N.02
Marzo/Aprile 2007

Il presbitero animatore di vocazioni nell’esercizio della testimonianza. Come?

Il tema di questa tavola rotonda è senz’altro importante, non solo nell’economia del nostro convegno, ma anche e soprattutto per l’intera pa­storale vocazionale. Avere, infatti, una figura di riferimento che possa accom­pagnare il giovane nel cammino di scoperta della propria chiamata è fon­damentale. Se poi questa figura di ri­ferimento è un sacerdote, tanto meglio. Pensavo a queste cose, subito dopo aver ricevuto anch’io quella che po­trei definire sicuramente una chiama­ta, ma – perdonatemi la battuta – con la “c” minuscola. Mi riferisco all’invito di don Luca Bonari – che ringra­zio – per coordinare la tavola rotonda di questo pomeriggio. Non so perché mi abbia scelto, probabilmente a mo­tivo del fatto che da ormai una decina d’anni anch’io partecipo al vostro con­vegno e ne scrivo su Avvenire. Ma giacché questo è un momento che si basa sulle esperienze, vorrei offrirvi brevemente anche la mia.

Come potete immaginare, dato il mio lavoro di vaticanista del quotidia­no cattolico, ho frequenti contatti con i sacerdoti e i religiosi. E il mondo vocazionale non mi è affatto estraneo. Ma l’esperienza di cui vorrei parlarvi mi deriva soprattutto dalla collabora­zione che – fin dall’inizio del nuovo sistema – intrattengo con un Ufficio particolare della CEI: il Servizio per la promozione del sostegno economi­co alla Chiesa. In questo Ufficio non ci occupiamo solo dell’otto per mille, ma anche delle offerte per i sacerdoti. E il mio compito, in particolare, è quel­lo di curare una rivista che si chiama “Sovvenire” (credo che molti di voi la ricevano a casa) e che viene spedita a tutti coloro che con le loro donazio­ni contribuiscono al sostentamento del clero. Qualche mese fa abbiamo rivol­to ai nostri lettori un invito: scrivete le motivazioni che vi inducono ad ef­fettuare le offerte. Ebbene, la risposta è stata molto positiva sia in termini quantitativi (con moltissime lettere ar­rivate in redazione), sia per la qualità degli scritti. Soprattutto, come riflet­tevo preparandomi a fare il moderato­re di questa tavola rotonda, c’è un ele­mento che colpisce e che emerge dal­la stragrande maggioranza delle lette­re: la motivazione che più induce a fare le offerte è la capacità dei sacerdoti di esserci accanto nei momenti più im­portanti della nostra vita. Negativi o positivi che siano. La loro parola, il loro consiglio, il loro conforto, il loro incoraggiamento è cercato e gradito. E produce effetti davvero interessanti.

Non so se questo elemento potrà essere utile alla nostra riflessione a più voci, ma lo offro a tutti – ai relatori come alla platea – perché ne tengano conto. A me sembra, infatti, che in questo atteggiamento diffuso tra la gente ci sia già un primo indizio della bontà dell’assunto di partenza. E cioè che l’accompagnamento dei sacerdo­ti sia un elemento indispensabile per far sbocciare nuove vocazioni. Se poi a questo indizio se ne aggiungeranno altri, sicché diventi una vera e propria prova, ce lo diranno i nostri amici, ai quali cedo volentieri la parola.

 

Sr. Cristiana Cartacci

Fin da bambina sono stata legata alla figura dei sacerdoti, perché sono cresciuta in parrocchia. Grazie ad alcuni di loro, col passare del tempo, ho scoperto la tenerezza e l’amore di Dio e ho capito quale fosse la mia vo­cazione. Posso testimoniare che il Si­gnore mi ha fatto incontrare la “guida” giusta per ogni momento del mio cam­mino!

Ricordo che il primo accompa­gnamento spirituale l’ho vissuto attra­verso il sacramento della Riconciliazione: ero ancora adolescente e la pa­zienza, la delicatezza del mio confes­sore, che comprendeva bene le difficoltà che vivevo, sono state per me un sostegno prezioso. Da ragazza mi sono trovata a domandare a don Fabio, il sacerdote che seguiva il gruppo dei giovani della mia parrocchia, se vo­leva diventare mio padre spirituale. È stato un passo determinante nella mia vita: grazie a lui ho scoperto la ricchez­za della Parola di Dio e come questa Parola parlasse direttamente a me, il­luminando la mia storia. Con costan­za mi trovavo a confrontarmi con lui su ciò che vivevo nelle pieghe più pro­fonde della mia anima; era l’unica persona alla quale sentivo di poter rac­contare quello che il Signore stava fa­cendo con me, alla quale chiedevo aiu­to per poter comprendere le “luci” che mi venivano date, magari attraverso una parola che mi toccava particolarmente, e a cui domandavo consigli anche su problemi semplici, che ri­guardavano la vita quotidiana. Mi ha colpito la sua disponibilità: sapeva “perdere tempo” per me, capivo che sinceramente aveva a cuore il mio bene. Grazie a lui ho iniziato un di­scernimento più serio: provavo l’inquietudine di voler comprendere cosa fare della mia vita, ma non avevo an­cora ben chiaro il progetto di Dio. Il mio padre spirituale mi ha allora invi­tato a riservarmi del tempo per la pre­ghiera, mi ha suggerito di partecipare alla Celebrazione eucaristica ogni giorno… mi ha condotto ad un rap­porto sempre più personale con Cri­sto! Ciò che mi ha stupito è che sia lui sia don Marco, il sacerdote che mi ha guidato dopo di lui, e che io conside­ro il mio secondo padre spirituale, si sono messi “in ricerca” con me: non hanno dato per scontato di conoscere la volontà di Dio, ma hanno cercato di scoprirla e di farmela scoprire, mi hanno accompagnato e hanno poi lasciato a me la libertà di rispondere. Il mio è stato un discernimento lungo e travagliato, perché ho posto diverse resistenze a Dio: cercavo sicurezze, garanzie per il futuro, avevo paura di sbagliare… così prendevo tempo. Desideravo trovare il mio po­sto e la mia felicità, ma per riuscirvi ho dovuto attendere che la mia voca­zione maturasse. Lungo questo cam­mino è stato molto importante per me avere una guida e incontrare sacerdoti che mi hanno testimoniato il loro amo­re per Cristo e per gli uomini. Fra que­sti un ricordo del tutto speciale è per don Andrea Santoro, che ho avuto la grazia di avere come parroco dal 1994 al 2000 nella parrocchia dei SS. Fabiano e Venanzio.

È stato per la mia famiglia un grande sostegno, perché ci è stato accanto in un momento mol­to difficile. Poco dopo il suo arrivo, infatti, mio padre si è ammalato di tu­more; erano diventati amici e don Andrea veniva tutti i giorni a trovarlo portandogli la Comunione. Ricordo che il giorno in cui papà è morto mi ha abbracciato, cosa inusuale per lui che difficilmente manifestava i suoi sentimenti. Con quell’abbraccio non solo mi ha consolato, ma mi ha fatto capire che non eravamo soli! Don Andrea era veramente innamorato di Cristo e della Chiesa, viveva con en­tusiasmo la propria vocazione e non perdeva occasione per invitare noi gio­vani a metterci in ascolto di Dio, a non aver paura di donargli la vita attraver­so la consacrazione o l’ordinazione sacerdotale, se capivamo che il Signo­re ci stava chiamando. Da lui ho im­parato quanto sia importante l’unità nella Chiesa: negli anni in cui è stato nostro parroco, infatti, ha cercato in tutti i modi di creare comunione fra le diverse realtà parrocchiali, promuo­vendo anche iniziative in cui si colla­borasse più da vicino. Ripeteva che per lui uno dei peccati più grandi davanti a Dio è l’essere divisi gli uni dagli al­tri. Questo insegnamento mi è rima­sto, ora poi, come consacrata, deside­ro ancora di più essere una persona che favorisce la comunione intorno a sé. Don Andrea mi ha insegnato anche, prima di tutto con l’esempio, l’importanza di una vita cristiana coerente, nelle azioni e nelle scelte che si com­piono; mi ha insegnato ad essere dono per gli altri, anche quando questo ri­chiede sacrificio e magari non è nean­che riconosciuto. Invitava noi parroc­chiani a puntare in alto, ci ricordava spesso che tutti siamo chiamati alla santità e che abbiamo delle responsa­bilità verso i nostri fratelli che non han­no ancora conosciuto Cristo.

Sapeva comunicare una grande fiducia in Dio; spesso poteva sembrare severo; eppu­re ricordo chiaramente la dolcezza che percepivo in lui ogni volta che lo sen­tivo parlare di Gesù, di Dio Padre o della nostra Madre, Maria, e tutto que­sto mi aiutava a riflettere. Sapeva che mi stavo interrogando sul mio futuro e rispettava il fatto che fosse don Mar­co a guidarmi, ma quando poteva mi dava dei consigli e mi faceva percepi­re la presenza di Gesù accanto a me in modo molto concreto. Anche dopo essere partito per la Turchia non si è dimenticato di me: mi ha scritto, in­coraggiandomi a proseguire il discer­nimento e a confidare nell’aiuto del mio padre spirituale. L’ultimo bigliet­to che ho ricevuto da lui è stato per la mia Consacrazione: ancora una volta mi invitava a puntare in alto, per pre­pararmi ad essere una sposa degna di incontrare, un giorno, il mio Sposo! Proprio nel giorno della mia Pri­ma Professione ho ricevuto un altro grande dono da Dio: la celebrazione si è tenuta nella mia parrocchia ed era­no presenti alcuni di quei sacerdoti che mi avevano accompagnato lungo il cammino fin là percorso! Subito dopo la Messa, ricordo che don Marco mi ha guardata e mi ha detto: «Ce l’abbiamo fatta!». Era proprio vero: se ero arrivata a compiere quel passo era an­che grazie a lui! Aveva condiviso con me la fatica del discernimento, ora condivideva la mia gioia!

Ciò che più mi ha colpito è che il Signore mi ha chiamata ad entrare pro­prio in un Istituto fondato, a Genova, da un sacerdote diocesano, Sant’Agostino Ruscelli: un povero prete, come si definiva lui, che è di­ventato santo vivendo fino in fondo il suo sacerdozio. Si è fatto carico delle fragilità di tante persone attraverso il sacramento della Riconciliazione: ha trascorso, infatti, molte ore della sua vita nel confessionale. Inoltre si è pre­so cura di ragazzi abbandonati, di ra­gazze madri, di carcerati…e ha dato particolare rilievo anche all’accompagnamento spirituale. Da quando sono entrata in con­vento, ho ricevuto altre testimonianze significative da parte di sacerdoti che vivono con gioia e pienezza il dono di sé alla Chiesa e nella Chiesa e conti­nuo a ricevere aiuto da loro, in diversi modi.

Nulla capita per caso! In seguito alla mia esperienza, proprio perché sono stati e sono tanto importanti per me i sacerdoti, sento il desiderio di contribuire a far sì che ci siano nuove vocazioni sacerdotali. Credo molto nella collaborazione che ci può essere fra presbiteri e consacrate, cosa che sperimento in particolare nel corso triennale che sto frequentando per ani­matrici vocazionali, organizzato dall’USMI nazionale. L’aiuto che ri­ceviamo noi suore dai sacerdoti che ci accompagnano nel corso è impor­tante. Ascoltare le loro esperienze, la visione chiara che ci offrono degli orientamenti pastorali seguiti a livel­lo nazionale nella pastorale giovanile e vocazionale, i suggerimenti pratici per poter lavorare nelle nostre diocesi di provenienza e nei nostri istituti e l’attenzione che mostrano verso le nostre richieste, le nostre difficoltà e le nostre proposte, ci fanno sperimentare l’essere Chiesa che cammina insieme verso la stessa meta e con lo stesso deside­rio: far sì che i giovani possano incon­trare Cristo e scoprire la propria voca­zione! Maria ci accompagni in questa missione tanto delicata e preziosa!

 

 

Antonella Ilardo

Non è mai stato facile per me par­lare agli altri delle mie esperien­ze anche se ciò dovrebbe essere mol­to naturale, in quanto raccontare quello che vivi è semplice, ma spesso pro­prio perché è così intimo diventa dif­ficile. Il mio cammino verso la scoperta del disegno di Dio su di me è stato lun­go, spesso interrotto e poi ripreso senza un impegno continuo. Cercherò di far ruotare tutto il mio discorrere intorno all’importanza che hanno avuto per me la parrocchia e la figura del presbitero nel­la scoperta della mia vocazione. Per poter far ciò c’è bisogno che io faccia un passo indietro e illustri un po’ per quali sentieri la bontà di Dio mi ha portata per arrivare ad oggi.

Sono cresciuta in una famiglia cattolica molto credente e nella mia vita ho avuto la figura di mia nonna che mi ha accompagnata fin da bam­bina con la sua tenerezza e la sua incrollabile fede! Vivevo la mia gio­vane età nella certezza dell’esistenza di Dio, ma un Dio estraneo alla storia dell’uomo, estraneo al mio quotidia­no vivere… lontano dalla mia esisten­za. Ma Dio smuove le montagne delle nostre certezze con i grandi terremoti, e così in un momento di grande dolo­re e angoscia, durato tre lunghi anni, il Signore è entrato nella mia vita “ri­velandosi” per quello che veramente è: un Dio di infinito Amore! Con pre­potenza e delicatezza, imponendosi e proponendosi, ha abbattuto tutte le mie difese, tutti i muri che avevo alzato tra me e lui e mi sono arresa al suo Amo­re, che fino ad allora con insistenza mi aveva cercata. Sì! Non aveva per un solo istante smesso di guardarmi ed aspettare; ero troppo infelice per lasciarmi a me stessa e alle mie stupi­de convinzioni, al desiderio spasmo­dico di una libertà che continuamente ricercavo e alla quale non sapevo dare forma, una libertà arrivata finalmente alla scoperta della Verità : Dio è Amo­re, infinita tenerezza per tutte le sue creature, Padre amorevole che quoti­dianamente provvede ad esse.

La storia si ripeteva nella mia esi­stenza, come nei Vangeli: Gesù che pas­sa sulle nostre strade e incontra l’uomo di oggi come allora, parla al suo cuore come allora, proponendosi e con­quistando con la stessa forza di allora! Dopo “l’incontro” della mia vita con il Risorto ero un’altra, non mi riconosce­vo più; sentivo che il Signore mi chia­mava a “qualcosa” di grande e bello…

Ho iniziato così a fare esperien­ze presso monasteri, case di suore di vita attiva, volontariato in carcere e con i poveri, ma non mi decidevo ad iniziare un cammino con un direttore spirituale che potesse accompagnarmi nella ricerca di questo “qualcosa”. La mia testardaggine mi ha smarrita e ho perso molto tempo allungando la mia ricerca nell’attesa di una risposta, chis­sà da dove, come e quando. È un erro­re che ancora oggi molti giovani com­mettono, se non c’è la figura del presbitero a guidare, consigliare e di­rigere verso una maggiore conoscen­za di se stessi, e a far venire fuori ciò che il Buon Dio ha messo nel cuore di ognuno: la propria vocazione! Da sola non vedevo chiaro e non riuscivo a capire in quale modalità re­alizzare questa aspirazione alla quale mi sentivo chiamata. Così, dopo un po’ di tempo, ho abbandonato l’idea, con­tinuando per un lungo periodo la mia vita di sempre tra studio, lavoro, amicizie…ma non mi sentivo in nien­te pienamente realizzata.

Così un giorno, cambiando pae­se, mi sono decisa con forza sovruma­na ad andare in parrocchia per parlare con il sacerdote, don Ginetto De Simone, che da poco era arrivato nel­la nostra comunità. È iniziato così, dopo tutto il percorso frazionato e con­fuso, un cammino maturo in parroc­chia sotto la guida del sacerdote che subito, come primo passo, ha insistito che iniziassi ad impegnarmi nella mia comunità. Ho iniziato, su sua propo­sta, ad accompagnare i ragazzini nel­la preparazione al Sacramento della Cresima. I primi due anni ho affiancato don Ginetto, apprendendo da lui tutto! Ero ammirata del metodo che usava con i bambini, come riusciva ad attirarli e in­curiosirli per far passare il messaggio del Vangelo, ma soprattutto della sti­ma e della considerazione che aveva nei confronti di creature così piccole. Gesù, che ha compassione come allora delle folle che sono senza pa­store, manda sacerdoti che sappiano radunare il gregge. Così è stato don Ginetto per la nostra comunità. Era­vamo veramente tutti un po’ dispersi per i problemi che si sono presentati nel corso degli anni, ma la passione con la quale egli si è dedicato a richia­mare intorno a sé la comunità, la for­za del suo instancabile messaggio di unità, l’invito a lasciarsi accompagna­re, educare e formare…tutto questo, unito ad un amore al Signore coltiva­to nella preghiera e nella meditazione continua, sono stati per me e per la comunità intera un esempio mirabile.

Con me poi è stato più che un direttore spirituale: è stato un educa­tore che con sapienza ha saputo indi­rizzarmi verso un cammino di respon­sabilità, che ha fatto maturare sempre di più nel mio cuore una vera passio­ne all’educazione come catechista. Sento che la mia vita deve essere tutta spesa per portare Gesù all’uomo…Gesù che ha sete delle anime lonta­ne continuamente rincorse dal suo Amore, proprio come lo ero stata io. Queste anime che si lasciano sbanda­re dai venti del mondo, che si ag­grappano alle tante false “verità” che esso presenta come tali. Non c’è pace per questi uomini fino a quando non trovano la ragione di tutto il loro giro­vagare: Gesù!

Mi sento continuamente stimola­ta dalla responsabilità di queste tene­re creature così vulnerabili e suscetti­bili al mondo, con tutte le sue attra­zioni che contrastano con le verità della fede. Mondo che vuole sempre più scardinare il cristianesimo scardinando la sua centralità: Cristo Gesù vero Dio e vero uomo; un mon­do che presenta accomodamenti e di­strazioni mettendo da parte realtà che sono scomode perché non permetto­no di vivere seguendo la folle corsa verso tutto ciò che disimpegna. Vivere senza le certezze della fede diventa anche per i più piccoli pe­ricoloso, perché avanzando nella vita, senza un’adeguata educazione umana e religiosa, rischiano di diventare gli uomini falliti di domani, continuamen­te instabili e immaturi da non impe­gnarsi nella vita con scelte responsa­bili e definitive… Trasmettere la fede con le parole, facendola diventare solo una trasmis­sione di idee e nozioni, concetti e cose da imparare: non è questa la missione di un catechista. Egli deve accompa­gnare i fanciulli alla conoscenza di Dio, trasmettendo la bellezza dell’amicizia con lui attraverso una testimonianza au­tentica, gioiosa, libera e amorevole del­la propria vita… niente è più credibile!

Gesù ha detto: “vieni e vedi”… a noi la responsabilità di stimolare e incuriosire con il fascino e la luce di una vita piena e realizzata nell’ amore di Dio. “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contem­plato e ciò che le nostre mani hanno toccato […] noi lo annunciamo an­che a voi […] perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4)… annuncia­re è gioia e dà pienezza alle nostre esi­stenze… Maria Maddalena all’incontro con il Risorto non può che andare e annunciare: “ho visto il Signore” (Gv 20, 18)… Gesù stesso la invita a non trattenerlo; non trattenere per sé la gio­ia di questo incontro, non trattenere il Dio di tutti che vuole donarsi a tutti, ma andare e annunciare e solo così potrà veramente trattenerlo nel suo cuore, nella sua vita! Ogni cammino di fede inizia dall’incontro, che scaturisce nell’annuncio continuo.

È stato così anche per me, che avanzando sotto la direzione costante e paziente del sacerdote, vedevo pian piano svelarsi davanti agli occhi un disegno meraviglioso pensato per me dalla bontà di Dio: donare la vita a lui nella consacrazione secolare! Un bi­sogno – oserei dire – automatico del cuore, perché consapevole del suo continuo donarsi a me in modo del tut­to gratuito e senza alcun merito; un dono che cresce solo se è, a sua volta, donato con libertà, servizio, amore e attenzione all’uomo. È l’Amore di Cristo che ci spin­ge… a tale donazione, seminando sen­za riserva, vivendo tutto nella speran­za fondata sulla fede in lui, che esula dalle nostre aspirazioni e da tutto ciò che possiamo o meno attenderci; una speranza nella povertà di cuore che sa cogliere il bello e il buono in tutto ciò che ci circonda; che sa vedere nei segni del tempo che passa la presenza dell’Amore che, con cura, fa crescere ogni seme e che certo a tempo opportuno raccoglierà i suoi frutti… sì, i suoi frutti, perché nulla ci appartiene, ma tutto proviene da lui, passando anche attraverso di noi, umili servi.

 

 

Claudio e Fiorella Donzelli

Siamo qui per condividere con voi l’esperienza che abbiamo vissu­to con i tre sacerdoti – don Germano, don Licurgo e don Luca – che hanno inciso profondamente nella nostra vita di giovani prima, di coppia e di fami­glia poi. Prima di tutto vogliamo espri­mere loro la nostra gratitudine, il no­stro grazie.

Ciò che diremo potrà apparire scontato, è vero, perché la nostra non è un’esperienza straordinaria: è matu­rata e vissuta nella quotidianità e spes­so siamo stati anche inconsapevoli del cammino che stavamo facendo. Forse è proprio questo il primo aspetto im­portante, perché ci fa capire come sia proprio la normalità, costruita giorno dopo giorno, che testimonia ed educa. Permetteteci un parallelo: è l’atteggiamento del genitore. Noi abbiamo im­parato dai nostri genitori molto di più per quello che ci hanno testimoniato e per il loro modo di essere persona, coppia e famiglia nella vita di tutti i giorni, che non dalle loro raccoman­dazioni, consigli e “prediche”. Que­sto non vuol dire che non ci vogliono, anzi. Diciamo che ci vogliono tutte e due.

La nostra, come dicevamo, è una famiglia come tante altre. Momenti di gioia, altri di prova, alle prese con i problemi di tutti: la casa, il lavoro, i figli da tirare su, la loro educazione… Una famiglia con la porta di casa chiusa quando lo deve essere ed altret­tanto aperta quando è necessario per coltivare le relazioni e vivere la dimen­sione comunitaria. È normale acco­gliere i nostri amici e quelli dei figli, così come la coppia d’immigrati in dif­ficoltà, il venditore ambulante. Poi la partecipazione alla vita della comuni­tà: il catechismo, i campi scuola, il cammino con il gruppo dei giovani, la preparazione dei fidanzati al matrimo­nio a casa nostra. Questo molto sinteticamente il contesto nel quale sono cresciuti i no­stri figli: un contesto maturato in un cammino iniziato già nell’adolescenza.

Non eravamo ancora fidanzati che don Germano, venuto nella nostra parrocchia ad aiutare don Licurgo nel­la pastorale giovanile, animava il grup­po giovani e ci chiamava alla preghiera giornaliera dei Vespri la sera in par­rocchia. Le sue riflessioni sulla Paro­la entravano nella nostra vita di gio­vani in ricerca e ci servivano per im­postarla. Era come se indirizzasse l’arco per scagliare la freccia. Non man­cavano, con don Germano, momenti di spensieratezza, di gite, di chiacchie­rate fino a tarda notte, specialmente con i maschi del gruppo. Momenti di carità nei quali c’impegnavamo per l’una o l’altra iniziativa di sostegno ai bisognosi o l’aiutavamo a ricostruire una casa per i campi scuola di ragazzi e giovani, di cui spesso abbiamo usufruito anche noi. Ci esortava spes­so alla preghiera, alla Confessione e all’Eucaristia e non mancava mai di essere presente ogni volta che ce ne fosse bisogno. Ci piaceva inoltre vedere che rela­zione aveva con don Licurgo, il prete più anziano: una relazione del tutto nor­male, fatta di accoglienza reciproca, di discussioni su punti di vista diversi, ma anche di tenerezza e perfetta sintonia pastorale. Tutto ciò ci dava fiducia: era­vamo giovani e avevamo bisogno di vedere che con l’impegno, lo sforzo e la gioia certe relazioni sono possibili.

È stato un periodo breve: don Germano, che ci testimoniava la fre­schezza e la gioia della sua vocazio­ne, dopo appena sei anni se n’è torna­to a Siena, ma grazie a lui ci eravamo ormai fatte le ossa. Tornato, in occa­sione delle nostre nozze, iniziò l’omelia parlando proprio del periodo tra­scorso insieme. Ascoltiamo dalle sue stesse parole cosa abbia significato anche per lui la nostra amicizia: «Il tempo sembra non aiutarci oggi (infatti pioveva), ma c’è un’altra luce, un altro calore che illumina e scalda questo nostro giorno di gioia: la nostra fede, la nostra amicizia, il ri­cordo vivo di tante esperienze comu­ni che fanno parte di un patrimonio no­stro che né il tempo, né le vicende e le situazioni diverse riescono a cancel­lare in noi».

Di don Licurgo potremmo parla­re per ore, raccontare tutte le opere che è riuscito a realizzare, le sue battute che ci farebbero sorridere. Lui amava definirsi il “prete di campagna”, il “po­vero prete di Mensano”. A noi piace ricordare l’immagine che ci ha lascia­to dentro: quella del “prete del popo­lo” o meglio ancora del “buon Pasto­re”. Un prete che probabilmente sa­peva poco di teologia, ma che aveva un cuore grande. Un prete che ha sem­pre amato la sua sposa: la comunità. Don Licurgo è stato a Poggibonsi più di trenta anni: siamo cresciuti con lui. È stato sempre presente nella no­stra vita dall’iniziazione cristiana con i primi sacramenti e nei momenti forti della vita, non trascurando mai il quo­tidiano, nel quale si faceva fratello, amico e compagno di viaggio. Quando da giovani facevamo sa­lotto nel suo studio, qualche volta ci raccontava della sua precedente espe­rienza a Mensano, un piccolo paese. A noi piacevano le sue storie di quando, anticomunista sfegatato, si confronta­va con i locali “compagni” sul sagrato della chiesa prospiciente proprio la piazza del paese: storie che rendevano reali i film di don Camillo. Come don Camillo, anche lui voleva bene a tutti e da tutti era amato. In un tempo in cui nessuno pensava agli scuolabus, don Licurgo comprò un pulmino e tutte le mattine passava nelle campagne a pren­dere i bambini, bianchi o rossi che fos­sero, per portarli a scuola e poi, il gior­no, altro viaggio a ritroso.

Amava il contatto con la sua gen­te, non aveva orario di ufficio. Ri­cordiamo le file davanti al suo studio, la sera dopo la Messa vespertina. Una buo­na parola per tutti: dalla mamma che ha problemi con il figlio alla moglie che ne ha con il marito e viceversa, dal pensio­nato che non ha di che sbarcare il luna­rio al mendicante che sa che da don Licurgo mille lire sono assicurate. La benedizione delle case dura­va tutto l’anno: lui visitava tutte le fa­miglie personalmente. Trovava tanti anziani bisognosi: e allora, come aiu­tarli? Mettiamo su un servizio di suo­re infermiere, costruiamo una casa di riposo per i vecchi inabili. Quando è andato via, a settantotto anni, dopo oltre trenta anni, c’era rimasta una cosa sola da restaurare: la sua casa. Quan­do lo scorso anno è venuto don Oreste Benzi, che voi conoscete, a Sant’Antonio al Bosco alla Settimana delle famiglie, e lo abbiamo visto con la spolverina nera rammendata, in lui ab­biamo rivisto il nostro don Licurgo.

Era un sacerdote profetico, non solo nelle opere: preoccupato della formazione, per una fede adulta della sua gente, già negli anni Settanta, quando ancora non si sapeva che cosa fosse la lectio divina, chiamava il sa­cerdote biblista perché spiegasse la Parola. Erano i primi anni Novanta, e lui invitava ogni anno i genitori dei ra­gazzi del catechismo per un cammino di formazione. E siccome non si sen­tiva all’altezza, preparato, chiamava – come diceva lui – “un prete che se ne intende”: chiedeva a don Luca di gui­dare questi incontri.

Con sapienza, poi, ci chiedeva, motivandoci, di aiutarlo nella pasto­rale con i giovani, nel catechismo, ci stimolava a proporre iniziative nuove per la carità, incoraggiava la presenza delle famiglie nell’attività della comu­nità parrocchiale. Don Licurgo aveva creato una comunità “famiglia di famiglie” in grado di accompagnarti nelle varie si­tuazioni della vita. Per i nostri figli, una continuità tra ciò che vivevano tra le mura domestiche ed una parrocchia sempre aperta.

Quando è nata Francesca, con un semplice biglietto don Licurgo ci scri­veva: «Dall’amore nata, con amore coltivatela, nell’amore fiorirà e cresce­rà e la vostra casa sarà tutta un fiore d’Amore. Un abbraccio. Dio vi bene­dica! Il Proppe». Un biglietto profetico? Certo è che se Francesca, nel saluto alla co­munità pronunciato alla fine di una S. Messa, prima di partire per Roma, ha sentito il bisogno di ringraziare par­ticolarmente don Licurgo e di andare a pregare sulla sua tomba al cimitero, un motivo ci sarà pure stato. Eppure don Licurgo non era il suo direttore spirituale, non aveva stretti rapporti personali con Francesca. Era una fi­gura che meritava di essere imitata: te­stimoniava cioè con la sua vita, che la vita consacrata aveva un senso e vale­va la pena di essere vissuta allo stesso modo delle altre vocazioni.

Don Luca è il sacerdote che Dio ha messo sulla nostra strada quando eravamo già famiglia e che ha dato una spinta incisiva alla nostra consapevo­lezza di sposi. Sacerdote innamorato di Dio ma anche dell’uomo nella sua dimensione vocazionale. Con lui una bella esperienza di gruppo famiglia, nata proprio a seguito degli incontri con i genitori dei ragazzi del catechi­smo di cui parlavamo prima.

In uno di quegli incontri, com­mentando il passo riguardante i figli della “Lettera del papa alle famiglie” le parole di don Luca ci colpirono par­ticolarmente: «I vostri figli non sono vostri, vi sono solo stati affidati» e poi: «come potranno i vostri figli vivere una storia d’amore se non la vedono vissuta da voi, dai loro genitori?». Per noi furono parole che c’interrogarono, dalle quali scaturì un cammino come coppia e che si è riflettuto ine­vitabilmente sulla vita della famiglia. Pensiamo che se oggi siamo qua lo dob­biamo proprio a quella esperienza che ha segnato una svolta nella nostra vita.

Tre sacerdoti con i quali abbia­mo condiviso, in momenti diversi, un tratto della nostra vita di persone e di coppia. È grazie a loro e alla loro vici­nanza nel nostro cammino che Dio ci ha aiutato a capire qual era la nostra vocazione, ma ancora di più che c’è una sola vocazione: quella all’amore. Abbiamo sperimentato insieme a loro che è possibile per sacerdoti e sposi operare insieme per gli altri, portando ognuno la ricchezza dei propri carismi e crescere insieme in un rapporto di amicizia e di relazione positiva.

 

 

Don Luigi Ginami

Il titolo del libro “Roccia del mio cuore è Dio” (ed. Portalupi 2006), è una regola di vita che posso applicare alla dolorosa vicenda di sofferenza vissuta da mia Mamma per ben 109 giorni nel reparto di Terapia Intensiva della Cardio-chirurgia degli Ospedali Riuniti di Bergamo. Inizio il mio intervento proponendo una pagina del libro – che raccoglie il profilo spirituale di Santina Zucchinelli – per poi passare a presentare chi sono i Padri Spirituali, i sacerdoti che hanno contribuito a formare questa forte identità spirituale in mia Madre.

Iniziamo la lettura. Domenica pomeriggio 21 Agosto 2005 verso le sette entro in Terapia Intensiva della cardiochirurgia dell’Ospedale maggiore di Bergamo, la gentilezza delle infermiere e dei medici mi accoglie. Mamma è ancora in uno stato di semicoscienza, non so se riesce a capire chi sono, sembra che una terribile stanchezza vinca ogni suo sforzo di rimanere vigile e si accascia sulla poltrona. Le macchine la circondano e la proteggono: l’elettrocardiogramma appare continuo sul monitor, l’ossigeno viene somministrato da un’altra apparecchiatura complessa, alcune flebo la curano. Appare trafitta da aghi, e cosparsa di macchie per ematomi dovuti a precedenti iniezioni, sul tallone sinistro una piaga di decubito è coperta da una fascia, i piedi sono gonfi per le diverse ore che deve trascorrere in poltrona. “Mamma come stai?”. “Sono venuto a trovarti!” ripeto a voce più alta la stessa frase, e poi ancora una volta: “Mamma apri gli occhi! Rispondi!” So che la povera donna non può parlare perché ha il tubo della tracheotomia in gola. Sono costretto ad ascoltare un assordante silenzio che mi entra nel cuore e che provoca in me commozione fortissima. Apre con fatica gli occhi, mi riconosce spalanca forte gli occhi dolci! Con enorme fatica accenna ad uno straziato sorriso. Cerca di parlare, ma invece tossisce ed il tubo della tracheo si imporpora di sangue. Uno sbuffo di sangue esce dalla canula e scende sulla garza, piccoli rivoli rossi scorrono sulla pelle. Mi guardo attorno e trovo delle garze sterili, ne prendo una e comincio ad asciugare quel sangue. Giunge una brava infermiera e mi dà una mano. Guardo quel sangue e guardo Mamma. Mi metto a parlare con l’infermiera, giunge anche il medico e con uno sguardo sereno mi rassicura: “Don Gigi, non si preoccupi, non è nulla!” Ora cambiamo la medicazione e puliamo. Va tutto bene, sia sereno! Mamma si sta riprendendo”. Quelle parole riportano la pace nel mio cuore in tempesta. Mentre parlo con loro meccanicamente metto la garza intrisa di sangue in tasca con gli occhi lucidi di lacrime. Il mio incontro con Mamma finisce con un grande bacio sulla fronte febbricitante. Mentre esco dal reparto mi accorgo che la mano è sporca di sangue e mentre mi lavo ricordo quanto era successo vent’anni prima. Giunto a casa prendo quel pezzo di garza impregnato di sangue e lo metto in una minuscola teca di metallo, con un piccolo laccio me la metto al collo. Ora quel sangue è vicino al mio cuore e in questo modo supero nella preghiera continua per Mamma una distanza di 680 chilometri e mi porto vicino a Lei.

Il giorno della prima messa il lontano 21 Giugno 1986 ho celebrato l’Eucaristia con il nuovo calice che contiene ancora i due anelli nuziali di Mamma e Papà, ora ogni mattina bevendo il sangue di Gesù nell’Eucaristia mi sento meno indegno di avvicinarmi a quel calice a motivo del sangue di Mamma che è vicino al mio cuore. Sento che a quel sangue eucaristico molto si avvicina il sangue versato da Mamma in Terapia Intensiva, perché esso testimonia un’intera vita di una anziana donna vissuta per il Signore.

Esso è per me un invito formidabile a fare altrettanto, è una testimonianza radicale di generosità e di disponibilità. Quella piccola teca è esigente con me: chiede a me di donarmi agli altri fino a dare la mia vita. Mi costringe ad impegnarmi vicino a chi soffre, a chi piange, a chi versa sangue. Quella piccola teca al collo con un pezzo di stoffa imbevuto di sangue forse a qualcuno potrà sembrare un gesto paranoico, altri rideranno. La decisione poi di raccontarlo in queste righe, la scelta di mettere a nudo il mio animo, potrà essere vista dai benpensanti come una idiozia. Non mi importa nulla! Spero che qualcuno riesca a leggere invece dietro tutto questo il desiderio di essere vicino a mia Madre, ma soprattutto di impararne l’esempio!

Come trovo oggi profetica la frase inserita nel mio vecchio articolo e che dice così: Il prete non può lavarsi le mani dalla sofferenza degli altri, il prete non può fuggire dal dolore dei fratelli, ma per questo occorre prepararsi.  Non potevo allora capire che quella esperienza fatta da giovane seminarista sarebbe divenuta un sostegno durante la malattia di Mamma! (Luigi Ginami, Roccia del mio cuore è Dio, pagg. 93­95).

Ho riproposto questa giornata vissuta con mia Madre, nel tentativo di mostrare quale profondo rapporto esista tra un sacerdote e sua Madre, e tra la Mamma di un prete ed il proprio figlio. In tale rapporto spesso nasce la vocazione sacerdotale. Molte volte noi sacerdoti respiriamo dalla spiritualità dei nostri genitori quei germi di fede e di preghiera che costituiscono il terreno fecondo in cui attecchisce il germe della vocazione sacerdotale. Nel libro si tenta di descrivere la profonda spiritualità di Mamma Santina. Ma la domanda di questa Tavola Rotonda è: quali figure di sacerdote hanno contribuito a sviluppare tale identità spirituale in Santina? Forse ciascuno di noi, sacerdote o seminarista, dovrebbe porsi la domanda sui direttori spirituali dei propri genitori. Nel caso di mia Madre, molti sono i sacerdoti che hanno influito su di Lei spiritualmente, ne scelgo solo quattro per non stancarvi e per la loro peculiarità.

Il primo Padre Spirituale è un Vescovo, un santo che neppure Mamma ha conosciuto perso­nalmente, si tratta di San Gregorio Barbarigo. La mia vocazione nasce nel giorno della Canonizzazione del Beato, il 26 Maggio 1960. Mia Madre viene a Roma e chiede la grazia di un figlio e io nasco il 13 Gennaio 1961, se fate il conto sono circa nove mesi, dopo la sua richiesta di Grazia a Gregorio Barbarigo! Ma ascoltiamo dalle sue parole. Esse sono tolte da uno scritto davvero importante di mia Madre, per me è il più prezioso ed il più bello perché è il segreto della mia Vocazione Sacerdotale. Tale pezzo di carta si trova incollato nella mia Bibbia ed ha per me un valore immenso. In esso Mamma rivela – in una sorta di personale Diario – quale era il suo atteggiamento interiore davanti alla sua prima gravidanza e la grande confidenza in questo suo Padre Spirituale, San Gregorio Barbarigo, che invoca e prega ogni giorno legando in modo quasi indissolubile l’evento del mio concepimento e della mia nascita con quello della mia vocazione sacerdotale. E’ uno scritto sul quale meditare e sul quale pregare perché ci mostra come una Mamma – un’autentica donna di fede – viva il grande momento della propria esistenza costituito dal dono di un figlio.”Nell’anno 1958 mi sposai con Egidio (…) dopo un po’ di tempo, un anno e mezzo circa, avvenne a Roma la canonizzazione del Beato Gregorio Barbarigo. Mio marito mi convinse a partecipare e io, con grande gioia, andai. Durante quella bellissima funzione ho chiesto a questo santo la gioia di diventare Mamma, perché erano già trascorsi quasi due anni, ma “i figli non venivano”. Tornando a casa e salendo negli uffici per le pulizie ho trovato appeso alla parete un bellissimo e grandissimo quadro di San Gregorio Barbarigo; allora ho fatto questo proposito: se avessi avuto un figlio lo avrei donato al Signore nel sacerdozio. Ogni mattina pregavo questo santo perché esaudisse la mia preghiera. Fui esaudita, nella nostra grande gioia ci nacque un figlio maschio che nel 1986 fu ordinato sacerdote. Ora, piena di gioia, ogni sera, dico una “Pater Ave Gloria” perché diventi un santo sacerdote con la protezione di S. Gregorio Barbarigo”. (Luigi Ginami, Roccia del mio cuore è Dio, pagg. 51-52).

È uno testo su carta strappata da una agenda, è un po’ ingiallito, ma non dico quale stupore e meraviglia ha provocato in me quando l’ho ritrovato a casa. Quel foglio contiene la storia della mia vocazione, prima ancora che io potessi rispondere di sì, prima ancora che venissi alla luce. La mia vocazione nasce in un rapporto spirituale profondo tra Gregorio Barbarigo e mia Madre. Ho riposto quel foglio nella mia Bibbia, quasi a dire che anch’esso è Parola di Dio. Il tema vocazionale viene presentato con audacia dalla Sacra Scrittura. Ad esempio Isaia ci parla della sua chiamata e si ricorda esattamente quando fu: nell’anno in cui morì Ozia re. Egli allora “vide” il Signore o meglio il trono e i lembi del suo manto e il santuario della liturgia di Adorazione; la voce e la nube che abita il tempio e nasconde e manifesta Dio. Dinanzi a Dio tre volte Santo, il profeta vede messo a nudo il proprio peccato. Anch’egli si “avverte perduto”, minacciato dalla santità di Dio. Sarà il fuoco ardente della Parola di Dio preso dall’altare a purificarne tutto l’essere e a rendergli l’ardire di esporre se stesso alla missione. Tale ardire di esporre se stessi alla missione, non può venire da noi. Tutto ciò nasce da una storia di amore e fede nella quale ciascuno è coinvolto, come lo stesso Geremia si era sentito coinvolto “fin dal seno di sua Madre”. Le righe scritte da mia Madre, su quella pagina ingiallita, sono per me fuoco che purifica ogni volta che le leggo e le ripeto. Sono parole importanti, sono esigenti. Esse sembrano dirmi: ricordati che io ti ho chiamato da sempre, ricordati che la mia santità non ti ha avvolto solo il giorno della tua ordinazione sacerdotale, ma da sempre la mia santità ti ha accompagnato.Questo è stato il primo grande Padre Spirituale di mia Madre.

Il secondo Padre Spirituale di mia Madre è suo fratello, un sacerdote missionario saveriano P. Luigi Zucchinelli. Questo fratello si ammala in missione e torna a casa. Mia Madre lo accoglie e lo cura e la sua presenza in casa condiziona concretamente la vita di tutta la famiglia ed in particolare l’esistenza di Santina. Il mio nome Luigi, viene proprio dallo zio. Per preparare questo intervento ho sentito anche la sua voce, ecco quanto mi scrive P. Luigi Zucchinelli: “Alla base della spiritualità di Santina trovo un suo grande amore per i sacerdoti e missionari. Mentre ero Rettore della scuola teologica saveriana di Parma, trovandomi in difficoltà per il discernimento e per l’accompagnamento dei giovani al sacerdozio avevo pensato di fondare un Gruppo di preghiera per chiedere al Signore nuovi operai per la Sua vigna e il dono della perseveranza per i già chiamati alla vita missionaria. Si trattava di un gruppo di persone che potessero impegnarsi a pregare ogni giorno per quello scopo. Ne ho parlato con Santina ed essa subito mi disse: “io voglio essere la prima a far parte di questo gruppo; voglio pregare ogni giorno per le vocazioni”. E so che è stata fedele! Il giorno più bello di Santina è stato quando suo figlio, Don Gigi, venne ordinato sacerdote: era raggiante di gioia! Vedeva coronarsi un suo sogno o meglio ancora una sua preghiera presentata nella Basilica di S. Pietro nel giorno della canonizzazione di Gregorio Barbarigo e nel medesimo tempo concludeva, in un certo senso, un periodo della sua vita pieno di tanto lavoro e tante rinunce per sostenere le spese relative agli studi del figlio. Cerco di parlare della spiritualità di mia sorella e di come essa sia maturata e sviluppata. In questi tempi in cui Santina vive nella sofferenza, ci si meraviglia della sua serenità e del suo sorriso che ha tratti di ineffabile dolcezza. Mi sono domandato dove mia Sorella possa trovare tutta questa forza d’animo; quali sono stati nella sua vita quei valori che ora la sostengono così grandemente. Ecco una risposta: il valore supremo del suo vivere è ed è stato Dio. Quanta preghiera; quanta attenzione per i figli perché partecipassero alla preghiera nella vicina chiesa di Nostra Signora! Dopo la morte di mia Mamma ha voluto che io andassi da lei durante le vacanze, così ho constatato il suo profondo senso religioso: insieme recitavamo il rosario e lo recitavamo per le vocazioni sacerdotali e missionarie. La sua non è una religiosità staccata dalla vita, ma sa coniugare insieme saggiamente lo spirituale e il materiale. Mia sorella mostra inoltre il coraggio di chi ha fede: Santina ha lavorato per i suoi due bambini con grande coraggio; rimasta vedova con due figli molto piccoli non si è mai scoraggiata. Ha trovato la forza fidandosi di Dio. Ho sentito mio padre dire: “ma come farà quella figlia a tirare avanti con i due bambini e con un lavoro così precario!”. Eppure era sempre serena! Un altro tratto significativo della sua esistenza è una vita semplice, povera ma dignitosa. Non ha mai fatto mancare niente ai suoi figli. Ultimamente ho potuto capire, ancora una volta, quanto sia stata semplice e povera la sua vita. Frequentando la sua casa come mia casa, alla morte di mio padre avevo ricevuto dei soldi come parte dell’eredità. Con il permesso dei miei superiori ho dato a mia sorella Santina quella somma per far fronte alle spese che si assumeva per me, ebbene quei soldi non li ha mai spesi, ma li aveva messi da parte ancora per i miei bisogni. Anima semplice, anima generosa, anima attenta ai bisogni degli altri. Infine mia sorella Santina dimostra ancora oggi un grande amore per le missioni: di tanto in tanto mi dava del denaro e mi diceva: “Prendi P. Luigi, questi sono per le tue missioni!” Era realmente l’obolo della vedova di cui si parla nel Vangelo! E quanto tempo dedicava nelle domeniche estive per la vendita di oggetti per le missioni! Ancora oggi qualche pomeriggio lo trascorre alla pesca di beneficenza in città alta a Bergamo.

La terza figura di sacerdote che voglio ricordare è proprio il suo Direttore Spirituale. Il giorno del suo ottantunesimo compleanno abbiamo invitato ad una solenne conce­lebrazione eucaristica il suo confessore, Mons. Cornelio Locatelli -Assistente diocesano delle Familiari dei Sacerdoti dal 1962 e Penitenziere della Cattedrale – un sacerdote di 85 anni al quale ho chiesto: “Mi dica un po’ Monsignore: ma cosa mi può raccontare di mia Mamma?” “E’ difficile in poche parole riassumere un adeguato profilo spirituale della Signora Santina. Tua Madre mi ha sempre detto il valore del suo voto a San Gregorio Barbarigo dal quale in qualche modo dipende la tua vocazione. Di tale fatto ne va molto orgogliosa! Santina mi raccontava del suo godimento spirituale nel seguirti nei corsi di Esercizi Spirituali da te predicati a sacerdoti e comunità di religiose, era bello per Lei passare quei giorni con te. Preghiera, frequenza ai sacramenti, la gioia di avere un figlio sacerdote sono i pilastri della sua vita spirituale. Accanto a questi tratti di squisita spiritualità la Tua Mamma ha sviluppato anche tratti di grande umanità. Mi ricordo che ogni mattina si metteva sulla porta della casa di tua sorella ed attendeva che scendessero i tuoi tre nipotini per andare a scuola, aveva pronta per loro una caramella e ne dava una anche a me, al Parroco Mons. Arrigo Arrigoni, a don Gianni Bui, a don Giuseppe Sala, ai sacerdoti che incontrava a Messa. Anche questa caratteristica esprime un animo molto fine e di grande sensibilità”.

Ecco, queste sono tre meravigliose figure di Padri Spirituali di mia Mamma, il Santo, il fratello e il Direttore spirituale. Rimane da descrivere un ultimo sacerdote, che non ha la stessa autorità e lo stesso valore, che si sente un nulla a confronto con la santità di Santina o l’interiorità dei sacerdoti fino qui menzionati. Tale sacerdote non può però essere trascurato dalla vita di mia Madre, perché per Lei nonostante tutti i suoi difetti e con tutti i suoi limiti è il più importante! Si tratta proprio di me!!! Per una Mamma il figlio sacerdote è il sacerdote migliore di tutti, è il più importante è il più caro. Da parte mia cosa dire? Il giorno della mia Prima Messa nel Duomo di Bergamo il 22 Giugno 1986 scrissi una lettera a Mamma che ho trascritto nel libro Roccia del mio cuore è Dio, in essa viene stabilito una sorta di programma spirituale per tutti e due, in quel documento posso rintracciare le linee portanti del rapporto spirituale che mi lega a Mamma Santina, quella lettera la voglio riportare ora per meglio illustrare il nostro rapporto; ascoltiamo: “Carissima Mamma, chi può capire quello che provo in questi giorni? Emozioni, sentimenti, immagini, fantasia mi riempiono la testa e il cuore di tanta gioia: neppure io che provo tutto questo riesco ad esprimere. Penso che tra le tante persone care che oggi mi circondano tu mi sei vicina in modo tutto tuo con la preghiera, con lo stupore, con la meraviglia e con la grande gioia che si veste di silenzio perché troppo grande da esprimere. Oggi, come dice Piero Scuri nella sua bella poesia  si è svegliato un sogno, un sogno che ci ha visto affrontare gioie e difficoltà. Ma chi sveglierà questo sogno? Sveglierà due persone: un prete e una Mamma di un prete! In questi giorni la mia vita è completamente cambiata per il dono del carattere sacerdotale. Il pane sull’altare diventa il corpo del Signore pur rimanendo nelle apparenze pane. Ieri io sono diventato prete pur rimanendo nelle apparenze sempre me stesso con tutti i difetti e con tutte le mancanze. Tu ieri hai smesso di essere la Mamma di un seminarista per essere la Mamma di un prete! Forse in questi giorni tutti e due siamo presi dalla voglia di dire… era ora, con tutto quello che ho fatto me lo merito proprio. Non è vero nulla, essere prete ed essere Mamma di un prete supera tutti gli sforzi e le fatiche che abbiamo fatto, il merito è solo del Signore e noi siamo servi inutili. Perché oggi sono prete? Perché il Signore l’ha voluto e basta. Se io non conosco perché oggi sono prete conosco però il modo che il Signore ha usato per farmi prete. II modo, cara Mamma, sei proprio tu! Tanti anni fa ho perso il papà, hai perso tuo marito; non ti sei risposata e la tua vita ha avuto come sostegno esclusivamente la Fede, una Fede grande e forte per crescere me e Carolina con tutto il necessario. In quel dolore e soprattutto in quella Fede generata dal grande soffrire io oggi con sicurezza trovo la nascita della mia vocazione. Perdendo papà tu hai detto che la tua sola forza era il Signore, il Signore che vince disperazione ed angoscia e da quella croce dopo lunghi tre giorni è nata la resurrezione! II senso di quel soffrire? Perché il Signore lascia una donna molto giovane con due piccoli bambini sola ad affrontare una vita povera e difficile? Perché il Signore ha uno sguardo più lungo del nostro. Egli infatti già conosceva il 21 giugno 1986. Io ho sempre respirato in casa questa tua fede e questa tua preghiera: Messa, rosario, giaculatorie, preghiere… tanta, tanta Fede. Come dimenticare il più bel quadretto della Fede nella nostra piccola famiglia? Come dimenticare due bambini piccoli nei loro pigiamini in ginocchio con la loro Mamma appoggiati al grande letto matrimoniale, dove dormono tutti e tre, recitare le preghiere della sera in una stanza rischiarata dal piccolo lumicino al quadro della Madonna!

Tante altre scene potrei ricordare, ma tu le conosci tutte ed è inutile ricordare… oggi non è momento di ricordare, ma è il momento di guardare al futuro! La mia vita da prete? Mi diceva Augusto, un seminarista di Roma, immense gioie, ma immense sofferenze! La vita di una Mamma di prete: immense gioie, ma immense preoccupazioni; aiutami tu. A me la sofferenza tante volte fa paura, tu sei invece esperta in questo; stammi sempre vicino, non stancarti mai, dammi sempre una mano e non pensare mai di avere fatto abbastanza. Stammi sempre vicino con discrezione e pazienza, ma soprattutto stammi sempre vicino nella preghiera e ricordati che la gioia del Signore è la nostra forza. Un bacione grande, tuo don Luigi (Luigi Ginami, Roccia del mio cuore è Dio, pagg. 44-46).

Vi è una data nella mia vita che dopo la data della mia ordinazione è importante ed è il 18 Luglio 2005. In quella data in sala operatoria ho potuto ammirare il cuore di mia Madre. Da quel momento, dopo aver visto il cuore di mia Mamma sono diventato a tutti gli effetti il Direttore spirituale di mia Madre, in un rapporto in cui sicuramente ricevo più io di Lei. Per essere Direttori Spirituali non dobbiamo forse saper scrutare e vedere il cuore delle persone? Nella completa mancanza di autosufficienza di Santina, una attività è rimasta intatta ed è la preghiera! Tutta l’esperienza che Mamma ha vissuto ha una sua radice simbolica a Gerusalemme, dove abbiamo vissuto la Pasqua nel marzo 2005. La Città Santa è il Luogo Santo in cui – a partire dalla morte e risurrezione di Gesù – prende significato il lungo cammino di Via Crucis sopportato da Mamma. Gerusalemme rimane per noi un rifugio al quale riferirci ed al quale tornare in preghiera per avere luce e forza. Mamma ora è completamente cosciente e segue con molta partecipazione ogni situazione, ma questa progressiva coscienza è stata risvegliata dalla preghiera. Ogni mattina Mamma partecipa alla Messa in Santa Maria Maggiore alle ore 10 e nel pomeriggio alle ore 16 recita con me il rosario. Non avevo mai pregato tanto con mia Madre come in questo anno. Con Mamma abbiamo cominciato a pregare seriamente e a lungo dopo questo intervento. Ho messo a casa di Mamma un computer portatile e con il programma di Skype posso collegarmi e vedere Santina tutti i giorni. E così alle ore 16 di ogni giorno mi collego e da Bergamo Mamma ed Olinda rispondono al rosario che io dico da Roma. Alcune volte ci sono ospiti da Mamma: mio zio missionario, una suora, alcuni parenti, non importa tutti insieme preghiamo. Non è una cosa molto bella? Dopo il Rosario recitiamo le litanie ed il Vespro. In tutto circa un’ora di preghiera. e la sera prima di dormire alle ore 20, il computer torna a collegarsi per concludere la giornata con la preghiera della Compieta. Non avevo mai pregato così tanto con Mamma, mi sembra di rendere vera l’espressione di Evagrio Pontico “Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge per noi” (Evagrio Pontico, Capita practica ad Anatolium, 49: SC 171, 610 (PG 40, 1245).

Questa sua malattia mi ha fatto un grande dono: quello di riscoprire la preghiera incessante con mia Madre, e di questo ringrazio sinceramente il Signore, con Mamma celebriamo insieme la Messa, ascolto la sua confessione, recitiamo infine la Liturgia delle Ore una pagina di duro dolore si è trasformata così in un evento di grande efficacia e forza spirituale.

Vorrei concludere questo mio intervento con un brano simbolico del libro nel quale descrivo l’emozione che ho provato nel vedere il cuore di Mamma ed il valore carico di significato di quel momento in sala operatoria, ascoltiamo: “Il campo operatorio è pronto, ed è Samuele ad iniziare l’intervento, mentre Constantin incide la gamba per ricavarne la safena. L’intervento si prefigge di mettere tre by-pass sulle estese calcificazioni delle coronarie e di sostituire la valvola aortica anch’essa calcificata. Tali operazioni saranno svolte dal Primario Paolo Ferrazzi, ma per giungere a tale intervento i chirurghi devono lavorare per circa un’ora. Gli occhi concentrati, le esperte mani tagliano e cuciono con maestria i vasi che sanguinano, isolano la Mammaria e la preparano per essere utilizzata nell’intervento. La sala si avvolge progressivamente di silenzio, sembra che il silenzio sia lo spazio in cui mi è dato vedere il cuore! Piano, piano sotto le solerti mani di Samuele la carne e lo sterno si aprono per mostrare prima polmoni e poi cuore. L’emozione è fortissima provo commozione e riconoscenza per quel vecchio cuore che pulsa tutto il suo affetto verso di me. È un cuore ammalato, ingrossato per la fatica e forse per il bene che ha saputo donare al marito, ai figli ai nipotini a quanti incontra ogni giorno per strada, ai poveri, alle missioni, ai dimenticati: ma soprattutto al suo figlio sacerdote “il mio Luigi”! Ricordo cosa mi scriveva in una vecchia lettera dell’11 Ottobre del 1981 che mi inviava quando ero appena giunto a Roma per i miei studi: “Ti voglio tanto, tanto bene e mi sei vicino in ogni istante della giornata, in particolare nel momento che ricevo Gesù nel mio cuore, gli parlo di te, gli chiedo di darti sostegno morale”. Mia Mamma in quell’occasione in ben altro modo mi rivelava il suo cuore! Ringrazio Dio per lo splendido dono di mia Madre e di quello che Lei è stata ed è per me. La Sala Operatoria diviene un Santuario al cui centro vi è un cuore che batte per me. La mia Chiesa, la mia Parrocchia oggi è lì, come dicevo nel mio SMS : il mio posto oggi è lì dove mia Madre soffre e non in chiesa, perché la mia chiesa vera è la dove si soffre. Guardo con ammirazione e provo stupore per come il Creatore abbia fatto di ogni persona uno splendido capolavoro. Nel nostro corpo regna un perfetto ordine e tutto l’insieme assomiglia ad un prodigio. Il cuore pulsa ritmicamente, i polmoni portano ossigeno al corpo; contemplo una meravigliosa armonia che è forse il più bel segno di una armonia interiore che dà a Mamma Santina la serenità con la quale incontra gli altri nella sua vita imbevuta di preghiera di silenzio ed anche solitudine. Prego il Signore della Vita che mi conceda di vivere ancora alcuni anni con il suo aiuto, con il suo consiglio, con la sua forza. Mentre formulo tale preghiera Paolo si sta lavando ed entra in Sala con una scatola nella quale sono contenuti degli speciali occhiali e lenti con le quali eseguire il delicatissimo intervento. Le sue mani si mettono abilmente all’opera, Egli lavora su millimetri di tessuto e non può permettersi di sbagliare a motivo delle calcificazioni che cospargono le coronarie. È un minuzioso lavoro certosino in cui i punti di sutura sono quasi invisibili, un colpo di tosse, un piccolo spostamento possono causare danni irreparabili. La sua attenzione è al massimo, la sua esperienza e la sua capacità professionale non lo tradiscono: lavora con estrema precisione, calma e metodo. Piano, piano mi concentro su di Lui: siamo alla fase più delicata; dopo aver praticato tre by pass sulle coronarie, con la circolazione extracorporea Paolo apre il cuore per sostituire la valvola aortica calcificata. Il cuore aperto di mia Madre porta il mio stupore e la mia ammirazione all’apice. Provo ammirazione incondizionata per il lavoro di Paolo un lavoro tanto delicato e importante quanto poco conosciuto perché gelosamente custodito nel santuario inaccessibile della Sala Operatoria. Le cose più belle e più grandi avvengono nel silenzio e nel nascondimento e non amano la piazza, avviene così anche nella vita di fede ed è molto simile alla vita di mia Madre, tanto piccola ed umile quanto grande agli occhi di Dio”. (Luigi Ginami, Roccia del mio cuore è Dio, pagg. 35-37).