chiesto di rinunciare al proprio perfezionismo, può sostituire il fiore con un compito scritto in cui alcuni errori non sono corretti (“la tua vita è così, qualcosa in cui c’è anche il limite e non occorre cancellarlo tutto, può restare, integrarsi”)… e chi scopre che le sue ansie sono segno di non accettazione di sé, può scegliere la scatoletta vuota di ansiolitici (“la tua vita è così, non c’è più bisogno di eliminare a tutti i costi ogni ansia per non sentirla, se capisci da dove viene, puoi portarla e offrirla”)… e chi scopre che ha sempre pensato di essere stato trattato male dalla vita e invece è stato amato gratuitamente, può scegliere un estratto conto, in cui le entrate sono così chiare (“la tua vita è così, ha ricevuto tanto e non lo sapevi finché la banca non ti ha mandato questo estratto conto)… Per noi e per gli altri possiamo scegliere un simbolo che dica la certezza della misericordia ricevuta.

 

 

La promessa della misericordia. Fidarsi e insegnare a fidarsi

Teresa: È proprio dell’amore abbassarsi (Manoscritto A)

La Parola: Il Signore è qui e io non lo sapevo (Gen 28,10-22)

Noi: al bivio della debolezza

 

Nel momento della scelta, quando ci si sente al bivio e insicuri, nel momento della difficoltà, quando sembra di non avere capacità e forza per continuare, aiutare a vedere l’intervento di Dio significa insegnare a fidarsi. Ma per insegnare a fidarsi occorre prima fidarsi: nella debolezza e nel limite, nel conoscersi e nello scoprire di non accettarsi.

Quante volte troviamo giovani che si domandano, circa la propria scelta di vita: ma come faccio a capire? Ma come faccio a essere sicuro? Il dubbio sulla propria capacità di comprensione e la conseguente paura di scegliere viene dalla mancanza di fiducia, viene dal non percepire la vocazione come un dialogo con una persona, ma invece come un dover indovinare il proprio posto nella vita, un dover azzeccar la risposta giusta a un esame terribilmente importante da cui dipende la propria felicità. Ma come faccio a essere sicuro? E se sbaglio?

La mentalità sottostante, magari non consapevole, è: dipende tutto da me ed è molto importante non sbagliare. Cammino vocazionale è dover capire cosa Dio vuole, è come un compito da risolvere: la soluzione giusta la trovate a pagina x… Lo sguardo misericordioso di Gesù porta invece alla fiducia, una fiducia che non trova le ragioni in sé, ma nell’altro. L’amore che fa esistere, che custodisce e progetta, che accompagna e continua non dipende dalla propria amabilità, o forse, guarda l’intrinseca amabilità creata dall’inizio e continuamente presente per lo sguardo stesso di Dio che ama e tiene in vita.

A questa certezza, che l’amore di Dio non dipende da noi, si oppone la convinzione che l’amore che si riceve dipende dalla propria amabilità e per questo il dubbio sulla propria amabilità diventa dubbio sull’amore ricevuto. Le aspettative degli altri, che si ritiene aspettino certe prestazioni e un certo modo di essere, fanno nascere l’inconscia convinzione che si deve essere “così” per poter essere accolti e amati: devi, dovresti. Il contenuto del devi dipende molto dal tipo di formazione e dal contesto: esser forti, essere bravi, essere sempre all’altezza, ma anche essere simpatici, essere capaci di aver tanti amici, essere belli, essere informati, avere la possibilità di spendere… In ultima analisi l’amore ricevuto dipende da me, dalla mia capacità di meritarmelo e guadagnarmelo. Ma davvero Dio è così? Teresa non solo non si preoccupa di non meritare, ma anzi ritiene che non avere meriti sia titolo privilegiato. Questa intuizione diventa molto concreta. È proprio dell’amore abbassarsi[3].

Se è proprio dell’amore abbassarsi, Dio, che è amore, vuole abbassarsi e più si abbassa, più può amare, e allora più siamo piccoli, più può amare e poiché, essendo misericordia, è contento di amare, più siamo piccoli più lo facciamo contento. Questa piccolezza non è una virtù conquistata. Teresa resiste a questa interpretazione data dalle sue sorelle, che riconduce in fondo alla propria capacità, un saper essere e farsi piccoli. No, la piccolezza di cui parla è una piccolezza reale e debole, non un’altra forma di eroismo; è la realtà stessa e il lasciare essere come si è, senza la preoccupazione di dover meritare l’amore. Basta restare sempre piccoli, accettare di restarlo.

Certo che c’è la preoccupazione, per così dire, di rispondere a quell’amore (voglio farlo contento, dice sempre Teresa), perché ogni amante si preoccupa di amare; ma l’amore dato non è condizione per l’amore ricevuto, che comunque non si merita. È semplicemente dato, solo per lui, perché sia sempre più contento

di amare. Questo modo di vedere le cose è una realtà profonda che cambia molto nel proprio modo di intendere e vivere vita e vocazione.

Vediamo nella Parola di Dio che Dio è così davvero, come Teresa crede. Leggiamo il sogno di Giacobbe, cioè la promessa di amore nel momento meno adatto, meno meritato. Ma che rivela una presenza là nella debolezza e nella piccolezza, là dove si pensava non ci fosse…

 

Giacobbe partì da Betsabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra. Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto”. Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. Alla mattina presto Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacobbe fece questo voto: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai io ti offrirò la decima”. 

 

 

La situazione di Giacobbe: passato confuso, relazioni difficili, futuro incerto… E Dio lo incontra, come dice la Scrittura, lì dove è. Non deve andare in un santuario per incontrare Dio, diventa santuario il luogo dove lui si trova. Lì dove è significa in quell’esatto momento della sua vita, non dove gli piacerebbe essere o come gli piacerebbe essere. Dio si interessa, interviene, questo è il senso del messaggio del sogno: una scala che unisce cielo e terra, trafficata. Tra parentesi, è un’idea di cielo attivo nei riguardi della terra che corrisponde proprio al pensiero di Teresa sull’aldilà e sulla vita eterna e sul ruolo dei santi[4].

La promessa è sproporzionata, non dipende da Giacobbe. Dio semplicemente promette, senza tenere in alcun conto la sua indegnità. E al risveglio, la scoperta: è qui e io non lo sapevo! Questa è la scoperta che dà senso a tutto e crea fiducia: non che Dio è venuto, ma che lui era già qui, sono io che non lo sapevo. Quello che fa la differenza è la consapevolezza della sua presenza, gli occhi prima chiusi e poi aperti sugli stessi fatti, la stessa situazione, gli stessi luoghi e persone. Era qui. Dio è nella tua ansia, nelle tue fughe, nei tuoi risentimenti e nei tuoi fallimenti… pensavi di dover essere diverso, di dover avere coraggio, di dove rispondere sempre bene, invece Dio è proprio qui… E come conseguenza il cambiamento: la pietra e il nome. Prima la pietra era solo un sasso per appoggiare la testa, adesso diventa una stele per fare memoria.

Prima il luogo era senza nome, era solo dove lui era, adesso ha un nome significativo di quel che vi è successo. La pietra e il nome sono per Giacobbe quello che è il fiorellino per Teresa. Vedendo quel simbolo, ricordo che è come la mia storia. Dall’aver fatto la stessa esperienza di Giacobbe, ecco il messaggio centrale da offrire: dove sei, dove tu ti trovi ora, Dio promette, indipendentemente da te. Così puoi scoprire che è qui, che lo era già, solo tu non lo sapevi.

 

 

La pretesa della misericordia. Insistere e insegnare ad insistere

Teresa: I genitori per far piacere ai loro piccoli arrivano fino alla debolezza (Manoscritto B)

La Parola: Non ti lascerò finché non mi avrai benedetto (Gen 32,23-33)

Noi: decisione e perseveranza

 

Un altro momento privilegiato dell’accompagnamento, in cui è forse ancora più importante notare l’intervento di Dio, è quando è difficile restare. La certezza del suo sguardo di misericordia e la fiducia portano allora a resistere, non contando sulle proprie forze, ma esattamente su quello sguardo e su quella fiducia. La frase di Teresa, che i genitori per far piacere ai loro piccoli arrivano fino alla debolezza[5], significa che abbiamo una specie di potere su Dio. Bisogna scoprirlo e poi insegnare a usarlo!

È il potere dell’amore reciproco. Amare è far contento l’amato. I bambini riescono a far fare quello che vogliono ai genitori, dice Teresa, e in un certo senso, i genitori diventano deboli per loro, farebbero per loro qualsiasi cosa. Ma non è quello che fa Dio per noi? Farebbe, ha fatto!, qualsiasi cosa… il mistero pasquale. Dio che ci ha dato suo Figlio, come non ci darà ogni cosa insieme con lui? Se non ha risparmiato lui risparmierà su altro? (cfr. Rm 8,32). Adesso però sottolineiamo l’atteggiamento da parte del bambino stesso, che si aspetta tutto, un atteggiamento che si vuole qui sottolineare, perché forse particolarmente necessario oggi. Sapere che non si riceve per merito non rende passivi e inattivi. Il contrario! Questo è chiarissimo in Teresa[6]. Lei usa molto la parola audacia

Riprendiamo la vicenda di Giacobbe, quando dopo molti anni torna a casa: al guado dello Iabbok, la sua lotta con Dio, il misterioso qualcuno che lo affronta nella notte. Basta fermarsi sulla sua espressione: Non ti lascerò finché non mi avrai benedetto!

 

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti  lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel, “Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca, nel nervo sciatico.

 

 

Giacobbe si impone a Dio. Non può pretendere sulla base dei suoi meriti, perché la logica è stata differente fin dall’inizio, ma può pretendere proprio sulla base di quell’immeritata promessa. Non meritata, vuol dire che è solo per grazia, e come tale non può venire meno. Non era legata a lui, alla sua bontà e alla sua fedeltà! Dio si è esposto, ha fatto una promessa infinita: mantenga, ora. E Dio cede, e qui lo benedisse. Hai vinto, dice. Questa atteggiamento è il contrario del volontarismo, che dice “Io devo riuscire e realizzare la mia fedeltà”. Perché, invece, “Sei tu che devi non lasciarmi e realizzare in me la fedeltà”.

Non ti lascerò: insistenza che pretende. Dove non c’è questa convinzione, che “Tu devi essere lo stesso per me qualsiasi cosa accada, perché è la tua promessa”, c’è la resa. Davanti alla facilità di resa di cui si parla oggi, si può essere tentati di tornare a una formazione volontaristica, come a voler rafforzare una umana mancanza di forza, puntando però su un resistenza che conta su di sé. Invece, è questione di fiducia e delle implicazioni dell’amore.

È importante insegnare a volere davvero, far notare l’importanza del desiderio e la paura di desiderare che spesso c’è: se vuoi davvero, chiedi. Perché non chiedi? E allora ti arrendi oppure pretendi di dover riuscire da te stesso. Non basta il primo desiderio che si esprime così: vorrei essere un bravo consacrato, missionario. Non basta il secondo, scoperto a fatica: vorrei scappare. Ce n’è uno più profondo: vorrei restare anche nella difficoltà, avere la forza di essere fedele ancora. Questo desiderio bisogna far affiorare, senza farsi ingannare dagli altri.

Per concludere, aggiungiamo che, se è necessaria una insistenza di domanda, è bella anche una insistenza di risposta. È molto chiara anche in Teresa. Se Gesù vuol giocare con un granello di sabbia, è libero di farlo. Giacché Gesù vuol dormire, perché dovrei impedirglielo? Purché egli sia contento… (p. 183)[7]. Sono tantissime le espressioni come queste. Il significato è: Io resto lo stesso per te, qualsiasi cosa tu faccia.

Leggiamo nella Scrittura: Anche se non ci liberasse… Anche ora so

 

Nabucodònosor disse loro: “È vero, Sadrach, Mesach e Abdenego, che voi non servite i miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho fatto innalzare? Ora, se voi sarete pronti, quando udirete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell’arpicordo, del salterio, della zampogna e d’ogni specie di strumenti musicali, a prostrarvi e adorare la statua che io ho fatto, bene; altrimenti in quel medesimo istante sarete gettati in mezzo ad una fornace dal fuoco ardente. Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?”. Ma Sadrach, Mesach e Abdenego risposero al re Nabucodònosor: “Re, noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace con il fuoco acceso e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dei e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (Dan 3,17-18).

 

Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà” (Gv 11,21-22).

 

Sono due esempi in cui l’amore e il desiderio per Dio continuano nonostante la delusione del non ascolto. Perché l’amore per lui e il desiderio di lui non sono condizionati e vanno oltre la risposta che si vorrebbe. La si vorrebbe, certo, lo si dice. Ma anche se si ha invece risposta negativa, non cambia la sostanza del rapporto. Per me tu sei ancora quello di prima, hai diritto in fondo di ascoltarmi come piace a te, senza che io interpreti questo come disinteresse, lontananza, punizione. Insegnare a guardare, fidarsi e poi insistere e resistere, perché sicuri dell’amore di Dio e anche, coraggiosamente, del proprio, perché ci si fa forti solo della propria debolezza e quindi anche per il proprio amore ci si fonda su di lui e non su di sé: tu sai tutto, tu sai che ti amo.

 

 

Note

[1] Le citazioni di Teresa di Lisieux sono prese da SICARI A., La teologia spirituale di Teresa di Lisieux, Jaca Book, Milano 1997. Cfr. anche MARIE EUGÈNE DE L’ENFANT JÉSUS, Il tuo amore è cresciuto con me, Edizioni OCD, Roma 2004.

[2] Manoscritto A, in SICARI, La teologia spirituale…, cit., p. 134.

[3] Manoscritto A, in SICARI, La teologia spirituale…, cit., p. 271.

[4] SICARI, La teologia spirituale…, cit., p. 349.

[5] SICARI, La teologia spirituale…, cit., p. 345.

[6] MARIE EUGÈNE DE L’ENFANT JÉSUS, Il tuo amore…, pp. 53 e 103.

[7] SICARI, La teologia spirituale…, cit., pp. 175, 177, 183.