N.01
Gennaio/Febbraio 2006

Giovani senza speranza?

Senza addentrarmi in letture che sono state fatte molte volte ampiamente in altri contesti e con maggior competenza prima di me, mi basta ricordare come tutti noi viviamo nella società della crisi delle certezze, dove tutto si muove e nulla è stabile a cominciare dai valori che sostengono la vita di una persona. Viviamo in una società che via via che passano gli anni e trovandosi di fronte a nuove e straordinarie sfide, perde sempre più la fiducia nella scienza e nella tecnica, si ripiega su se stessa e fa fatica ad alzare il capo per scorgere un futuro migliore. I segnali che ogni giorno provengono fin dentro alle nostre case ci spingono a convincerci che viviamo in un mondo che sembra essere sempre meno umano, e dove tuttavia tutti i bisogni e le attese devono essere appagate nel minor tempo possibile. E se questo momento presente è così duro e incerto per gli uomini che prendono sul serio la vita, sembra esserlo in modo particolare per chi vuole viverlo alla luce di un ideale. 

Eppure esiste un motto popolare che dice: “La speranza è l’ultima a morire”, oppure “Finché c’è vita c’è speranza” ma anche “La speranza non muore mai”, che dichiara in modo intuitivo, un nesso tra vita e speranza. Una non può stare senza l’altra, anzi la speranza cerca di combattere la morte fino all’estremo, fino a far balenare l’idea che laddove c’è speranza non c’è morte. È un dinamismo straordinario, la speranza: è la spinta a guardare in avanti, al domani, con la persuasione incerta ma allo stesso tempo fiduciosa, che il domani possa essere migliore, che c’è del buono, del bello che deve arrivare, anzi che è già presente e che richiede di essere riconosciuto e fatto crescere. 

Chi lavora a contatto continuo con i giovani, condividendo i loro sogni e progetti, le loro paure e i traguardi raggiunti, l’impegno e le infedeltà, gli amori e le ferite, si accorge che davvero la speranza non muore, ed è tangibile in una miriade di comportamenti, di scelte, di stili che, se accompagnati, si trasformano sempre più in atteggiamenti stabili. 

C’è una frase di Giovanni Paolo II che mi ha sempre colpito detta in occasione della veglia a Tor Vergata nel 2000 davanti ai due milioni di giovani che erano venuti a vivere la XV GMG: “Voi, cari amici, sarete all’altezza delle sfide del nuovo millennio”. 

I giovani, nonostante molti tra gli adulti e anche tra gli educatori li vedano ancora come un problema e una preoccupazione, possono essere all’altezza delle sfide del nuovo millennio, ma per essere convinti di ciò, a noi adulti è chiesto innanzitutto di guardarli con uno sguardo di fiducia, di stima, di benevolenza, perché senza questo sguardo non è possibile da parte di nessun educatore vedere in loro le risorse specifiche e insostituibili della loro età, la loro capacità di sperare e di essere quindi segni di speranza all’interno della società civile come in quella ecclesiale. Individuare questi segni, ci permette di non cadere in letture nostalgiche o apocalittiche del mondo giovanile e ci consente di decidere quali prassi educative, approcci, proposte e quali itinerari condividere affinché ognuno di loro possa vivere in pienezza la propria vita e realizzare la propria vocazione. 

È vero che nel mondo giovanile sono presenti anche alcune ambivalenze che sono i riflessi della società più ampia di cui pure i giovani fanno parte e di cui diventano i principali rappresentati e nello stesso tempo le prime vittime. Ma pure in questo ogni educatore è chiamato a riconoscere queste ambivalenze, e soprattutto a saper distinguere i segni positivi, che hanno bisogno di una purificazione per essere letti come segni di speranza e risorse da sviluppare. È questa una sfida impegnativa e quotidiana che spetta ad ogni educatore se vuol essere definito tale. 

Leggo allora la capacità di sperare dei giovani nel loro modo di vivere i grandi eventi di fede e di Chiesa nonostante emergano elementi di grande spettacolarizzazione che creano quel desiderio, quasi ansioso, del voler esserci per non sentirsi esclusi; o forti elementi di emotività e suggestione che possono allontanare da un solido rapporto di fede. Prendendo in considerazione l’ultima GMG a Colonia, possiamo, infatti, dire come i giovani sono arrivati numerosi e desiderosi di vivere una forte esperienza di fede, d’incontro con il Risorto senza annullare nulla della loro umanità. In questo vedo un segno di speranza che i giovani, a differenza di tanti adulti, desiderano e chiedono di vivere l’incontro con il Signore con tutto loro stessi, dove nessuna dimensione della loro esistenza deve essere lasciata fuori. Desiderano per se stessi e dicono a tutto il mondo che con il Signore ci si deve coinvolgere testa, cuore e viscere per non ridurre quella relazione ad un’idea, ad una formalità da sbrigare, ad un santino da tenere dentro al portafoglio a cui chiedere la grazia in caso di necessità, a una mera pratica di riti da vivere solo un giorno alla settimana. I giovani dicono con il loro atteggiamento il bisogno, ma anche la capacità di incontrare un Gesù vero, vivo, che si incontra nel proprio essere uomo o donna, attraverso le dimensioni fondamentali e irrinunciabili dei propri sentimenti, emozioni, stati d’animo e soprattutto nel vivere le relazioni umane concrete. Gesù, sembrano dire i giovani a tutta la Chiesa, o l’incontri con il cuore, con tutto te stesso e nelle relazioni concrete o non lo incontri! E Gesù lo puoi far conoscere ad altri solo attraverso la tua vita, la tua concreta esperienza che hai fatto di lui, puoi contagiare gli altri solo così, altrimenti la tua fede sarà sempre sclerotizzata, paurosa, grigia e insignificante. 

Vedo i giovani che sperano quando mi incontro con coloro che hanno fatto la scelta di appartenere alla realtà ecclesiale attraverso un gruppo, senza vergognarsi, amando e servendo la Chiesa, anche quando si accorgono delle sue rughe e cercando di ringiovanirla, attraverso la loro partecipazione. 

Penso a tanti giovani appartenenti ad associazioni e movimenti ecclesiali che, scegliendo di incontrarsi per condividere un ideale comune e uno stile di corresponsabilità laicale nella Chiesa, fanno prima di tutto una scelta controcorrente rispetto a quell’individualismo di massa che dilaga sempre più nella società e che è sempre più presente anche all’interno delle comunità cristiane e che Benedetto XVI durante l’ultima GMG ha definito come la “religione del fai da te”. 

Sono giovani che sanno sperare perché si appassionano alla ferialità del cammino di fede, quella che, passato il grande evento emotivo, si coltiva e si vive nell’ordinarietà della vita magari povera, semplice della propria comunità, ma non per questo meno importante. Sperano perché sono giovani che non si scoraggiano di fronte alle difficoltà che inevitabilmente si trovano in parrocchia o al gruppo, perché non mollano se non c’è il parroco “alla moda”, se non ci sono gli effetti speciali, ma sanno “stare dentro”, cercando d’essere strumenti di comunione, portando il dono della loro giovinezza, riconoscendo e valorizzando le piccole speranze, in particolare quelle che alle volte anche gli educatori e gli adulti rischiano di calpestare. 

Sono giovani che sperano perché insegnano un profondo rispetto per la terra delle proprie radici, perché si sentono portatori di una tradizione di fede, di una storia, che non è né iniziata né terminerà con loro, ma è stata costruita con il contributo del filo di più generazioni che hanno fondato la loro esistenza nella Speranza più grande che va oltre lo spazio e il tempo. 

I giovani sperano anche quando s’impegnano a vivere fino in fondo il presente. Vivere il presente può essere un aspetto alquanto riduttivo dentro ad una progettualità educativa: il volere tutto e subito, la necessità di vivere tutti i momenti in diretta può portare a ripiegarsi sull’istante, sul godere egoistico. Può coltivare l’effimero che viene rafforzato anche con l’estendersi nella comunicazione, dei potenti e affascinanti strumenti della virtualità, mezzi che annullano, soggettivamente e oggettualmente, lo spazio e il tempo e di conseguenza socialmente anche il senso dei luoghi quanto quello della continuità. Ma può dire invece una grande verità: che il tempo che si vive è davvero solo e unicamente il presente. Non è il passato, non è neppure il futuro ma è solo il presente che possiamo vivere, senza fughe, cercando di tenere i piedi per terra, diventando realisti, per superare l’incanto per le utopie e l’idolatria del passato e preparare un futuro migliore. I giovani ci portano ad essere realisti, e ad assumerci le responsabilità a stare dentro a questa vita, non domani, ma ora hic et nunc perché ora è il tempo di grazia, questo è il tempo che ci dona il Signore da vivere fino in fondo. Solo se si vive fino in fondo il presente ci si lascia incontrare dal Signore, che oggi come al tempo dei discepoli, chiama a seguirlo per costruire il suo Regno. 

I giovani sperano nel momento in cui ci dicono che la vita diventa piena, vera, grande, quando la si dona a qualcuno. Vedo in questo tutti quei giovani che fanno scelte di servizio, di volontariato, di carità evangelica per i più poveri. Un servizio dettato dall’amore per i miseri per coloro che sono i più deboli, emarginati e soli, verso coloro che una volta che li hai veramente incontrati, hanno il potere di cambiare la tua vita, di non farti essere più lo stesso di prima. Una scelta di speranza perché va contro lo strapotere dei ricchi, contro una globalizzazione che annienta la dignità della persona e che nega tutti i valori di solidarietà e d’uguaglianza. Sono giovani che dicono che un mondo diverso, più giusto e solidale è possibile, che le professionalità che ognuno acquisisce possono essere utilizzate per una reale crescita di tutta l’umanità, per un bene comune che va oltre il proprio interesse politico e profitto economico. 

Ma sono giovani che sanno sperare anche coloro che si battono per la pace, quelli che fanno della non violenza, della capacità di dialogo il loro motivo di vita, che partecipano a marce, sitting, organizzano dibattiti e partecipano alla vita politica del proprio quartiere, città o paese, perché i diritti fondamentali dell’uomo vengano rispettati. Sperano quei giovani che dopo una vita passata in oratorio, sentono il desiderio di buttarsi dentro con tutto il loro entusiasmo e idealità in un impegno politico più visibile e stabile. Certo nei giovani alle volte, quando si parla di politica, prevale il particolare o si lasciano ammaliare dai localismi, ma questo è pur sempre segno di speranza perché è ancora sinonimo d’interesse verso la politica e può essere letto come provocazione verso una certa politica, incapace di rispondere in modo adeguato alle grandi sfide di oggi, troppo totalizzante e insieme inerme e passiva di fronte a evidenti contraddizioni e ingiustizie, più simile alla somma di tante solitudini che costruzione di vera comunità. 

Di fronte alla massificazione, al borioso tentativo da parte della società di cancellare quell’identità che ci fa essere uomini, pensanti e aperti al trascendente, trovo giovani che non assecondano la pianificazione di costume, non contribuiscono alla diffusione dei luoghi comuni omologanti, non inseguono il successo e i linguaggi della pubblicità, non si adeguano al consenso dei più e ai suoi conformismi, non fondano l’importanza delle persone e delle cose sulla sola notorietà e sul successo esteriore ma hanno imparato a prendere le distanze dalle cose e a riappropriarsi delle facoltà interiori, di quell’interiorità che dà all’uomo piena dignità. Giovani che si sono riappropriati di quello “spatium” interiore, dove spatium è quel termine latino che deriva dalla medesima radice indoeuropea che si riscontra nella parola “spes”, speranza, per lasciarsi incontrare dal silenzio, dalla preghiera e dalla contemplazione di quella Speranza che ha un volto e un nome: Gesù Cristo che travalica i secoli e le terre desolate di questa società. 

Tutti questi giovani che ho incontrato, che incontriamo e che incontreremo, sono giovani senza speranza?