N.04
Luglio/Agosto 2006

Ma i preti, i consacrati, le consacrate sono capaci di amare?

Due indicazioni previe, al fine di comprendere questo breve intervento:

– prima di dire come il cristocentrismo si pone a fondamento della singola persona, mi sembra importante guardare ad alcune emergenze del fenomeno di storie di amore “inceppate” fra i consacrati, tentando una lettura in merito, per tarare meglio la proposta;

– questi appunti intendono osservare la realtà da una prospettiva a lungo termine: dalla situazione della formazione permanente, spingendo lo guardo alla prima formazione e alla pastorale vocazionale

 

Il fenomeno

Ma i preti, i consacrati, le consacrate sono capaci di amare?”. È una domanda che rimbalza sovente dal cuore della gente, non solo quando succede qualche scandalo, ma anche nelle ordinarie faccende quotidiane, che la mettono in relazione con noi. Certo, ci sono tanti splendidi esempi di pastori, consacrati e consacrate, che lasciano una profonda orma di amore, ovunque passano, ma molti, troppi, a cominciare da quelli che sono in dirittura di arrivo della prima formazione, che vengono immessi nelle attività pastorali, fino a quelli di mezza età e ai preti e consacrati/e anziani/e, sovente fanno rimanere perplessi sulla loro vita, per cui la domanda non pare tanto fuori luogo. Attivi, attivissimi, per carità, facendo più di quanto è programmabile, ma senza lasciarsi coinvolgere dalle cose che fanno, pur essendo molto presi da esse. In una giornata si sfiorano decine e decine di situazioni in comunità, nelle attività pastorali e celebrative, senza entrare in relazione vera con nessuno. In pratica, ci si presta per questo o quel compito, senza donarsi quasi mai. È come se ci fosse un foglio di plastica tra la nostra vita ed il nostro ministero o la realtà della nostra consacrazione. Rimaniamo sovente prigionieri ed ingabbiati nell’ossessione del dover essere e dell’immagine da dover mostrare, che ci rende particolarmente ingenui, irrealisti e fragili nelle nostre relazioni, sia in comunità che nel presbiterio e nell’attività pastorale. In un movimento ad altalena tra la fuga da una parte e la ricerca di un rifugio dall’altra: rifiuto di rapporti da un lato e cattura di relazioni gratificanti dall’altra; incomunicabilità su un versante e bisogno continuo di un confronto approvativo dall’altro, col dubbio che mi investe se sono o no un tipo degno di amore e di amabilità, se la mia identità consacrata e/o sacerdotale è sufficientemente sicura, in base a come riesco a dare agli altri un’immagine sufficientemente plausibile e con sufficiente quoziente di gradimento. Sovente, poi, ci ritroviamo in balia di tre mostri nascosti nel nostro cuore: il protagonismo ad oltranza della pastorale gloriosa dell’io, l’attivismo della concorrenza o il narcisismo di una vocazione ridisegnata sulla pretesa che il mondo giri attorno a come penso, vedo e sento io e su uno schema strettamente privatizzato, magari in vista della propria sistemazione. Un cuore dichiarato indiviso per professione e vocazione, che corre il rischio di essere piuttosto di egoismo indiviso,…

E si potrebbe continuare ad elencare situazioni e problemi che, credo, non solo io, ma un po’ tutti incontriamo. 

 

La lettura

Cosa c’è dietro queste situazioni e come coinvolgono insieme la struttura umana della persona nei suoi dinamismi biologici, psicologici, pedagogici e sociali e la dimensione della vita nello Spirito?

La panacea emotiva di base

Nella frantumazione esistenziale in cui viviamo si diffondono sempre più, oltre la moda, l’abitudine e l’esigenza di tratteggiare la propria vita a partire dall’affettività e dalle proprie esperienze emozionali. Ne sono specialisti gli adolescenti ma il fenomeno si sta allargando a macchia d’olio anche nel mondo degli adulti. Con il timore più grande di non riuscire a costruire qualcosa di valido nella vita, soprattutto se non si riesce a costruire una relazione affettiva significativa. E questo nei nostri ambienti spinge a cercare nel presbiterio o nella comunità un nido sicuro o rapporti di amicizia gratificanti, che colmino i vuoti personali di insicurezza e il bisogno di riconoscimento e di immagine. Ma non trovando sovente corrispondenza, subentra un forte deprezzamento della stessa vita fraterna e della comunione sacerdotale e religiosa, (tenuto conto anche del fatto che forse ci sono pochi superiori veramente abilitati in paternità); una vita fraterna che non sa comprendere e soddisfare i propri bisogni affettivi, di riuscita e di realizzazione sognata; un deprezzamento che si traduce in critica dura o nella chiusura nel privato, col rischio di non accettare la propria età e la realtà in cui ci si trova, incarnandosi in essa con quello che si è e con quello che si è chiamati ad essere, magari con fughe all’indietro o regressioni, fatte di ritorno nostalgico alle gratificazioni e alle certezze dei tempi precedenti. Oppure fughe in avanti: di fronte alle difficoltà, si accelerano i sogni di altre situazioni o si rincorrono altre forme di realizzazione. Oppure ancora si cerca rifugio in fughe compensative: abbandono vocazionale, lavoro per non pensare, gratificazioni erotico-sessuali, hobby personali, che occupano sempre più spazio e tempo della propria vita a scapito della missione. 

 

Il problema del credere maturo

Ci si deve sinceramente chiedere se i nostri giovani, e non solo loro, hanno veramente dentro i valori profondi (libertà interiore, rispetto di ogni persona, cura ed educazione della coscienza, attenzione alla coerenza tra pensiero e sentimento, pensiero ed azione, autenticità e spontaneità, …) e, di conseguenza, fanno un’autentica e reale esperienza di Dio e della centralità di Cristo oppure nascondono piuttosto un vuoto spirituale, una specie di pozzo, dove, soprattutto nei momenti duri, cascano nel vuoto, un vuoto che si è portati a riempire solamente di cose esteriori. Per quanto riguarda la fede dobbiamo dire che si arriva alla giovinezza e alla vita adulta con un carico di nozioni, di esperienze e di incontri (= la propria storia di incontro col cristianesimo, il tipo di famiglia, la catechesi, la parrocchia, il gruppo, …) che, volere o no, hanno formato una certa rappresentazione della fede. Insomma, un insieme di esperienze che non si possono ignorare e che condizionano anche la realtà del percepire la chiamata e la fisionomia della risposta nella vocazione. Nel passaggio tra la fanciullezza e la vita adulta c’è un salto naturale ed obbligato per quanto riguarda tanti valori: gli affetti, l’identità, le relazioni con gli altri, la necessaria istruzione e cultura, … Ma per la fede? Continuiamo a costatare quanti adulti sono ancora infantili nel credere! Quattro nozioni imparate nella catechesi della prima Comunione e della Cresima, che sovente vanno a parare nell’abbandono di Dio e della Chiesa (dichiararsi atei oggi fa moda e fa giovane); oppure si trasformano in una fede-copertura del proprio egocentrismo; o, ancora, si trincerano in una struttura di formalismo con una schizofrenia pratica tra definizioni di principio e prassi quotidiana, tra entusiasmi dei momenti forti e disillusione della realtà ordinaria del vissuto personale. Anche in una storia vocazionale di consacrazione tutto potrebbe essere ridotto ad un’impalcatura esterna piuttosto gnostica (= riduzione a pura conoscenza scolastica senza incarnazione concreta nell’esistenza) e piuttosto formale, senza lasciarsi prendere da una vera conversione di appartenenza vitale a Gesù Cristo; senza accettare il rischio dello stare con Lui e della conseguente spoliazione del deserto e della croce.

 

Alcune proposte di intervento

Credo sia importante allora, sia nella pastorale vocazionale che nella prima formazione, mettere in chiaro subito la domanda ambivalente: cosa cercate o chi cercate? Ecco allora due linee di intervento che mi paiono importanti. Dobbiamo prendere coscienza che nel groviglio e nel travaglio contemporaneo il limite tra la fiction ed il mondo concreto si è fatto molto sottile (si è coniata persino un’etichetta per definire questo sistema, il digital life, per cui diventa molto difficile poter dire dove inizia il realismo e dove termina la soggettività del proprio immaginario).Tutto ciò mette in crisi il realismo della vita, con la tendenza pratica ad impedire una valida difesa del vero dal falso, nella percezione del proprio pensare e del proprio sentimento, a scapito della rettitudine di coscienza.

 

Ritrovare ed irrobustire la propria identità di persona nella vocazione specifica

Occorre imparare a mettere ordine nella propria vita, attraverso una guarigione della propria storia con una sufficiente accettazione ed integrazione del proprio passato; occorre scoprire il valore della quotidianità, mettendo ordine nelle proprie giornate, formandosi alla responsabilità ed al realismo della vita, che comprende anche la rinuncia alla notorietà, la perdita, il fallimento e la frustrazione. Occorre, ancora, abilitare ad una capacità di sana critica e di discernimento, per imparare ad integrare cuore, mente e volontà negli avvenimenti e nelle situazioni, in modo da cogliervi le interpellanze continue di Dio. Certo, abbiamo detto che la panacea emotiva ed affettiva di base è una causa molto pesante del fenomeno di storie di amore “inceppate” dei consacrati. Tuttavia questa situazione piuttosto drammatica contiene in sé delle indicazioni preziose, oltre che, naturalmente, delle risorse. Più che nel passato oggi risulta provocatoriamente evidente che senza una relazione affettiva significativa e totalizzante non è possibile realizzare un qualsiasi progetto di vita, per quanto nobile e grande. Non basterà un semplice ambiente sereno o un qualche rapporto di amicizia di sostegno a dare garanzie durature. Ben presto, o si interromperà alle prime difficoltà o sbanderà in derive e forme molto discutibili, se non schizofreniche, di vissuto. Anche per la vocazione consacrata credo valgano le stesse regole. Bisogna maturare una cristologia dialogica, nella quale si coglie l’altro, gli altri, come parte della carne viva di Cristo, e si vive perciò l’esigenza di porsi e di vivere la propria esistenza vocazionale in questa relazione stretta, che congiunge strettamente sia al Cristo che al fratello. Se l’incamminarsi nella vocazione consacrata e/o sacerdotale non diventa una profonda e totalizzante storia d’amore con Cristo, un’autentica nuzialità a tutti gli effetti, ma si riduce e si accontenta di un rapporto di conoscenza nozionale su di lui o di relazioni con lui e con gli altri puramente funzionali – che tante volte fanno parte dei rituali e stereotipi del nostro genere di esistenza – con una certa probabilità si abbandonerà la vocazione, optando per altre soluzioni che sembrano più realizzanti, o si ridurrà la vocazione ad una funzione sociale, se non addirittura a forme devianti di vita. Ed anche il rapporto con gli altri non andrà molto oltre il funzionale, anzi, piuttosto sovente, sarà sfruttato per i propri interessi ed i propri bisogni affettivi o di ambizione.

Strumenti privilegiati per questo irrobustimento sono l’accompagnamento personalizzato, ben equilibrato fra spiritualità e scienze umane, da non limitare solo nella prima formazione e fatto di tanta empatia e comprensione ma, al contempo, di forte esigenza. Un accompagnamento, che dovrebbe aiutare ad accorciare le distanze tra ideale e reale, portando ad accettare il piccolo passo quotidiano, senza demordere o fare sconti sull’ideale stesso. La parte umana di accompagnamento attraverso le scienze umane è ancora troppo disattesa e non è valutata nella sua importanza e l’accompagnamento spirituale, oltre il fatto che spesso è saltuario, è molto aereo e troppo spesso non incide sul vissuto. Infatti, la libertà e la capacità di consegnarsi responsabilmente ed in modo totale a questa storia di amore con Cristo sono molto importanti in relazione all’autenticità della vocazione, mentre l’essere corazzati su se stessi e la troppa paura di esporsi sono sovente indice di scarsa autenticità. Inoltre occorre un impegno vero per formulare e stare ad un serio progetto personale di vita, che non può né deve essere un optional ma una vera esigenza della responsabilità d’impostazione autentica della propria esistenza, per passare da un innamoramento “di cotta” (tutto emotivo) per Cristo alla costruzione paziente del cuore innamorato e plasmato secondo le sue esigenze, le quali hanno il loro banco di prova nell’intrec-cio quotidiano dei propri impegni e nelle relazioni con gli altri. Solo questo cuore innamorato può diventare sorgente di fecondità pastorale e testimoniale. 

 

Preparare ad una cultura dell’interiorità

Si tratta di rendere più ampia, più profonda e più viva la sfera interiore di ciascuno e la posta in gioco della fede, in modo da lasciare più spazio all’azione di Dio nel proprio cuore. Ognuno deve essere concretamente abilitato a trovarsi dei momenti di solitudine con se stesso, per ricuperare se stesso. La passione apostolica autentica non butta subito nell’azione ma, prima di tutto, diventa riflessione interiore e plasma il cuore, per comprendere cosa Dio vuole da noi, dove vuole condurci, per abbandonarci totalmente a lui ed al primato del Vangelo.

Occorre ravvivare potentemente la vita nello Spirito, per una sufficiente ed efficace maturazione nella fede e un’appartenenza viva e reale al Cristo, che faccia assumere in verità la sua forma di vita, fino alla nuzialità: che faccia passare progressivamente da servi (tutti proiettati nelle opere), ad amici (l’ascolto e la Cena, tante volte vissuti solo come momenti a se stanti) ad innamorati (esistenza condivisa nella croce per la risurrezione). Cristo deve essere concretamente il baricentro delle esperienze di vita, cioè il punto centrale di riferimento. E le relazioni con gli altri non sono un qualcos’altro di parallelo, ma il luogo teologico della manifestazione del suo innamoramento donato e del nostro innamoramento ricambiato. Sono ambiti da non dare assolutamente per scontati né da relegare unicamente ad una fase formativa, come quella degli ultimi anni di seminario o di noviziato, sia per quanto riguarda i contenuti di conoscenza che nelle esperienze da vivere, senza ridurre tutto a puri e semplici inviti generici alla preghiera. Occorre cioè non dare per scontata l’adesione di fede nei nostri cammini formativi.

Oggi costatiamo troppo sovente che la motivazione di fede non ha più nessuna presa nel concreto del vissuto. Probabilmente perché non viene rispettata l’articolazione dell’atto di fede, dalla fede ricevuta, alla fede istruita, alla fede celebrata, alla fede vissuta e testimoniata, con una metodologia che sappia prendere in mano il/la giovane e lo/la accompagni nella formazione della coscienza, nella partecipazione attiva alla vita sacramentale, nel senso di appartenenza e di amore fiducioso alla Chiesa, con la consapevolezza che la vita è fatta di responsabilità date e vissute. C’è insomma da verificare il cammino di interiorizzazione, attraverso la capacità di ritagliarsi tempi di silenzio e di preghiera personale, mediante l’esercizio dell’ascolto (lectio divina), dell’adorazione eucaristica e della contemplazione della croce, in modo da arrivare a scodellare naturalmente la vita nella preghiera e la preghiera nella vita, in una dinamica di motivazioni sempre più convinte e generose. Motivazioni proprie di chi sta vivendo una nuzialità piena e totalizzante, nella circolarità di amore indiviso tra Cristo e gli altri, cioè tra Cristo e la Chiesa. In tal modo, probabilmente, si potrà ricuperare la perdita di passione pastorale e guarire da quella crisi di credibilità, che fa dire alla gente: “Ma i preti, i consacrati, le consacrate sono capaci di amare?”.