N.04
Luglio/Agosto 2005

Abbandoni vocazionali nell’Italia del nord negli ultimi dieci anni

 

 

I dati 

I dati disponibili sul fenomeno degli abbandoni del ministero presbiterale e della vita consacrata nell’Italia del Nord sono di difficile reperimento. Negli ambienti ecclesiali si ha la percezione di un fenomeno né marginale, né liquidabile come fisiologico, che sembra mediamente quantificabile negli ultimi dieci anni intorno al 10% del numero degli ordinati o professi perpetui dello stesso periodo[1], con qualche picco qua e là più preoccupante. 

L’abbandono avviene nella maggioranza dei casi tra i 5 e i 15 anni dall’impegno definitivo, ma non mancano casi di rinuncia anche nei primi 5 anni di ordinazione o professione perpetua[2]

Sembra poi in crescita il fenomeno dell’abbandono di diaconi e professi temporanei. 

 

Motivazioni e cause 

In genere l’abbandono non è accompagnato da una contestazione ideologica e “arrabbiata” della Chiesa, come avveniva nell’immediato post-Concilio, benché non manchino casi in cui l’abbandono è stato accompagnato da critiche al modo con cui è vissuto il rapporto Vescovo-preti oppure – tra i religiosi – allo stile inadeguato della vita di comunità. 

Una prima causa di abbandono è l’immaturità personale, in particolare affettiva, che esplode nell’impatto col ministero o nella vita apostolico-comunitaria ordinaria, spesso inizialmente sotto forma di senso di inadeguatezza e insicurezza. In diversi casi i problemi erano già presenti durante la formazione, ma erano stati sottovalutati. 

Un’altra causa frequente di abbandoni è data dal fatto che il soggetto entra progressivamente in uno stato di demotivazione radicale, di svuotamento, di disaffezione al ministero o alla vita religiosa, a cui concorrono diversi fattori: 

a) le concrete condizioni di vita: 

il ministero o la vita religiosa si presenta altro da ciò che ci si aspettava; 

– richieste eccessive (per es. da parte di parroco e fedeli) con poche gratificazioni; 

– superlavoro in città nei primi anni e poi solitudine in piccole parrocchie (spesso affidate a grappolo); 

 

b) il poco tempo riservato alla riflessione e alla preghiera, e questa vissuta spesso con poca regolarità, in un quadro di vita abbastanza disordinato, per cui poco alla volta il soggetto non riesce più a rivisitare gli avvenimenti e le risonanze affettive che li accompagnano; 

 

c) una visione inadeguata della vocazione, che entra in crisi 

– la vocazione vissuta più come un fare qualcosa che un essere/appartenere a Cristo, 

– più nell’ottica dell’autorealizzazione che della totale consegna di sé al Signore che chiama, 

– come qualcosa che appartiene più al registro emotivo, che a quello razionale/volitivo, per cui nel momento in cui “non mi emoziona più” si pensa che non ci sia più la vocazione. 

 

Un dato che deve far riflettere è il fatto che l’area dei demotivati è più ampia di quelli che lasciano, poiché il disagio e la disaffezione verso il ministero o la vita consacrata non sempre prendono la strada dell’abbandono. Si assiste per esempio a frequenti casi di fuga dal lavoro “sul campo”, dalla frontiera della struttura parrocchiale, e alla ricerca di ministeri “speciali” (studio, curia, uffici…), che finiscono per configurarsi come una specie di “imboscamento” in cui sopravvivere assumendo meno rischi. 

Nel campo della vita religiosa femminile certi abbandoni affondano le loro radici nel fatto che poiché sono poche le giovani che chiedono di entrare, il discernimento iniziale tende ad essere meno accurato ed esigente, e una volta entrata in comunità la giovane religiosa si trova con persone molto più anziane, che faticano a porsi in un rapporto d’autentica fraternità, con cui relazionarsi apertamente, confrontarsi, progettare cambiamenti comuni. 

Da parte loro le formatrici sono spesso assillate da molte attività e hanno poco tempo per curare il proprio aggiornamento. Talvolta la loro personalità è così forte che finiscono per legare le giovani a sé più che aiutarle a radicarsi in Dio. 

Un problema speciale è posto dalla presenza di giovani straniere, con gli ostacoli specifici di comprensione e interazione profonda.  

 

 

DATI ACQUISITI MAGGIO 2005

 

Emilia Romagna (1995 – 2004 – 15diocesi) 

257 ordinazioni sacerdotali 25 abbandoni preti = 10% (2,5/3 all’anno) sui nuovi ordinati + 6 diaconi seminaristi

Religiose: abbandoni fisiologici.
Religiosi: non molti, senza significative differenze rispetto agli anni ’70.
Un Istituto dal 1992: 50 ingressi, 25 professioni, 4 abbandoni (+ del 15% delle professioni)

 

Milano (1995 – 2004)

35 abbandoni preti + del 10 % (?) sui nuovi ordinati (una media di 3,5/4 all’anno anche nel decennio precedente); 9 entro i primi 5 anni dall’ordinazione, 21 tra i 5 e i 15 anni dall’ordinazione.

 

Triveneto- Nord Est (1985 – 1994)
(In corso un’inchiesta da parte del sociologo Alessandro Castegnaro) 

Religiosi/e : 224 professioni perpetue,11 abbandoni ( 4,9%), 592 professioni temporanee, 82 abbandoni(13,9%)
Preti diocesani: abbandoni (circa 5%)

 

Vicenza (1995 – 2004)
Preti diocesani: 55 ordinati; 10 abbandoni (5,5%)

 

Padova (1980 -2004 )
Preti diocesani: 280 ordinati, abbandoni (quasi 10%)
(1995 -2004)
Preti diocesani: 15 abbandoni, 2 nei primi 5 anni (sui 30 anni), 5 fra i 35 e i 38 anni, 4 fra i 45 e i 48 anni

 

Casale Monferrato (1968 -1974)
Preti diocesani: 25 abbandoni, nessuno negli ultimi anni. 

 

Piemonte 

Alba: 1 + 1 diacono; Mondovì 3, Saluzzo 1, Torino 2 (solo nel 2004) e molto qualificati. 

 

Note 

[1A titolo di esempio in Emilia-Romagna (circa 4 milioni di abitanti suddivisi in 15 diocesi) nel decennio 1995-2004 ci sono stati 25 abbandoni a fronte di 257 ordinazioni sacerdotali, e un istituto religioso maschile significativo dal 1992 a oggi ha avuto 4 abbandoni su 25 professioni. 

[2] Va ricordato che per i preti passa in genere un certo lasso di tempo tra la rinuncia e l’abbandono definitivo con la dispensa, che non viene concessa prima dei quarant’anni di età.