N.06
Novembre/Dicembre 2005

Cittadinanza – missionarietà e vocazioni 

 

All’inizio di questa traccia di riflessione propongo alcune provocazioni prese dal documento il preparazione al Convegno ecclesiale di Verona: 

“La missionarietà della Chiesa non ha lo scopo di dire altro o di andare oltre Gesù Cristo, ma di condurre gli uomini a Lui. Il modo è uno solo: una relazione spirituale, capace di trasformare la vita personale e sociale”. 

“La missionarietà deve essere culturalmente attrezzata, se vuole incidere nella mentalità e negli atteggiamenti. La società in cui viviamo va compresa nei suoi dinamismi e nei suoi meccanismi, così come la cultura va compresa nei suoi modelli di pensiero e di comportamento… Se ciò venisse sottovalutato o perfino ignorato la testimonianza correrebbe il rischio di condannarsi a un’inefficacia pratica”. 

“Ogni cristiano è chiamato a collaborare con gli uomini e le donne di oggi nella ricerca e costruzione di una civiltà più umana e di un futuro buono. Questo comporta il dedicarsi ai frammenti positivi di vita, custodendo però la tensione verso la speranza escatologica che non può mai essere del tutto esaudita”. 

Tra i vari ambiti elencati incontriamo l’ambito della CITTADINANZA come appartenenza civile e sociale degli uomini: “Tipica della cittadinanza è l’idea di un radicamento in una storia civile, dotata delle sue tradizioni e dei suoi personaggi, e insieme il suo significato universale di civiltà politica”

 

Cittadinanza

Sull’idea di cittadinanza si debbono considerare schematicamente due visioni: 

1) la cittadinanza in funzione dei diritti, cioè come possesso di intitolazioni; 

2) la cittadinanza come stimolo verso la capacità di agire. Le politiche del welfare state vengono viste come promozione dell’agire, dello stimolo verso l’autonomia, dello sviluppo, della capacità di essere protagonisti della propria esistenza personale e sociale. 

Queste due versioni della cittadinanza, l’un’incentrata sulla garanzia di protezione e di beni indispensabili, l’altra fondata sullo stimolo all’azione, all’essere protagonisti, debbono essere integrate da una terza visione di cittadinanza: cittadinanza responsabile

Essere cittadini è avere diritti, ma è anche esercizio di interessamento per l’altro, cura per il prossimo, responsabilità per il debole. La cittadinanza è, in questa prospettiva, cittadinanza relazionale… in quanto attiva un principio di responsabilità di ciascun membro della collettività. 

L’acquisizione dei diritti, in quanto beni connessi all’avere o all’agire, si dà nella misura in cui vi sono soggetti che si sentono responsabili nei confronti di coloro che quei beni non li possiedono. Chi non possiede quei beni non è cittadino, ma nemmeno lo è colui che non ha a cuore la cittadinanza dell’altro. Dunque la cittadinanza responsabile è la cittadinanza che va promossa nella società globalizzata del terzo millennio. 

Se vogliamo promuovere una nuova cittadinanza nella società globalizzata – assieme a quei valori che possiamo chiamare i valori dei diritti – dobbiamo anche promuovere i valori della responsabilità identificabili nella triade: generatività, alterità, libertà per

– La generatività, intesa come il corrispondente della fraternità. L’idea è che non vi possa essere una società di fratelli senza che vi sia una società di genitori. Generatività in senso non solo biologico, ma soprattutto educativo e simbolico. Generare significa generare uomini e donne, farsi “pescatori di uomini”, aiutare gli uomini e le donne a crescere, a conquistare la propria dignità, il proprio posto nel mondo. 

– L’alterità integra il valore dell’uguaglianza. Levinas invita a farsi servitori, schiavi dell’altro, a stabilire la signoria del volto dell’altro. L’altro non è l’altro da dominare, ma l’altro da incontrare. 

– La libertà, nel contesto moderno è stata recepita nei termini di libertà da (dai vincoli, da limiti, dalle relazioni, dal territorio, dalle radici). Questa libertà da va ora rivisitata e arricchita dalla libertà per, una libertà che oltre a voler sfuggire limiti, influenze e condizionamenti, diventa libertà costruttiva, generatrice di progetto, alimentante la creazione. Nella libertà per si recupera quella relazionalità che fa essere l’uomo un cittadino responsabile. 

 

 

Missionarietà = abitare

 

Abitare deve diventare stile e atteggiamento che ci spinge oltre le mura della propria abitazione, della propria comunità, per un educarsi più ampio, più aperto, più vero e più umano. 

 

a) Abitare il tempo

Capacità di ricordare, di conservare memoria e di vivere nell’oggi, senza rimpianti e senza inutili voglie di tornare indietro. Abitare il tempo per evitare il rischio delle sole mode, dei soliti schemi tradizionali e ripetitivi, per tradurre nell’oggi i valori di sempre, per non sottrarre ai giovani il loro futuro.   Perché abitare il tempo vuol dire anche progettare il futuro, organizzare la speranza. Anche su questo saremo alla sera della vita, interrogati.

 

b) Abitare la politica 

Sforzo comune per individuare strategie condivise per il bene comune, politica è anche progettare, è servizio della carità. Abitare la politica educa ad uscire di casa, ad allargare la nozione stessa di abitazione, per fare in modo che nessuno si trovi senza riparo, senza diritti e senza garanzie inalienabili. 

 

c) Abitare il territorio 

Con la stessa semplicità, determinazione e grinta che ci ha insegnato Don Pino Puglisi (3P), ucciso dalla mafia perché “troppo” sulla strada, a fianco dei ragazzi svantaggiati. Non producono giustizia le sterili scorciatoie del difendere, del barricare o dell’allontanare chi vive povertà e sofferenze. È indispensabile, al contrario, andare a cercare chi è in difficoltà. Solo così i nostri territori torneranno ad essere abitati, accoglienti e giusti perché umani.

 

d) Abitare le chiese 

Tanto più la comunità cristiana vive giustizia e solidarietà tanto più la celebrazione dei sacramenti è vera, è viva. Abitare la chiesa diventa l’invito a uscire dalle sacrestie, dai sagrati o dagli accordi con i potenti, per stringere alleanze inscindibili con i poveri di ogni tempo, di ogni latitudine. 

 

e) Abitare i luoghi dell’esclusione sociale e della marginalità 

Essere dove è più scomodo presenziare. Dove sono meno possibili passerelle e dove la negazione della dignità umana è più pesante, più eloquente. Abitare la marginalità e l’esclusione non interroga solo il non facile compito della condivisione e della prossimità. Interroga anche l’altrettanto doveroso ed urgente servizio della formazione, dell’informazione, dello studio, dell’approfondimento e della competenza. Dio ci invita ad abitare la strada, ci attende su questa strada per umanizzare la nostra vita e per rendere vero il percorso della giustizia. Vuol dire capire interiormente il senso delle beatitudini. 

Concludo questa seconda parte con questo interrogativo: La missione continua a concepirsi come risposta al comando di portare il Vangelo agli altri. Non sarebbe tempo che sentissimo la missione come impegno di portare noi agli altri, per condividere con essi il dono prezioso che abbiamo gratuitamente ricevuto? 

 

 

Vocazione = servire la vita del mondo a partire dall’incontro con Dio

 

– Passione per Dio e passione per l’uomo è ciò che talvolta ci manca oggi, è ciò che, certamente, i nostri fratelli e le nostre sorelle si aspettano da noi. 

– Coraggio e creatività: questo è ciò che chiede il mondo e la stessa Chiesa. Coraggio e creatività che partano da un discernimento sereno e, insieme, evangelicamente audace, che ci porti non solo a contemplare la nostra storia, per grandiosa che sia, ma a costruirla. Coraggio e creatività che suppongono uno sforzo costante da parte nostra non solo per concentrarsi sulla chiarificazione teologica della nostra identità (ortodossia) ma che sfoci in nuove forme, in nuove strutture (ortoprassi). 

– Centrarsi, concentrarsi e decentrarsi sono i tre grandi movimenti essenziali per una rinnovata vita consacrata. Centrarsi: “avere il cuore rivolto al Signore”, deve essere la priorità delle priorità. Concentrarsi: sull’esenziale per evitare la frammentazione e la dispersione. Decentrarsi: per uscire verso il mondo e per testimoniare e proclamare che solo Lui è l’Onnipotente, coscienti di non essere chiamati a vivere per noi stessi, ma per gli altri. 

 

Mons. Italo Castellani parlando della VC e pastorale parrocchiale mette in evidenza l’importanza di partire dal territorio che lui definisce “giardino di Dio affidato all’uomo”, rivolgendosi ai consacrati dice: “I consacrati sono chiamati oggi a vivere la propria vocazione e missione nel giardino di Dio che è la Chiesa locale, porzione del popolo di Dio ove mettere a frutto il proprio carisma. Nella logica e nello spirito dell’incarnazione i consacrati non coltivano una spiritualità senza territorio: donati al territorio, amano il territorio, la gente che in esso vive… La spiritualità del territorio interpella i consacrati e le comunità consacrate in relazioni e stili di vita nuovi”

Alle parole di Mons. Castellani fanno eco quelle della “Gaudium et spes”: “È dovere della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche”. 

La globalizzazione è certamente uno di questi segni dei tempi. Che cosa dice alla vita consacrata? La risposta viene da una laica, si tratta della dottoressa Ingeborg Gabriel, dell’Istituto di etica sociale dell’università di Vienna. La relatrice afferma che la globalizzazione chiede ai religiosi di tenere presenti tre grandi prospettive che la caratterizzano. 

La prima di queste è l’intreccio di relazioni e di interdipendenza: la complessità dei problemi e l’ampiezza delle strutture richiedono un supplemento di comunicazione e di unione, di collegamento. Ciò significa che se oggi uno vuole agire non può più farlo da solo. È necessario pertanto riflettere su come unire le forze e promuovere la collaborazione tra i vari istituti e inoltre vedere come giungere a uno scambio di esperienze in un contesto ecumenico e interreligioso anche con persone che hanno una visione umanistica del mondo. La seconda prospettiva è il cambiamento radicale. Ogni cambiamento richiede coraggio e disponibilità all’innovazione (cosa che a suo parere nella Chiesa oggi è molto debole). La terza prospettiva è la frammentazione di un mondo bisognoso di unità e riconciliazione. È un’unità che affonda le sue radici nella comune ispirazione cristiana e che chiede a livello sociale come a livello ecclesiale, un continuo cammino di conoscenza reciproca aperto ad una maggiore condivisione dei valori di ciascuno. 

Un bellissimo incoraggiamento ci viene da Amedeo Cencini: “Imparate a «prendere parte» alle vicende di questa umanità, liete o tristi; imparate soprattutto a riconoscere nei suoi desideri, nelle sue lotte, attese, domande…; abbiate uno sguardo benevolo verso le sue realizzazioni e abbiate comprensione per le sue debolezze; non disprezzate il naturale desiderio di felicità dell’uomo e prendete parte, se possibile, alla sua festa… Esprimete la gioia di camminare insieme, come fratelli, senza l’aria di chi ha soltanto da insegnare e finisce per diventare un beccamorto impermeabile alla gioia, ma con la liberà di chi vuole imparare dall’altro… Imparate ad andare voi incontro per primi agli uomini e alle donne del nostro tempo, ovunque essi si trovino e a qualunque cultura appartengano, senza aspettare di essere cercati. Non fate gli offesi quando il mondo sembra non capirvi, e per nessuna ragione tagliate i rapporti. Amate questo mondo e questa umanità d’affetto sincero e profondo: non dimenticate che siete «davanti a Dio per il mondo», come Mosè e i profeti, non per la vostra perfezione…”

“Teniamoci stretto il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce che il mondo ha imboccato. Noi siamo delle frecce stradali, delle frecce che indicano l’ulteriorità, spine dell’inappagamento conficcate nel fianco del mondo per richiamare il mondo: “MA TU CHE STRADA STAI CAMMINANDO?”. Abbiamo soltanto il potere dei segni” (Don Tonino Bello, Cirenei della gioia). 

 

Partendo dalla specificità del proprio ambito, individuare: 

– Quali provocazioni per la pastorale vocazionale? 

– Che cosa annunciare nell’ambito in questione (quali contenuti dell’annuncio)? 

– Come annunciare la vocazione testimoniando (quale metodo)? 

– A quali condizioni nella pastorale vocazionale della chiesa locale (quali criteri, presupposti)? 

– Quale testimonianza dei consacrati nell’ambito in questione può essere vocazionalmente significativa, dunque capace di suscitare domande/risposte vocazionali? 

 

Bibliografia 

AMEDEO CENCINI, Quando Dio chiama. La consacrazione: scommessa e sfida per i giovani d’oggi, Edizioni Paoline. 

MARCO ORSI, Educare alla responsabilità nella globalizzazione, EMI 

LUIGI CIOTTI, Una chiesa dei poveri o una chiesa povera?, Ed. Gruppo Abele (EGA) 

 

 

Il gruppo del quinto ambito era un gruppo universale, grazie alla presenza di religiose provenienti dall’India, dall’Eritrea, dal Brasile e dalle Filippine. Prima della preghiera ci siamo presentati attraverso il nome e una password che rispecchiasse il proprio cammino e la propria persona. 

In questo modo ci siamo posti davanti a Dio con la propria storia e la propria identità. Come primo passo è stato chiesto ai partecipanti di esprimersi sul concetto di cittadinanza ed è emerso che la cittadinanza richiama: appartenenza, responsabilità, identità, condivisione, essere riconosciuti, libertà. 

Nel secondo passaggio è stata letta una riflessione sull’idea di cittadinanza e sono state colte le seguenti provocazioni: entrare nella città mantenendo sempre il contatto con Dio. Un entrare per imparare dall’altro per poter incontrare l’altro; riconoscere l’altro nella sua vera identità. Camminare insieme, farsi vicino nella sincera amicizia, non operare per una propria vanagloria o per il proprio ordine religioso. Quanto siamo capaci di essere mediatori-testimoni della parola annunciata da Cristo? 

Il terzo passaggio è avvenuto sulla missionarietà e vocazione. Le provocazioni emerse sono le seguenti: ESSERE NOI STRUMENTI AUTENTICI DELLA PAROLA. Se siamo strumenti riusciamo allora ad essere disponibili nell’ascoltare le necessità della città per essere più incisivi sulla domanda che emerge dal cuore della gente. Questo comporta un coinvolgerci nella città e Chiesa locale attraverso una partecipazione semplice e affettuosa, che sappia adattarsi alla realtà dove viviamo per vivere il mondo come una casa, la Chiesa locale. Tutto questo chiede una grande conversione personale e comunitaria. Tanto sarà il grado della conversione tanto saranno i frutti che matureranno nei singoli carismi. 

 

Quale testimonianza significativa?

– Essere presenza capace di essere letta dal giovane che incontro. 

– Testimonianza comunitaria come segno di unità e di partecipazione alla missione di Cristo. 

– Imparare a prendere parte alle vicende di questa umanità, lieti o tristi. 

– Persone capaci di creare comunione anche fuori dalla comunità, questa è una sfida per quei giovani che fanno fatica ad essere gruppo. 

– Armonizzare i carismi nella diocesi, evitare di fare una Chiesa nella chiesa. Mettersi al servizio facendo sempre più spazio all’altro. 

– Una rinnovata attenzione della Chiesa locale delle immense ricchezze che provengono dal mondo di speciale consacrazione. 

 

“Esprimete la gioia di camminare insieme, come fratelli, senza l’aria di chi ha soltanto da insegnare e finisce per diventare un beccamorto impermeabile alla gioia, ma con la libertà di chi vuole imparare dall’altro” (Amedeo Cencini).