N.04
Luglio/Agosto 2005

Dietro gli abbandoni, i problemi anche di chi resta?

Una riflessione sulla percezione che nelle Chiese del meridione d’Italia si ha del fenomeno degli abbandoni da parte dei presbiteri

Questo breve intervento non ha l’intento di offrire una riflessione globale ed esaustiva sul fenomeno degli abbandoni del ministero presbiterale nelle diocesi del sud dell’Italia, ma più semplicemente vuole richiamare quale percezione se ne abbia nelle nostre Chiese locali. È del resto proprio la nostra percezione, l’insieme di sensazioni e riflessioni fatte tra noi presbiteri e con i fedeli laici, a costituire l’alveo nel quale la vicenda di tanti confratelli si evolve a volte dolorosamente, ma spesso senza che questa percezione diffusa e le considerazioni che ne nascono sappiano diventare accompagnamento, solidarietà concreta e discreta, amicizia e vicinanza nei loro riguardi. 

Prendiamo in considerazione soprattutto due regioni meridionali, la Campania e la Puglia. Dalla ricognizione che è stato possibile effettuare in queste due regioni (nel territorio delle quali esistono 41 diocesi) – in nessun caso si tratta di dati scientifici, poiché essi non sono il risultato di una indagine statistica che avesse il carattere di una qualche rigorosità e scientificità, e del resto è molto difficile essere esaustivi in questi casi spesso molto diversi tra di loro e implicanti profonde dinamiche esistenziali ed interiori – possiamo trarre alcuni elementi che sembrano essere eloquenti e dunque meritano la nostra attenzione. 

Vorrei brevemente raccogliere la mia comunicazione intorno a tre di essi, articolando la riflessione su ciascuno ancora in tre passaggi, per coglierne rispettivamente la percezione che se ne ha, i nodi problematici che sembrano emergerne, e infine le conseguenze che ci sembra di dover iniziare a trarne. 

 

 

1) Il primo elemento è che spesso si tratta di persone che decidono di lasciare il ministero a pochissimi anni, in alcuni casi – non poi così rari – addirittura mesi, dall’ordinazione. 

 

La situazione 

In Campania la ricognizione sui casi d’abbandono verificatisi negli ultimi cinque anni mostra come il tempo trascorso dall’ordinazione al momento dell’abbandono sia in media quello di 3 anni e otto mesi (se si eccettua un unico caso d’abbandono dopo diciotto anni di ministero, la media sarebbe di poco meno di 3 anni). 

In Puglia la situazione non è diversa, e pur se un po’ più elevato resta comunque breve il lasso di tempo che intercorre tra l’ordinazione e il momento dell’abbandono (circa cinque anni). 

 

I nodi problematici 

L’intervallo mediamente breve intercorso tra la decisione di lasciare il ministero e l’ordinazione ricevuta ci conduce a dire che in tutti questi casi esiste un legame forte con quanto è avvenuto, o non è avvenuto, negli anni di seminario, e con quanto avviene nel periodo immediatamente successivo, quello del passaggio dal seminario all’esercizio del ministero. 

Certo, l’età relativamente giovane di queste persone chiama in causa altri elementi, che tutti conosciamo e che riguardano un’eccessiva ed immatura enfasi emotiva nella gestione delle situazioni, lo “choc da definitività” che non tocca solo il periodo della formazione in seminario, ma si estende anche agli inizi del ministero, ma queste considerazioni non tolgono che va fatta una riflessione seria sulla continuità tra gli anni di seminario e i primi anni di ministero

 

Una riflessione 

Quello che ne deriva è il bisogno di un vero accompagnamento nell’in-serimento della persona appena ordinata nella realtà pastorale. La sensazione diffusa tra i giovani presbiteri è che fuori del seminario, dopo anni di sostegno in una struttura formativa che ha saputo nutrire ed aiutare la vita personale, improvvisamente ci si ritrovi da soli, senza più essere seguiti da nessuno. Troppo improvvisamente. La prima cosa che si fa fatica a vivere, rispetto a ciò che è avvenuto in seminario, è il mantenimento di un elevato ed incisivo tono della vita spirituale. I ritiri del clero sono vissuti male, senza concentrazione e silenzio, si comincia a non confessarsi più, la liturgia delle ore si accantona, e la liturgia non riesce a diventare l’alimento della vita spirituale. La domanda, allora, sembra suonare decisa: ci sono occasioni significative e profondamente incidenti nelle proposte spirituali che la comunità diocesana fa ad un giovane diacono o presbitero che è appena arrivato? Chi accompagna i giovani presbiteri nella gestione dell’impatto tra le attese e la realtà, spesso difficile, nella quale si trovano ad operare? 

Spesso i più sensibili e vivaci hanno coltivato in seminario sogni e desideri che poi devono scontrarsi con la concretezza delle cose, con la povertà delle situazioni, con le resistenze all’interno delle comunità. In questa inevitabile e certo salutare presa di coscienza, chi accompagna un giovane perché la concretezza e l’adesione alla realtà non diventi delusione devastante e sconcerto frustrante? Il luogo in cui l’incontro con la realtà deve diventare decisione forte e paziente per la costruzione di un futuro nuovo, non è forse la propria interiorità credente? E chi se ne prende cura accompagnandola nei primi anni di ministero dei confratelli più giovani? 

 

 

2) Il secondo elemento che emerge è quello di un sostanziale silenzio intorno alle vicende di queste persone, prima e dopo l’abbandono. 

 

La situazione 

Un tale silenzio scende non solo dopo la loro decisione, ma anche quando si inizia a sentire nel presbiterio di una loro crisi incipiente, di un disagio che si sta iniziando a manifestare. Non ci sono luoghi in cui sia possibile – in maniera certamente discreta e delicata ma insieme fraterna ed aperta – parlare di queste persone che hanno lasciato o stanno lasciando, né nei consigli presbiterali, dove si comunica solo ciò che è avvenuto in maniera asciutta e quasi imbarazzata, né in altri luoghi della vita diocesana. L’unico luogo sembra spesso essere quello delle cene tra preti amici, a cui le persone interessate ormai non partecipano più! 

 

I nodi problematici 

Il disagio ed il silenzio che scende su queste persone è spesso espressione di una mancanza precedente di una vera comunicazione e conoscenza reciproche tra presbiteri. Si tocca qui uno dei nodi problematici seri dell’attuale vita delle nostre comunità, che non poco incide sul fenomeno degli abbandoni: la grande fatica a creare quell’unum presbiterium auspicato dal Concilio, e che diventerebbe il grembo amico e forte nel quale ognuno potrebbe anche vivere le proprie difficoltà, oltre che naturalmente le gioie legate al ministero e al suo esercizio pastorale. 

Una delle cause scatenanti le crisi, del resto, nasce proprio dal fatto che un giovane presbitero non solo venga caricato di attese eccessive, nell’attribuzione di tanti (troppi?) incarichi pastorali, ma che uno stile freddo di presbiterio gli faccia mancare la possibilità di condurre tali attività in un clima di corresponsabilità, di condivisione, di dialogo, lasciandolo solo, abituandolo a doversela cavare senza chiedere aiuto, fino a scivolare in situazioni pericolose di isolamento umano e pastorale. 

 

Una riflessione 

La sostanziale ignoranza delle situazioni problematiche da parte del presbiterio pone certamente una questione. Spesso il vescovo gestisce personalmente e direttamente le situazioni di questo tipo. E questo è segno grande da parte sua di dedizione ai presbiteri in difficoltà, verso i quali egli mostra tutta la sua paternità e il suo senso di responsabilità. Del resto ci si trova di fronte alla necessità di procedere con prudenza e discrezione, soprattutto nei mesi d’indecisione e d’attesa, e spesso non è possibile né opportuno coinvolgere un gran numero di persone nella gestione di queste situazioni. Ma è ugualmente necessario chiedersi se sia sufficiente l’interessamento del vescovo, e come sia possibile comporre la necessaria discrezione con un più diffuso senso di fraternità all’interno del presbiterio. È possibile creare luoghi, e occasioni, in cui anche altre persone possano mettersi al fianco di questi giovani presbiteri e dialogare con loro, discretamente e apertamente? Con chi un giovane prete può condividere il senso di stanchezza e di delusione che non raramente abita i primi anni di ministero, spesso tanto ingolfati di incarichi quanto poveri di vita spirituale? 

 

 

 

3) L’ultimo dato sul quale mi sembra necessario fermarsi è quello, emerso soprattutto in Puglia, di una certa distorsione nella percezione di questo fenomeno. 

 

La situazione 

Una tale distorsione tra la percezione diffusa che si ha del fenomeno degli abbandoni e la sua realtà concreta, così come essa risalta più precisamente dalla considerazione dei casi individuali, emerge in una lettura paradossalmente sovradimensionata dal punto di vista quantitativo, e sottovalutata nella sua valenza “qualitativa”. C’è dunque innanzitutto un sovradimensionamento del fenomeno, che in realtà non è poi così diffuso e preoccupante – almeno dal punto di vista quantitativo – come sembra ad un primo sguardo (nelle diciannove diocesi pugliesi la percentuale si attesta negli ultimi dieci anni sul 7%). Abbiamo tutti l’impressione che i presbiteri che abbandonano il ministero siano più di quelli che in realtà sono, e forse questa sensazione dice l’affetto e la preoccupazione che tutti ci prende davanti ai singoli casi di cui veniamo a conoscenza. Essi hanno sempre una grande risonanza tra di noi, rispetto ai decenni passati, in cui ci eravamo quasi abituati a sentirne. Non altrettanto positiva può essere però la lettura del secondo elemento che sta alla base di una percezione immediata del problema non corrispondente esattamente alla sua realtà: la considerazione cioè delle motivazioni degli abbandoni. Quasi spontaneamente quando parliamo di queste persone diciamo che la motivazione che le ha spinte a decidersi è legata alla scelta celibataria, dunque alla sfera affettiva e sessuale. Facciamo riferimento alla fragilità emotiva ed affettiva che contraddistingue le giovani generazioni, e riteniamo che così molto possa essere spiegato delle decisioni di chi lascia il ministero. Quando poi in realtà ripercorriamo le storie personali, quasi sempre dobbiamo constatare che non era quello il vero problema, o almeno che esso ha fatto da catalizzatore di una ben più diffusa problematicità, legata alla solitudine in cui si è lasciati, alla mancanza di un riconoscimento sociale nello svolgimento del proprio ministero, alla poca sensatezza che si riesce a trovare nelle cose che si è chiamati a fare quotidianamente, alla mancanza di dialogo tra presbiteri e con il proprio vescovo. Quasi mai la motivazione determinante è – da sola – quella affettiva. 

 

I nodi problematici 

La riflessione che ne consegue è che la dimensione affettiva diventa problematica spesso in presenza di altre difficoltà, e quasi mai da sola. La ricerca di una integrazione affettiva interviene dopo che la persona ha cominciato ad interrogarsi dolorosamente sul senso vero della propria vita presbiterale che comincia a cogliere come insensata, troppo faticosa, condotta spesso in una situazione di solitudine e isolamento, continuamente sollecitata da infinite questioni, piccole e grandi, che non sempre hanno un vero legame con il proprio ministero. È il vuoto esistenziale spesso ad accendere il bisogno di un affetto, e non viceversa. La destabilizzazione nella vita di tanti giovani presbiteri inizia frequentemente dalla mancanza di un riconoscimento sociale e culturale della propria presenza, a cui inizialmente si cerca di rispondere con la ricerca di motivazioni e titoli che giustifichino – ai propri occhi prima che agli occhi degli altri – il senso di ciò che si fa e si è. Ma questa ricerca di punti di appoggio (si tratta spesso di lauree, riconoscimenti accademici, incarichi ecclesiali ritenuti prestigiosi, ecc.) a volte è condotta insieme ad una contemporanea e progressiva separazione dagli ambienti vitali, dalle persone, dalla vita, che in realtà non fa che peggiorare le cose. 

 

Una riflessione 

Se la ricerca di un legame affettivo giunge spesso dopo che per tanto tempo ci si è indeboliti e intristiti su altri versanti, forse la vera questione è aiutare le persone a non arrivare fino a quel punto, fino cioè a sentire la necessità di un’altra persona su cui appoggiarsi emotivamente ed affettivamente. A non giungere fino a quel crinale aiuterebbe molto creare occasioni semplici e profonde, non superficiali, in cui raccontarsi, parlando di sé concretamente e profondamente. 

Nel contesto ecclesiale del sud, in cui non è ancora completamente radicata la tradizione delle case canoniche, situazione che spesso fa rimanere il presbitero nella propria famiglia d’origine, con i propri genitori sempre più anziani, senza che sia favorita la nascita di esperienze comunitarie, la solitudine del prete è ancora un problema. E in questa situazione ad infrangere la solitudine e a creare occasioni di dialogo e di comunicazione spesso sono solo gli incontri di formazione e aggiornamento tra presbiteri, a livello diocesano nelle realtà più piccole o vicariale in quelle più grandi. Lavorare sulla loro qualità vuole dire dunque andare a toccare i bisogni profondi di chi in essi trova ancora l’unico alimento al proprio ministero. Non basta, negli incontri tra presbiteri, rimanere su contenuti generici, che mai vanno ad interferire con le proprie situazioni vitali, né è sufficiente declinare oggettivamente le questioni del nostro aggiornamento, senza mai uscire da quell’eccessiva intellettualizzazione che sembra ancora caratterizzare la nostra formazione. Raccontarsi, condividere le proprie difficoltà, aiutarsi reciprocamente a prendere contatto con il proprio mondo emotivo, anche quando esso è doloroso perché frutto d’esperienze deludenti, tutto questo aiuta a rigenerarsi nella speranza, a trovare incoraggiamento e sostegno nelle varie situazioni formative, che al contrario rimarrebbero solo appuntamenti istituzionali e inutili, incapaci di incidere significativamente sulla propria vita. 

 

 

Due parole ultime e inconclusive 

La considerazione del fenomeno degli abbandoni del ministero ci mette davanti a delle persone concrete prima che ad un fenomeno da studiare. Ed è la complessità del mistero personale ad impedirci, è quasi banale dirlo, di pronunciare parole conclusive e definitivamente chiare su queste storie personali. Sollecitati da questa complessità, proviamo a dire due ultime brevi parole. 

La prima è che con decisione dobbiamo tornare a fare una proposta forte di spiritualità. E questa consapevolezza fa bruciare ancora di più la sensazione – nata da anni di osservazione accorata del nostro contesto ecclesiale –, che oggi nelle nostre Chiese non ci siano molti e significativi maestri di vita spirituale. Il compito della comunità cristiana è sempre lo stesso: accompagnare le persone, anche le persone consacrate – e sin dagli anni della formazione – a sapersi mettere correttamente con la propria coscienza davanti al Signore, in un atteggiamento d’autenticità ed umiltà, capaci d’ascolto della sua Parola e di risposte radicali d’amore, disposti a lottare per non perdere questo legame libero e amante con Dio. Il primato della spiritualità è educazione all’ascolto delle Scritture, alla lotta spirituale, ma anche primato della vita di pensiero, perché una persona adulta non sarà mai felice se non coglie il senso delle cose che quotidianamente fa, e questo senso non è percepibile senza una continua e dinamica capacità di riflessione. Forse dobbiamo tornare di più, e meglio, a fare il nostro mestiere di accompagnatori spirituali! Ci sembra di cogliere dietro le storie degli abbandoni la necessità di una maggiore attenzione alla dimensione spirituale della vita cristiana, intesa in un senso non riduttivo ma globale, come capacità di leggere integralmente, in uno spirito di fede, la propria dimensione umana, creaturale, le proprie dinamiche affettive e relazionali, la propria storia e quella del mondo, portando tutto davanti al Signore e lasciando che a tutto siano donate dalla sua rivelazione sempre nuove dimensioni di senso. Le situazioni di grande complessità come quella che viviamo noi oggi chiedono di sapere tenere ben fermo l’essenzia-le, per evitare la dispersione inconcludente e lo stemperamento di tutto. E per noi l’essenziale è la fede in Gesù Cristo, il legame personalissimo ed intimo con lui. 

La seconda ed ultima riflessione nasce dalla considerazione che le persone che abbandonano il ministero non sono molte per fortuna, almeno non quante sembrerebbero in una prima generale considerazione. Dal punto di vista quantitativo, dunque, la cosa è certamente meno preoccupante di quanto lo sia stata nei decenni appena trascorsi. Ma proprio l’ascolto più attento di queste storie personali deve metterci in allarme, perché le questioni che ne emergono sono profonde, e giungono a toccare aspetti centrali del ministero stesso: la sua stessa fisionomia e sensatezza; la vita e le relazioni nel presbiterio diocesano; il rapporto tra i presbiteri e il vescovo; la necessità di comporre la dimensione individuale del ministero con una più diffusa e condivisa responsabilità comunitaria; le modalità dell’esercizio del presbiterato in un contesto che va mutando rapidamente e che ormai riconosciamo tutti aver determinato una situazione della Chiesa di minoranza rispetto alla società civile; la necessità che di fronte a queste complessità siamo tutti più capaci di tenere fermo l’essenziale, e cioè la dimensione spirituale della vita presbiterale, che è innanzitutto vita di una persona credente e capace di legarsi a Cristo nella fede e nell’amore; ma anche la capacità di declinare questo essenziale in tante situazioni diverse, spesso problematiche, assumendosi il rischio di gestire e interpretare le acquisizioni degli anni del seminario nei nuovi contesti di vita dopo l’ordinazione. Insomma i problemi di chi lascia il ministero sono in realtà i problemi che tutti vivono, i problemi anche di chi resta. In qualche modo, dunque, questi fratelli che hanno abbandonato il ministero ci sono d’aiuto, almeno nel senso che sollecitano a saper guardare con più attenzione e lucidità alle grandi questioni che ci sono davanti e alle quali dobbiamo saper metter mano perché la grande ricchezza che ci è posta tra le dita – il nostro ministero – sappia fiorire anche in questo nostro tempo bello e difficile.