N.04
Luglio/Agosto 2006

Una vita afferrata da Cristo: la via della mistagogia

Il contributo che offro in questi appunti tiene presente sia la mia personale esperienza di consacrata, sia la centralità della Pasqua, celebrata nei santi misteri, cuore della vita di ogni credente, luogo sorgivo e culmine di ogni vocazione.

Quale definizione di vita consacrata può dar luce ad una pastorale vocazionale che voglia veramente ripartire da Cristo?

Pare quasi ovvia la scelta di mutuarla dall’Istruzione della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata Ripartire da Cristo.

Il documento, uscito nella Pentecoste del 2002, vuole rileggere la vita dei consacrati proprio a partire da Cristo e in Cristo. Nella terza parte ne dà la seguente definizione: è una vita “afferrata da Cristo, toccata dalla mano di Cristo, raggiunta dalla sua voce, sorretta dalla sua grazia”[1].

 

Toccati dalla sua mano

“Questo è il mio corpo. Prendete, mangiate” dice Gesù, tenendo fra le mani il pane in quella che fu, ed è, la “sua Cena”. In ogni Eucaristia noi, nel mistero, celebriamo la Cena del Signore e ci lasciamo raggiungere da quella mano.

Cosa comporta questa certezza per la ricerca del fondamento della pastorale vocazionale?

Indica, anzitutto, una priorità: è nella liturgia, nel cui cuore dimora l’Eucaristia, che dobbiamo pellegrinare. Vi ritroveremo passione per Gesù, atteso e desiderato; ci sentiremo bruciare della sua stessa sete e in-con-per lui ci offriremo per tutti. E poiché l’Eucaristia è celebrazione di una precisa comunità in cui i volti possono essere conosciuti, amati, accolti, è convertendoci sempre più alla Chiesa locale che respireremo la sfida dei fratelli laici e condivideremo la passione apostolica dei nostri fratelli presbiteri.

Andare a scuola dall’Eucaristia. Meglio: prendere forma dall’Eucaristia, entrare in essa ed assaporare il mistero lasciandoci “impastare” dalle mani del Cristo. Accorgerci che non vi è lievito in quel pane, perché è l’eternità stessa che lievita in quei chicchi macinati e offerti.

Ed ancora: guardare quella mano e quel pane per apprendere il linguaggio della concretezza e della semplicità; della fedeltà e del dinamismo. Dalla frequentazione del pane eucaristico scaturisce per noi assenza di pretese e capacità di assumere “ogni forma”. Il pane rimane pane: ma si può plasmare. Non ha paura di lasciarsi impastare il pane: non dobbiamo temere di prende altre forme, di divenire troppo feriali: l’importante è il riferimento alla Mensa. Lì sopra si diventa quello che siamo: “Voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero. 

Voi rispondete Amen a ciò che voi siete”[2]

 

Raggiunti dalla sua voce

Il secondo passaggio della nostra riflessione ci conduce nel cuore della Parola, lì dove fiorisce in evento di grazia. Fin troppo semplice il rapporto vocazione-Voce. Ma chiediamoci, più profondamente: come la Parola, ricevuta nella liturgia, diviene esistenzialmente la cifra interpretativa del nostro essere credente? Come il rito ne è epifania?

È necessario un accompagnamento, una mistagogia, per penetrare nel senso dei gesti e dei simboli liturgici, per scoprire come la ritualità rafforzi in noi le interiori disposizioni ad entrare nell’alleanza pasquale[3]. E vi possiamo entrare con tutto noi stessi, poiché tutta l’esistenza – il lavorare, l’amare, il soffrire, l’incontrare, il riposarsi… – tutta l’esistenza è nella liturgia, in forma simbolica.

Desidero insistere sul registro esperienziale, cerniera tra vissuto liturgico ed esperienza mistica. Il simbolo – così essenziale nel linguaggio mistico – è indispensabile nella liturgia: assume e proietta in una realtà nuova, generata dallo Spirito e segnata dalla Pasqua, colui che partecipa all’azione liturgica. È per questo che ogni celebrazione è inintelligibile senza la Parola, poiché senza di essa non può inverarsi il mistero.

Per “ripartire da Cristo”, dove ascoltare il suo invito se non nella Parola proclamata? Soprattutto nei divini misteri l’orante riceve di nuovo la forma dell’Evangelo, poiché la Parola non gli è consegnata come istruzione per l’intelligenza, ma come cibo per il cuore. Essa è mistero che si incarna, che rende colui che vi partecipa, per la forza dello Spirito, un solo offerente con Colui che si offre. La Parola proclamata si fa storia di ciascuno e offre a ciascuno la possibilità di comprendere se stesso come frammento di quel Pane che solo nella Parola può essere pronunciato, accolto, offerto, consumato.

 

Afferrati da Cristo

Le tappe del pellegrinaggio interiore che abbiamo percorso ci hanno condotto a comprendere come, per l’energia sprigionata dalla complementarietà dei segni posti in essere nell’azione liturgica, tutte le dimensioni dell’esistenza siano coinvolte. Quella mano che ci ha porto il Pane, quella voce che ci ha raggiunto nella Parola ci hanno condotto a rileggere, in chiave di mistero pasquale, tutta l’esistenza. Ciascuno può esprimere la propria gioia nell’Alleluia o il timore nell’implorazione del Kyrie; trovar risposta al proprio bisogno di verità; essere trasportato dalla melodia che traduce in gemiti inesprimibili lo slancio dell’anima.

Ciascuno, ma al prezzo di lasciarsi coinvolgere, di lasciarsi afferrare dal Signore della Pasqua. E questo prezzo, personalissimo, potrà essere pagato senza trovare, sul proprio cammino, un mistagogo?

Se la liturgia costituisce la via per lasciarsi raggiungere da Cristo, come sostenere la libertà di ogni chiamato perché celebri la propria chiamata all’amore? La liturgia, infatti, suppone la comunione di due libertà nell’amore, sapendo che è la volontà di Dio ad avvolgere quella dell’uomo, come è la Parola pronunciata che s’impadronisce di colui che la prega. Colui che salmeggia agisce pronunciando delle parole, ritmandone i versetti secondo il ritmo del proprio respiro, modulandoli saporosamente, pensando al senso di ciò che pronuncia, ma più ancora è investito da una Parola che viene d’altrove; è abbassato o esaltato, rattristato o rallegrato, dalle immagini che lo attraversano, è divorato dalla Parola che mangia, diviene ciò che dice; è trasportato dal carme verso Colui che loda. In una parola: diviene salmo per Dio. «Colui che prega nell’assemblea liturgica è sempre invitato contemporaneamente all’agire simbolico del rito e alla passività del mistero nel quale è introdotto.

La liturgia è il luogo per eccellenza della vita mistica»[4]. Questa è mistagogia. Si tratta di andare dall’Amore e portare altri con sé.

Racconta una sorella che, nella celebrazione della Pasqua, sr Eugenia Picco (beatificata nel 2001 da Giovanni Paolo II) cantava la sequenza Victimae paschali in modo tale che la voce dava colore al dialogo: era l’ansia e poi la gioia e lo stupore di Maria di Magdala a toccare le orecchie e il cuore di coloro che partecipavano alla celebrazione, poiché l’esperienza della fede le aveva modulato la voce[5].

Insistiamo: nei simboli è lo Spirito che agisce e introduce alla novità della Pasqua e così tutto l’uomo è cristificato e a lui si unisce: riceve orecchie per sentire Dio, occhi per contemplare la sua gloria, narici per sentirne il passaggio, bocca per gustare come è buono, mani per implorarlo e lodarlo, piedi per seguire l’Agnello ovunque vada, un corpo da offrire in oblazione[6]. La consonanza tra linguaggio liturgico e mistico è veramente stupefacente. Mutuando i termini dalle catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, diremmo che la théosis, la divinizzazione, si compie e ci rende Christophòroi.

La celebrazione si compie e da itinerario verso l’espropriazione di sé (ascesi) si fa approdo al monte dell’incontro, dove si diviene popolo radunato per poter offrire un sacrificio al Dio che libera. 

 

Sorretti dalla grazia

A poco a poco diveniamo familiari di Gesù e la celebrazione si fa luce nella vita. Viviamo al ritmo di giorni che sono un andare col Signore, un camminare dentro il suo mistero, che diviene nostro, a poco a poco. La Chiesa chiama questo andare di tempo in tempo “anno liturgico”, anno in cui la grazia ci sostiene.

Anno liturgico, incontro con una Persona e una realtà viva: Cristo Gesù e il suo mistero attuato nel tempo[7]. L’anno liturgico è, naturalmente, itinerario vocazionale che ci fa ripartire da Cristo.

Da un Avvento all’altro, l’anno liturgico è un cammino di fede che ci fa vivere il mistero di Cristo dal tempo dell’attesa fino alla sua venuta nel tempo, e fino alla sua gloriosa e definitiva manifestazione alla fine del tempo. Se sapientemente preparato e intensamente celebrato nelle sue varie fasi, è una catechesi viva che obbliga chi è presente a prendere posizione, ad uscire allo scoperto, a fare una scelta. Perché questo avvenga – e può avvenire al di là delle nostre attese – è indispensabile superare il ritualismo, l’abitudine, la superficialità, la fretta; rendere viva, bella e gioiosa la celebrazione. Occorre, soprattutto, essere mistagoghi dei ragazzi e dei giovani che celebrano con noi, nelle comunità parrocchiali, la memoria della Pasqua nel ritmo del tempo.

L’Avvento ricorda e in qualche modo rende presente la lunga attesa del Messia nei secoli che l’hanno preceduto, ci rende capaci di accoglierlo nell’oggi della storia e della vita, e ci fa vivere in anticipo la gioia dell’incontro, quando egli alla fine del tempo verrà nello splendore della gloria. L’Avvento è il tempo in cui dilatare il desiderio, per purificare le attese e farle convergere sull’Atteso, unica risposta ai nostri desideri e a quelli di ogni uomo.

Il Natale ci fa rivivere il momento in cui “il Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne e, generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo” (Prefazio II del Natale). Ed è questo Verbo della vita che le nostre mani hanno toccato e che noi annunciamo perché la gioia di tutti sia piena (cf 1Gv 1,1s).

La Quaresima ricorda e celebra il cammino di Cristo verso la Pasqua e lo rende presente perché anche noi camminiamo con lui verso la Pasqua. Quante scelte da sostenere, rotture da compiere, conversioni da decidere…

La Pasqua, memoria viva dell’evento che sta al centro della nostra fede, nella liturgia, diventa “nostra Pasqua” (1Cor 5, 7). E dalla memoria che ne facciamo scaturisce per noi un’esistenza pasquale, serena nelle difficoltà, testimone di un amore che non si arrende. Un amore che ci rende gioiosi con i segni della passione, mistagoghi di una fede libera e tenace, serena ma non al riparo dal dolore.

E quanto abbiamo contemplato e celebrato nei tempi forti, nel lungo periodo del tempo Ordinario viene da noi percorso con maggiore distensione, per assimilarlo, viverlo, testimoniarlo. Così ci incontriamo con il volto dei santi e di Maria, Madre di Gesù: è sempre nel mistero di Cristo che la Chiesa ce li fa incontrare come fratelli, non solo come modelli da imitare. Ce li offre, infatti, come mistagoghi: i veri mistagoghi perché ormai pienamente presenti all’unico e grande mistero!

È stato scritto che l’anno liturgico è come il pane consacrato nell’Eucaristia: in ogni frammento è presente tutto il mistero di Cristo. Un frammento per ogni giorno, un frammento di pane nella nostra bisaccia, una mano tesa ai nostri ragazzi e potremo così, insieme e ogni giorno, “ripartire da Cristo”.

 

Note

[1] Questa definizione presente in VC 25 e 40 viene ripresa e rilanciata al n° 22 di RdC.

[2] AGOSTINO, Sermo 272.

[3] La liturgia – massimamente la celebrazione eucaristica – è il luogo in cui nasce e cresce la vita cristiana, luogo in cui, attraverso il linguaggio simbolico dei riti, l’esistenza si configura alla Pasqua. Un afflato particolarmente ricco e coinvolgente è nelle parole di J. GÉLINEAU che nell’articolo Liturgie et vie chréthienne, DSAM IX, Paris 1976, pp. 923-927, si sofferma sulla liturgia quale luogo della conformazione a Cristo attraverso la dinamica simbolica dei riti.

[4] J. GELINEAU, op. cit., p. 927. Molto incisivo e completo il contributo di J. CASTELLANO, Preghiera e liturgia, in D. SARTORE – A. TRIACCA – C. CIBIENA, Liturgia, “Dizionari San Paolo”, Milano 2001, pp. 1492-1510. Ribadisce, dopo aver ampiamente documentato il rapporto preghiera personale e liturgia, che ciò può benissimo estendersi alla contemplazione, definita «una forma semplice della preghiera, illuminata dalla fede e accesa dalla carità» cioè di un momento semplice, unitario, fruitivo di Dio. Attribuisce la fatica di giungere a tale unificazione nella preghiera liturgica al fatto che manca la consapevolezza di vivere la liturgia come mistero al quale si partecipa con una forte intensità di vita teologale.

[5] Cf Summarium, p. 99.

[6] Cf GELINEAU, op. cit.

[7] “Nella celebrazione liturgica i misteri della redenzione sono resi in qualche modo presenti a tutti i tempi, perchè i fedeli possono venirne a contatto ed essere ripieni della grazia di salvezza” (SC 102).