N.03
Maggio/Giugno 2008

Missionari o dimissionari! La dimensione missionaria nell’accompagnamento vocazionale dei giovani.

Il convegno di gennaio ci ha consegnato un dato quanto mai chiaro e convincente: la missione è parte essenziale d’un progetto vocazionale, ne è elemento costitutivo, punto d’arrivo o di partenza, ciò che lo motiva o che ne esprime vitalità e destinazione. 

In questa conversazione facciamo un passo avanti, o tiriamo una conseguenza del tutto naturale da quel dato: la dimensione missionaria, se è costitutiva d’un progetto vocazionale, lo è anche dell’accompagnamento che conduce alla scelta vocazionale. 

Vorremmo allora cercare di vedere cosa questo implichi in concreto, dal punto di vista della disponibilità del giovane e della pedagogia da metter in atto nell’accompagnamento. 

 

MISSIONARI O DIMISSIONARI! 

Il titolo del Seminario (e della presente relazione) fa un’affermazione nettissima, con un’alternativa secca: o si è missionari o dimissionari. Non c’è via di scampo né via intermedia: ogni essere umano è posto dinanzi a questa scelta, non solo il credente o il tipo promettente o altruista o generoso, ma ciascun vivente a un certo punto della vita si trova dinanzi a questa alternativa esistenziale. Decider d’essere “missionario” è scegliere di dare un certo senso alla vita, e un senso così serio e importante da assumerlo come ideale di vita e fonte d’identità. Ora, come non esistono e non possono esistere in una persona due identità diverse (a meno di qualche patologia), così chi sceglie di imprimere alla propria esistenza (e alla propria persona) un significato missionario sceglierà pure un orientamento totalmente opposto a chi crede, invece, di poter optare per altri significati e valori, in ogni caso non missionari. In altri termini, se il primo soggetto sarà “missionario”, il secondo sarà fatalmente “dimissionario”, termine che anzitutto non suona per niente bene (sa di pensione, magari precoce, di disimpegno, di atteggiamento apatico-anemico, a volte di licenziamento o fallimento, ma ci sono pure dimissioni finte, per provocare o metter l’altro in difficoltà…), e poi è termine che non trova proprio posto nel dizionario della lingua cristiana. 

Insomma, come dice bene il titolo, o missionari o dimissionari! Lo devono capire bene e quanto prima i nostri giovani e certi credenti “alla camomilla” o “della domenica”, e se lo devono sentir dire molto chiaramente senza fuorvianti giri di parole. Ed è già buona pedagogia essere essenziali nella presentazione dei valori, al punto di concentrare in una coppia di termini tra loro efficacemente e nettamente contrapposti il senso del valore che si vuol proporre. 

Evidentemente, non si tratta solo di strategia comunicativa, ma di contenuti precisi che stan dietro a quei termini. Vediamo allora di chiarire: che vuol dire in realtà “missionario” (e il suo opposto “dimissionario”)? Certo, non solo Africa o Bangladesh, o senso dell’avventura e carattere amante del nuovo e dell’inedito, né terre lontane o vita austera, coraggio e rischio della prima evangelizzazione, sprezzo del pericolo e senso del martirio… 

 

LA MISSIONE, CHE PASSIONE! 

Quando parliamo di missione rischiamo spesso di commettere un errore: quello di identificarla immediatamente con l’annuncio o di concepirla soprattutto come azione, dinamismo, attenzione eterocentrata… Certamente tutto ciò non è sbagliato, ma è parziale e al limite un po’ ambiguo. Secondo questa interpretazione, missione sarebbe la polarità opposta alla contemplazione, ma entrambi i rappresentanti delle due categorie, missionari e contemplativi, sono sicuro che s’opporrebbero a questa lettura. 

Di fatto questa interpretazione è stata molto condivisa e ribadita, nonostante tutto ce la sentiamo dentro con una sua forza probante, e dunque è ancora abbastanza viva e visibile nella prassi. Quante volte, ad es, non si pensa, un po’ superficialmente, che una buona esperienza missionaria sia quanto basti per aprire orizzonti nuovi al credente o per risvegliare la sua fede o addirittura per fargli nascer in cuore un ideale vocazionale! Con una conseguente pastorale giovanile “esperienzialista”, ove non si sa bene se si sta facendo semplice “turismo religioso” o proposta della sequela Christi. Magari a volte ne viene anche un risultato apparentemente positivo, sul piano della fede o della vocazione, ma come mai, almeno in certi casi, tutto ciò è durato molto poco, s’è rivelato entusiasmo passeggero, o quel risveglio o rianimazione o ideale vocazionale non ha poi retto alla prova del tempo o alle prove della vita? È esperienza che non è mai diventata sapienza, quasi aborto d’esperienza[1]

Evidentemente missione vuol dire qualcosa di più della semplice esperienza, per quanto diretta e sul campo di battaglia e a contatto immediato con una certa realtà traumatica. 

Vediamo allora di comprendere più in profondità la portata di questo termine e il naturalissimo collegamento tra vocazione e missione. 

 

Missione come passione 

Anzitutto il termine missione dice qualcosa di molto intenso, di molto personale e qualificante la propria identità. Quando si dice che uno sente “la missione di…” o vive un determinato compito come “missione”, s’intende dire che quella persona si sta coinvolgendo totalmente in quel servizio, ci si butta dentro con tutto se stesso, anzi, prim’ancora vi si riconosce radicalmente, scopre che quella è la sua identità, e dunque si sente se stesso solo compiendo quell’ufficio o accettando quella responsabilità. 

Di qui viene fondamentalmente la passione, dalla scoperta che in quella missione è nascosto il mio io, quello più vero e che son “chiamato” a essere. E se c’è la passione allora quella missione viene interpretata con intelligenza, con creatività e fantasia, con piena dedizione e generosità, senza troppi calcoli, e in ogni età della vita, anche se in modi diversi. La missione è la mia vita. 

Forse a qualcuno potrebbe venire in mente la figura del vecchio missionario, o del missionario classico, malato di “mal d’Africa”, che non potrebbe pensarsi fuori della sua missione, e quando torna nella patria d’origine non vede l’ora di “tornare a casa”, ove è la sua vera patria; o del missionario moderno, tipo p.Giancarlo Bossi, che non ci pensa su due volte a tornare tra la sua gente, quella gente che sente davvero sempre più sua, anche dopo l’esperienza del rapimento. Questi esempi ci aiutano a capire il concetto, riguardante ogni credente divenuto adulto nella fede, non solo il missionario in terre lontane. 

 

Missione come coscienza dell’invio 

La seconda caratteristica della missione è che nasce come fatto relazionale, e non puramente autoriflessivo, anzi addirittura come scelta che viene da un altro, prim’ancora che come scelta propria: c’è un altro (un Altro) che sceglie e che invia. E l’inviato ha dunque la consapevolezza di non esser lì semplicemente in nome proprio, ma di aver ricevuto un incarico da parte di un altro, al quale render conto. Quest’altro, per il credente, è Dio. Che è il massimo della trascendenza, dalla quale scaturisce anche il massimo del senso obbedienziale per l’uomo. Mai la creatura si sente chiamata e inviata come quando è il Creatore che la chiama e invia.

E questo aumenta ancor di più la passione per la missione, passione come urgenza, come non poterne fare a meno, come imperativo categorico esistenziale… “O Africa o morte”, diceva e ripeteva ai suoi il beato Comboni (tutto il contrario dell’“armiamoci e partite” di chi mandava gli altri a combattere e magari a rimetterci la pelle). 

Ma non c’è solo un dovere di obbedienza all’origine della missione cristiana, o che spinge o “costringe” il bravo credente a non potersi tirare indietro. Il Dio che invia è un Dio che è appassionato per il mondo e la sua salvezza, per la creatura che si sta perdendo, e proprio per questo chiama un’altra creatura, non tanto per distribuire incarichi e dare a ognuno qualcosa da fare nella sua impresa, ma per trasmettere anzitutto a ogni credente la sua stessa passione divina per la salvezza. La missione è già salvezza, è subito salvezza per il missionario; la chiamata di Dio che invia è già esperienza dell’amore che salva per colui che è chiamato e inviato; anzi, è la sua maniera di sperimentare la salvezza, non solo perché se non obbedisce offende Dio e si pone fuori della logica salvifica, ma perché – ancor prima – nell’esperienza dell’esser inviato, si ritrova ricco d’un amore che viene dall’alto. Perché il Dio che lo chiama e lo invia gli trasmette per prima cosa la sua stessa divina passione per l’uomo. 

Ecco perché questa coscienza dell’invio da parte di Dio è fondamentale nella prospettiva credente, e la stessa missione, come dicevamo prima, non può ridursi a semplice operazione pastorale o filantropica. Ma è subito, per natura sua, grande esperienza di Dio per colui che è inviato, nel quale la percezione della vocazione missionaria si salda immediatamente con la sensazione d’un amore, d’un interesse, d’una preoccupazione per l’altro che è inedita, che gli viene dall’alto, da Dio. 

Chiaro, allora, che questo suppone – sul piano pedagogico – una grande attenzione alla dimensione spirituale, del colloquio con Dio, dell’esperienza di lui intesa come esperienza d’un amore nuovo e inedito; non umano, potremmo dire, proprio perché è l’amore o la passione per il mondo che Dio mette nel cuore di colui che chiama e invia nel mondo. 

Proprio per questo l’esperienza missionaria, cioè dell’inserimento immediato nel luogo di missione o del contatto diretto con la situazione missionaria, non va enfatizzata come se automaticamente facesse nascere la vocazione missionaria. È un’esperienza e, come tutte le esperienze, non è scontatamente formativa, ma semmai va preparata, curata, proposta in proporzione al livello di maturità generale credente del giovane. Soprattutto va curata la sua dimensione spirituale, cioè in fondo l’area della motivazione, perché scatti nel suo cuore umano la passione divina per la redenzione dei fratelli. 

Da un punto di vista pedagogico, potremmo allora dire che l’attenzione prima non dovrebbe essere per l’esperienza missionaria che forma alla missione, quanto per il giovane che va formato ad una sensibilità missionaria

Ovvio che poi ad un certo punto le due cose, esperienza e cammino spirituale, debbano camminare assieme, ma ponendo sempre al centro l’esperienza spirituale del giovane. Non siamo dunque ingenui e banali, o più attenti e interessati al gruppo che fa esperienza – esperienza “forte” naturalmente, come si dice oggi – che non al singolo che deve crescere nella sensibilità missionaria. Le leggi della crescita vanno rispettate, e non c’è alcuna crescita senza tempo dedicato alla singola persona e al suo dialogo con Dio. 

 

Missione come passione per l’altro 

È il frutto del punto precedente: laddove è curata la dimensione spirituale del contatto con Dio la passione per l’altro ne deriva non solo come conseguenza, ma come contenuto di questo contatto, come ciò che lo conferma e ne dichiara l’autenticità. Quando invece la vita spirituale del giovane non conduce a questa passione, è lecito dubitare della qualità di quell’esperienza spirituale. 

Il rapporto con il Dio dei cristiani si qualifica proprio per questa condivisione di passione, quasi un travaso dal cuore di Dio al cuore di chi in lui crede. 

Che non va inteso, comunque, come un atto moralistico, di amore dovuto, perché proprio l’amore è il più grande dei comandamenti, ma come – ancora una volta – esperienza della propria redenzione. È fondamentale aiutare e provocare il giovane a compiere questo tipo di esperienza della salvezza cristiana (e di Dio, in ultima analisi), come ciò che ci salva esattamente dal nostro peccato per eccellenza, cioè dall’egoismo, dalla filautia, dal ripiegamento sui nostri problemi, compresi quelli spirituali, o dalla preoccupazione esclusiva della propria redenzione o perfezione… Attenzione: esiste anche l’egoismo spirituale (quello di chi è concentrato solo sulle proprie economie, in vista del proprio paradiso), che forse è la forma più grave, più sottile e diabolica di egoismo. Ora, quale esperienza di Dio fa colui che si preoccupa solo della propria salvezza e santità, e magari concentra i propri sforzi, ovvero devozioni, comportamenti, osservanze, rinunce e quant’altro per provvedere a sé? Tutt’al più pregando per il mondo peccatore, o predisponendosi, nel migliore dei casi, a vivere una qualsiasi missione come soprattutto un impegno ricevuto da un altro, sì, ma che gli resta esterno, quasi una conseguenza della sua magnanimità, un gesto alla fin fine di superiorità nei confronti degli altri. No, non può esser questa la salvezza! 

Siamo salvati – lo ripetiamo – proprio perché siamo liberati dall’invadenza presuntuosa dell’io, dalla sua autosufficienza, che si converte poi in depressione-disperazione, che a sua volta ci mette dentro la tensione narcisista per la nostra salvezza personale; e siamo salvati nel momento e nella misura in cui ci liberiamo da tutte queste pose artificiose e infantili e decidiamo, da adulti, di farci carico della salvezza dell’altro. Perché ce ne sentiamo responsabili. Perché è la cosa più naturale e consequenziale che può fare chi si sente salvato e diventa adulto nella fede. Oltre ogni infantilismo e senza alcun eroismo. La crisi vocazionale che stiamo soffrendo è anche o forse soprattutto una crisi o un blocco nello sviluppo dell’organismo credente, è una forma di infantilismo credente (e dunque poco credente), nel senso deteriore del termine, come un rachitismo dal quale usciremo solo attraverso l’educazione al senso della missione, che per natura sua suppone individui adulti o è il modo migliore di far crescere, di svegliare dal sonno, di scuotere dall’egoismo, di dar un senso alla vita. 

Ecco, dunque, il senso fondamentale dell’esser missionari, come passione dell’esser inviati da Dio per la salvezza degli altri. Fuori di questa passione c’è solo la mestizia del dimissionario. È il caso del giovane d’oggi? 

 

MISSIONARI O DIMISSIONARI?

La domanda è fondamentale. Non solo per capire come sono i giovani d’oggi, ma perché in qualche modo coinvolge anche noi; anzi, la Chiesa intera. Ma andiamo con ordine. 

 

Preti e consacrati/e poco missionari 

Il dato che sembra maggiormente confermato dalla realtà è quello che parla d’una gioventù piuttosto seduta e rinunciataria. Non è una novità, anche se ogni tanto, nei nostri ambienti, magari nei piani più alti dell’establishment ecclesiale o negl’interventi ufficiali dei grandi raduni giovanili (tipo GMG, o visite del Papa nelle varie diocesi) c’è chi non lo vuol vedere questo fenomeno in atto, e parla ancora d’una gioventù unita e compatta, dinamica e intraprendente… Che è esattamente quella che esiste nella sua mente o fantasia, e non nella realtà e nella storia. 

Però, al tempo stesso e senza smentire quanto appena detto, ci sono degli aspetti nella società odierna e nella cultura giovanile che vanno in altra direzione, c’è una ripresa d’interesse circa la spiritualità, c’è maggior consapevolezza dell’intrinseca debolezza e del sottile inganno di certa ideologia, c’è sete di verità, d’autenticità, di coerenza nei giovani d’oggi. Più in particolare don Chavez, rettor maggiore dei salesiani, uno che sta tra i giovani per …missione e per passione, indica questi sei segni positivi nella gioventù odierna: 

1) sono sensibili ai grandi valori; 2) sono cercatori di nuovi valori; 3) pongono domande ricche di senso e mistero; 4) mostrano nuove forme d’impegno; 5) elaborano e usano nuovi e più ricchi linguaggi; 6) chiedono il diritto di avere una loro identità (senza ricopiare semplicemente dal passato)[2]

Ma quanto di tutto ciò diventa passione missionaria? 

Recentemente, al convegno giovanile di Salsomaggiore (febbraio 2008), mons. Sigalini si poneva da pari suo lo stesso problema, formulandolo così: perché ci poniamo il tema della missione nella nostra formazione e nelle nostre prassi pastorali oggi? Compresa quella vocazionale, potremmo aggiungere noi. 

E si rispondeva con termini e nei modi seguenti, che reinterpreto e rielaboro liberamente sul piano delle conseguenze e che riguardano non solo i giovani, ma anche noi[3]

− Perché i giovani che girano nei nostri gruppi parrocchiali o altro sono solo un 2,6% di tutti i giovani italiani, anche quando abbiamo una sensazione diversa nei megaraduni giovanili o in occasione di eventi speciali (quando dobbiamo chiedere in affitto il palazzetto dello sport e il vescovo è tutto contento perché vede tantissimi giovani festanti con chitarra a tracolla e vangelo nella sacca). La realtà è che noi raggiungiamo una sparuta minoranza di giovani. 

− Perché non siamo più in una società cristiana, ma neanche post-cristiana: molti giovani non conoscono Cristo o lo conoscono male e per sentito dire (e lo sentono dire male e in modo tendenzioso o riduttivo); dunque c’è da costruire qualcosa di nuovo, poiché siamo in una società pre-cristiana, che non è neutra, del tutto indifferente e totalmente apatica, ma sembra sensibile a un certo tipo di valori e orientamenti. Però in tutto questo ha bisogno di ripartire daccapo: del primo annuncio, del kerigma, della nuova evangelizzazione. È da ignoranti lamentarsi dell’ignoranza senza provvedere in maniera sistematica a questo primo annuncio per giovani pagani. 

− Perché vediamo giovani che sono stufi marci di questa società e di quella cultura del nulla che li ha esposti al nulla, così come di quella politica insipiente e dannosa che ha tolto loro la speranza di costruirsi un futuro, d’aver una competenza professionale, di trovare un lavoro, costruirsi una casa, farsi una famiglia, fare dei figli…, giovani che stentano a trovar motivi per andare avanti, mentre noi continuiamo ad ignorare questa realtà di sottile o evidente disperazione, né cerchiamo e troviamo parole adeguate di speranza, che rispondano in qualche modo a quei problemi o vi prestino attenzione, come non ce ne importasse niente. Come dire: il mondo cambia e noi, con tutte le nostre compunte lectio, non cogliamo la Parola che Dio ci manda a dire nei cambiamenti. Oppure, detto diversamente: la società ci sta addormentando i giovani e noi non siamo capaci di risvegliarli. 

− Perché a tanti giovani non importa niente di una Chiesa smorta e di un vangelo ingessato, come sovente deve apparire ai loro occhi – abituati ad una comunicazione viva e a colori – quello che noi stancamente ripetiamo; o perché questi giovani sono scomodi e mai contenti di niente e a noi pare disdicevole rincorrerli (che fai, ti metti al loro livello?) ed è difficile interpretare i loro linguaggi e i loro sogni; o perché la droga (non solo quella chimica) ce li brucia prima di incontrarli veramente, o noi arriviamo troppo tardi. 

−Perché c’è molta domanda di Dio tra i giovani e una forte ricerca di spiritualità, ma noi non ci crediamo abbastanza o non la sappiamo intercettare, o perché quando ci chiedono di Dio noi offriamo …un triangolo con un occhio, ovvero non sappiamo andare oltre una risposta dottrinale e povera di vita. 

−Perché pensiamo alla fede come qualcosa da custodire imballato in qualche deposito e non come dono che ridiventa vivo quando lo consegni a un giovane che se n’innamora, e capace di rispondere alle attese e necessità del destinatario, e dunque da rendere attuale e tradurre, eventualmente, in lingua e dialetto locali. Ma siccome questo è troppo faticoso, noi preferiamo ripetere le parole solite, spesso senza vita né calore, tutt’al più appena… estratte dal fornetto. 

−Perché abbiamo ridotto il vangelo a un galateo di buone maniere, mentre la nostra vita (di noi preti e consacrati/e) è fin troppo omologata al contesto sociale attuale (paura d’esserne respinti?) e non suscita più domande; di conseguenza, la vita cristiana è praticamente invisibile o inefficace e meno ancora incisiva, poco profetica e pochissimo missionaria. 

−Perché ci litighiamo indecorosamente le quattro pecorelle rimaste, mentre tutti gli altri che stanno fuori aspettano chi non arriva mai o chi sia capace di dire parole di vita, che scaldino il cuore. 

−Perché non abbiamo ancora capito che son passati i tempi del “perché non possiamo non dirci cristiani”, e che oggi non è più scontato per un giovane sentirsi cristiano; anzi, forse è scontato il contrario, e dunque è necessario costruire un cammino vero e proprio di iniziazione alla fede, senza ignorare o disprezzare il giovane che si presenta come non credente, senza arrabbiarci col tipo, magari un po’ saputello, che mette in discussione la fede e aspetta che noi rendiamo ragione della nostra speranza. 

−Perché mancano alcune categorie-chiave di persone nell’ambito credente: mancano (o scarseggiano sempre più) i narratori (della fede come esperienza), gli educatori (del singolo individuo) e gli amici credenti: i primi ( i “narratori”) son coloro che son in grado di raccontare con parole loro la propria fede, cioè non solo hanno una solida vita spirituale o han “visto e sentito” Dio, ma son capaci di narrare in modo avvincente la loro esperienza, sono i cantastorie del vangelo della vita; i secondi (gli “educatori”) sono quei pochi preti e frati/suore che non si son lasciati sedurre dalla pastorale di gruppo, o magari dei grandi numeri, e pure sfruttandola al momento giusto dedicano attenzione e risorse al rapporto col singolo, col singolo da educare-formare-accompagnare, con tutto il tempo che ci vuole e la dedizione personale; infine gli “amici credenti” sono i coetanei, anzitutto, che non si vergognano della loro fede e che al tempo stesso son rimasti “giovani”, capaci di divertirsi e stringere amicizie, coi quali è più bello e possibile credere, la cui fede sostiene quella di chi si sta aprendo alla fede. 

−Perché ci scoraggiamo e li mandiamo al diavolo, come se il lavoro coi giovani fosse uno di quei lavori in cui il raccolto segue infallibilmente e a breve termine la semina: chi lavora coi giovani consegna sempre a chi verrà dopo di lui il compito di raccogliere i frutti di quel che lui ha seminato e non dimentica che lui stesso sta raccogliendo il frutto di quanto altri han seminato prima di lui. 

−Perché non siamo abbastanza missionari, e dunque siamo anche mezzi depressi, perché un prete ha un’unica possibilità d’esser felice: esser missionario, vero missionario, e c’è chi dice, tra i preti stessi, che tale “miracolo della beatitudine è purtroppo raro tra noi pastori”[4], o perché abbiamo un po’ perso il gusto della missione o perché temiamo di “perder la vita”[5] … 

Come si vede, allora, non sono solo i giovani che corrono il rischio d’esser dimissionari, ma anche chi li dovrebbe educare-provocare al senso della missione, alla passione per la missione. 

Ma proseguiamo nella nostra analisi. 

 

Una Chiesa poco missionaria 

La teoria al riguardo è chiara: c’è un’ecclesiologia che, a partire dal Vaticano II, s’è ormai affermata, secondo la quale “la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito che essa, secondo il disegno di Dio Padre, deriva la propria origine”[6]

E in quale direzione va questa missionarietà o qual è il suo oggetto? “Tutto l’essere e l’agire della Chiesa è caratterizzato dal dinamismo di “essere inviata per radunare” e di “essere radunata per inviare”. La Chiesa esiste ovunque per la missione, e “ogni vocazione è data per la missione”. Più in particolare l’attenzione missionaria dovrebbe prendere queste tre direzioni: 

-la cura pastorale dei cristiani, 

-la nuova evangelizzazione di coloro che non sono più cristiani, 

-la prima evangelizzazione dei non cristiani”[7]

Chi è il soggetto di questa missione? La risposta viene addirittura dal primo invio cristiano: non si evangelizza mai da soli, ma sempre in gruppo, o in situazione di relazione vissuta: “il vangelo si annuncia bene almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72; fino a giungere a creare una Chiesa idealmente tutta evangelizzatrice, ove gli evangelizzati diventino a loro volta tutti evangelizzatori, ove i laici non vengano usati come ausiliari utili, riservisti costretti a scender in campo per aiutare i pochi effettivi, ma aiutati e formati nella verità della loro vocazione, per divenire collaboratori responsabili e indispensabili, apostoli e annunciatori!”[8]. Insomma, i diversi aspetti della missione ecclesiale incombono globalmente a tutto il popolo credente; e “ogni membro della Chiesa è interpellato dagli sconfinati orizzonti della missione evangelizzatrice della Chiesa, secondo la vocazione propria”[9]

Ebbene: possiamo dire che la Chiesa oggi stia dimostrando questa tensione missionaria? 

In grande sintesi, potremmo dire così: ci pare che la coscienza missionaria risenta ancora moltissimo di tempi in cui erano solo i sacerdoti i titolari dell’annuncio, ed è strano che la contrazione vocazionale sacerdotale non abbia ancora determinato un aumento della coscienza laicale in senso missionario o di responsabilità dell’annuncio. Da cosa dipende? Forse dalla gelosia presbiterale, così lontana dalla libertà di cuore di Mosè (“magari fossero tutti profeti!”)? 

Di fatto non è così evidente, nelle nostre fraternità, la prospettiva comunitaria dell’annuncio, che molte volte pare nella Chiesa esser gestito entro ottiche narcisiste e con finalità molto riduttive, perché centrate troppo sul soggetto singolo, titolare dell’impresa (e che impresa impossibile quando uno se la carica tutta sulle sue spalle!): che la missione sia fenomeno prevalentemente comunitario pare ancor lontano dal divenire mentalità comune. Con tutte le conseguenze del caso. 

Riguardo all’oggetto o alle direzioni da prendere mi sembra interessante quella triplice distinzione prima accennata, che sembra supporre anche diversi tipi di competenze e capacità nell’annuncio. Diciamo che la stragrande maggioranza dell’attenzione missionaria della Chiesa sembra andare nella prima direzione (la cura pastorale dei cristiani), in una prospettiva un po’ autospeculare, dominata dalla preoccupazione di mantenere e conservare, di protezione dello status quo, di difendersi dal nemico chiudendosi nella cittadella fortificata. Paiono molto meno trafficate le altre due direzioni (la nuova evangelizzazione di coloro che non sono più cristiani, e la prima evangelizzazione dei non cristiani). Riprendendo la formula prima detta, c’illudiamo d’essere ancora in una società post-cristiana, non abbiamo il coraggio di entrare nell’era pre-cristiana. 

Insomma, questa analisi sta a dirci che non possiamo certo accontentarci di dire che il problema (vocazionale) oggi sono i giovani debosciati e sfaticati, poco credenti e dimissionari, ma prima di tutto noi, oggi, siamo sempre meno missionari. 

 

EDUCARE ALLA MISSIONE ALLARGANDO GLI SPAZI

Sappiamo quanto il tema educativo sia drammaticamente attuale, e come rappresenti un tema su cui il Papa Benedetto XVI ama soffermarsi, al punto d’avergli dedicato una Lettera, indirizzata alla chiesa di Roma, quanto mai intensa e vibrante[10]. È un vero grido che il Papa leva su quella che chiama efficacemente “emergenza educativa”. Emergenza determinata da un fenomeno oggi purtroppo piuttosto evidente: il fenomeno della latitanza delle agenzie educative, di cui anche noi abbiamo più volte parlato nei nostri convegni vocazionali[11]. La cosa per noi più preoccupante è che nel panorama di queste assenze più o meno colpevoli e marcate (da parte dei classici soggetti di educazione come la famiglia, la scuola, il gruppo, la cultura, i mass-media…), vi sia anche la Chiesa, da sempre maestra di educazione. Non vogliamo esser pessimisti, ma è certo che anche la comunità ecclesiale e la nostra pastorale oggi risentono di questo clima incerto e un po’ depresso, mentre proprio questo tono minore è un motivo in più per investire in quest’opera indispensabile: quella dell’educazione. E dell’educazione alla missione, sottolineiamo in particolare ora. Come? 

C’è una formula, coniata sempre da Benedetto XVI, a proposito dei rapporti fede-ragione, altro tema costante nel magistero ratzingeriano: è l’invito ad “allargare gli spazi della razionalità”. Tale espressione può diventare molto illuminante anche per noi, perché l’educazione alla missione è esattamente un’operazione di allargamento, di rottura di certi confini, di aria fresca e nuova da respirare e far respirare, di uscita dalla propria terra, di nuovi orizzonti, di nuove vocazioni anche, certo, per un nuovo cristianesimo e una nuova Chiesa… Mentre una pastorale vocazionale non abbastanza aperta alla missione si chiuderà sempre più in se stessa a perseguire obiettivi riduttivi e mercantili, facendo conti che non tornano, deprimendosi e rendendoci tutti un po’ depressi e disperati… 

Partiamo allora da questo principio: solo una pastorale missionaria può dar luogo ad un’educazione vocazionale missionaria, con l’accompagnamento implicato. Proviamo allora a declinare questa espressione in termini di educazione vocazionale alla missione. 

 

Allargare gli spazi dell’animazione vocazionale (ovvero l’animazione vocazionale come missione) 

Anzitutto c’è da “allargare” l’idea stessa di animazione vocazionale in termini di missione. Ovvero è da chiedersi anzitutto quanto i singoli animatori vocazionali sentano tale impegno come una missione, come un esser inviati da Colui-che-chiama a coloro che sono chiamati, esattamente per aiutarli a riconoscere la voce chiamante, a percepire nel sogno di Dio la loro personale strada, ad entrare nel mistero dell’eternamente Chiamante. Al di fuori di questa prospettiva, quello dell’animatore vocazionale rischia di diventare solo un incarico, piuttosto ingrato e pochissimo ambito, ricevuto dal vescovo (o dal superiore religioso) che non sapeva a chi rifilarlo; quello stesso vescovo che, ad ogni occasione, t’incrocia con quel suo sguardo che ti fa sempre sentire in colpa, per rivolgerti poi la fatale domanda, quasi ritornello ossessivo-compulsivo: “Quanti entrano quest’anno?” (e tu che lo manderesti con tutto il cuore a quel paese…), come se l’animazione vocazionale si misurasse coi numeri. Forse, anche a livello istituzionale, occorre allargare questo spazio. Animazione vocazionale è missione, a tutti gli effetti; e l’animatore vocazionale è missionario, inviato in una terra di missione, perché tale è la situazione del giovane oggi, esattamente come un missionario[12]

Inoltre allargare lo spazio vocazionale implica alcuni atteggiamenti che abbiamo ripetuto più volte e che non dovrebbe essere necessario commentare. Vi faccio solo un breve accenno. 

Significa estendere per prima cosa l’ambito dei missionari animatori vocazionali, che non possono esser solo quelli che ufficialmente hanno ricevuto l’incarico. O facciamo tutti questa missione dell’animazione vocazionale, o continuerà solo qualche disgraziato a rompersi la schiena senza raccogliere alcun frutto. 

Significa ancora, e soprattutto, che va modificato il punto di partenza (e d’arrivo), ovvero la prospettiva generale in cui si pone l’animatore vocazionale: non più il pretino, ma il credente chiamato a divenire adulto e dunque a viver la vita come una missione, non più gl’interessi dell’istituzione, ma quelli del Regno, che si compie e viene a noi attraverso l’opera degli annunciatori del Regno. 

E infine, va ampliato l’uditorio, il bacino d’utenza, che non può più limitarsi ai nostri, ai piccoli, ai buoni…, ma va esteso a tutti, in teoria, e il più possibile, in pratica[13]. Non per una questione di convenienza e di calcolo (più sono i destinatari della proposta, maggiore sarà la possibilità-probabilità d’accoglienza della proposta stessa…), ma per una questione “teologica”, perché il nostro Dio chiama e invia tutti in missione. Chi siamo noi per limitare in partenza chiamata e invio? Come dire: chi siamo noi per limitare Dio? 

 

Allargare gli spazi della ragione e dell’evangelizzazione 

La prima parte dell’espressione è quella che tanto piace a Benedetto XVI, e che tanto significativa può divenire per noi. Chesterton dice che il guaio dell’uomo moderno non è d’aver perso la fede, ma la ragione; potrebb’esser vero anche per noi, anche per l’animazione vocazionale, tutto sommato poco intelligente. 

Può voler dire, stando ancora allo spirito dell’intervento del Papa, anzitutto una ragione che non si chiude in se stessa né si limita ad osservare il problema dal punto di vista puramente razionale, del cosiddetto buon senso, così buono e prudente quanto pagano, o di quello che si nutre di sondaggi e proiezioni (poi magari regolarmente smentite), come quella secondo la quale dovremmo già esser morti da tempo e comunque lo saremo tra breve. Benedetto XVI dice che alla radice della crisi dell’educazione c’è proprio «una crisi di fiducia nella vita», e che «anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere soltanto una speranza affidabile»[14], in un Dio affidabile[15]. Dunque anzitutto un allargamento della ragione nella direzione della fede, della speranza, dell’ottimismo credente, del mistero. Altrimenti ci riduciamo a fare gli amministratori o i funzionari, senza più alcuna fiducia in cuore. 

Al tempo stesso tale estensione intelligente fa scorgere al pastore le possibili direzioni d’una azione intelligente e coraggiosa. E sarebbero quelle tre prima indicate: 

-la cura pastorale dei cristiani, 

-la nuova evangelizzazione di coloro che non sono più cristiani (o che vivono stancamente la loro fede), 

-la prima evangelizzazione dei non cristiani. 

Abbiamo già detto che di solito si pensa solo alla prima, mentre non c’è abbastanza coraggio e inventiva per provvedere anche alle altre due e per sfruttare le occasioni in tal senso. 

 

Nuova o prima evangelizzazione 

Pensiamo in questo paragrafo ai cosiddetti “credenti occasionali”, coloro che si ritrovano in chiesa dopo tanto o tantissimo tempo, in circostanze eccezionali, ma pensiamo pure a chi magari frequenta con una certa regolarità, ma dà segni evidenti d’una fede che si va smarrendo. Partiamo da una scena abbastanza nota nel nostro ambiente: una celebrazione d’un sacramento, un matrimonio ad es, con molta gente che è lì solo perché non potrebbe farne a meno. È uno dei momenti che fanno più innervosire un parroco: celebrare alcuni riti particolari (un matrimonio, un battesimo, un funerale…) con persone che vengono lì solo “perché tocca”, o perché invitati o magari addirittura padrini/testimoni, ovvero coloro che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini puramente sociali. Che rabbia vederli lì a bocca muta, o persino chiacchierare e ridere. “Allora don Paolo non ci vede più, è come se celebrasse quei riti stizzito, e magari ne approfitta per fare battute velenose e polemiche all’indirizzo di questi signori da cui si sente come sfruttato, per rimproverarli e ricattarli in qualche modo, e magari giungere a impedirgli di “venire ipocritamente a far teatro in chiesa”, come una volta molto elegantemente s’espresse. 

Il risultato è che questa gente si guarda bene dal rimetter piede in chiesa”[16]. Mentre potrebbe essere un’occasione da sfruttare. Si potrebbe così rispondere alla rabbia di don Paolo, con parole che sembrano venire da san Paolo, missionario di Gesù Cristo: “Cosa puoi esigere da queste persone, se non hanno, non hanno mai avuto o non hanno più le motivazioni che vengono dalla fede? Ringrazia Dio tutte le volte che capitano a Messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i loro figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli. Accogliendoli così come sono, non farai finta né pretenderai che abbiano le motivazioni giuste (come se tu le avessi sempre…). Quindi non rimproverarli e non ricattarli, non imporre loro dei compiti come se avessero le stesse tue sollecitazioni a credere, non parlare loro né far loro prediche come se avessero la fede e come fossero del tutto responsabili e colpevoli di non possedere o di non aver più tale dono (che ne sai tu della loro storia personale?). Ti comporterai da missionario, né più né meno: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare”[17]

In altri termini potremmo anche ripetere: si tratta di passare dalla logica del postcristiano a quella del pre-cristiano, di qualcosa da costruire, non solo da conservare, con tutti i suoi equivoci magari; d’una nuova evangelizzazione per chi ha smarrito la fede d’un tempo, d’una prima evangelizzazione per chi non ha mai goduto del dono della fede. 

Cosa c’entra questo con l’educazione vocazionale missionaria? C’entra, perché anzitutto dice un atteggiamento generale pastorale che va in una prospettiva missionaria, e questo rappresenta una premessa importante, come una condizione o un elemento che predispone positivamente a fare un annuncio anzitutto con cuore missionario, dal punto di vista dello stile dell’annunciatore, e – dal punto di vista del contenuto – un annuncio, un primo annuncio che sa subito di missione, che propone una missione, un cristianesimo per persone adulte, non per bambini, una fede, dunque, forse abbandonata proprio perché infantile, perché non abbastanza responsabilizzante, in un Dio non percepito come colui-che-chiama, come colui-che-invia… E il semplice invitato alla celebrazione del matrimonio o del battesimo si ritrova ad esser inviato; o da semplice spettatore o consumatore di riti, si trova confrontato con un Dio che ha bisogno di lui e lo invia nel mondo. 

 

Dall’invitato all’inviato 

Il punto che voglio sottolineare è molto importante e forse non scontato: sto dicendo che la chiamata non è solo conseguenza d’una fede matura, com’è per altro giusto e come di solito s’intende, ma potrebbe anche essere cammino propedeutico della fede, alla fede. Il cammino vocazionale non segue solo la traiettoria che va dalla fede alla scelta vocazionale di una missione in cui riconoscersi, ma potrebbe anche seguire il cammino inverso, dalla missione alla fede. 

Detto diversamente: l’annuncio essenziale (o kerigmatico) di un cristianesimo subito inteso come dono di Dio che evoca una risposta o che affida un compito al credente non potrebbe diventare il modo migliore di recuperare una fede viva, consapevole, responsabile, adulta? Almeno in certi casi, quando, ad es, la fede stessa è stata abbandonata da tempo e forse sentita come roba da infanzia o per tipi pavidi o vicini al rendiconto finale[18]. Pensiamo quanto questo potrebbe diventare possibile ed efficace con dei genitori i cui figli ricevono i sacramenti: la prima comunione del figlio (o del figlioccio) potrebbe diventare occasione per far recuperare al genitore (o al padrino) il senso autentico del credere cristiano, a partire proprio dall’idea della missione, che si coniuga molto bene con la responsabilità che in quel momento sta vivendo il genitore nei confronti del figlio. 

Vediamo, allora, se possibile e senza particolari pretese, di fissare in alcuni punti pratici la pedagogia dell’annuncio missionario nella pastorale ordinaria, particolarmente in riferimento a chi ha smarrito la propria fede e si trova occasionalmente a frequentare la parrocchia o l’ambiente credente, ma anche in riferimento a chi vive stancamente la propria fede, o non ha mai avuto l’annuncio della fede. 

 

Educare alla missione per rieducare alla fede 

Quelle che seguono sono come delle regole che potrebbero servire per misurare lo spirito missionario del pastore, quale educatore e accompagnatore vocazionale. Sono una mia rielaborazione libera dello pseudo-epigrafo paolino già citato: 

1- Non maledire i tempi correnti, anzitutto. Semmai pensa che è arrivato al capolinea il cristianesimo dell’abitudine e sta rinascendo, lentamente, il cristianesimo per scelta, per innamoramento, per assunzione adulta d’un compito e d’una responsabilità nei confronti della comunità. 

2- Non anteporre nulla all’annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse, ogni dubbio, ogni paura e riporta tutto lì, al centro di tutta la fede. Ma per fare risaltare, nel kerigma, il kerigma vocazionale[19], ovvero quell’appello che è parte intrinseca del dono della fede, che emerge subito da essa, perché non c’è adesione credente laddove non c’è adesione alla missione che Dio affida a ognuno per la salvezza degli altri. 

3- Annuncia allora il cristianesimo delle beatitudini, ovvero quella gioia pacata credente, che deriva dall’accoglienza del dono e dall’assunzione della propria responsabilità nei confronti dei fratelli. Senza dimenticare che il pastore ha un’unica possibilità d’esser felice: esser missionario, vero missionario. E non vergognarti mai del vangelo della croce, perché è la buona novella capace di metter insieme la certezza dell’amore ricevuto e la provocazione dell’amore da dare: nulla come la croce dà entrambe queste certezze, che sono il cuore di qualsiasi scelta missionaria. La croce è la più grande ed efficace animazione vocazionale! 

4- Il vangelo, compreso questo delle beatitudini e della croce, è da proporre, non da imporre. La Chiesa non può adattarsi a nessun talebanesimo, a nessun fondamentalismo o falsa certezza immotivata. Non imporre mai, dunque, una novella che è bella e buona a nessuno, nemmeno ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita. Chi crede in quel che fa non costringe nessuno ad entrare nella sua prospettiva. E tu pensa a esser convinto e persino innamorato di quel che fai; e dunque non assumere mai l’atteggiamento del pastore arrabbiato, innervosito, furente…, non ti s’addice, faresti – primo – una gran brutta figura rischiando il ridicolo; secondo, ti metteresti in contraddizione con te stesso e con la tua missione, poiché saresti in quel momento un perfetto disanimatore vocazionale; terzo, daresti il sottile messaggio, se t’arrabbi così tanto, che quello che stai facendo non lo stai facendo per amore, per amore di Gesù, per amore degli altri, ma per te stesso (la famosa idolatria del reverendo), per questo il rifiuto o l’indifferenza per quanto stai dicendo o facendo lo senti come rifiuto o indifferenza per la tua persona. 

5- Non amareggiarti per l’indifferenza dei “lontani” o l’apatia dei vicini, e – per favore – non invocare mai il fuoco dal cielo perché consumi gli uni e gli altri, ma fa’ festa anche per uno solo di loro che si converte (ed è conversione anche la conversione dell’apatico in appassionato, ma soprattutto quella del don…). 

6- Ricorda: il kerigma non è un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è semmai da reinterpretare secondo l’evoluzione della persona. Non ti dice niente il fatto che la grande maggioranza dei ragazzi, quando stanno entrando nella giovinezza mollano fede, chiesa e dintorni? È come se avvertissero che la religione non ha più nulla da dar loro, non è più significativa per uno che sta diventando adulto. Non potrebb’esser segno che non è stata abbastanza sottolineata la dimensione della missione, che vuol dire alla radice responsabilità, farsi carico dell’altro, sentirsi implicato nella vicenda della salvezza altrui, e che è ciò che rende adulto nella fede il credente? Non credi che ci sia un cristianesimo tutto ancora da dire, da tradurre e da inventare in questi termini più adulti e maturi? È bello seguire i bambini che ti dicono sempre di sì, e i preadolescenti con tutte quelle proposte che ci sono nel settore (cf Qumran e simili); mentre è più difficile accompagnare il cammino di chi sta diventando adulto o è adulto, perché lì si tratta d’inventare una pastorale adeguata che probabilmente ancora non c’è, ma che ruota tutta attorno all’idea di missione. 

7- Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti. Perché i perfetti sono bravi, ma di solito anche individualisti, e chi è individualista non può, per definizione, prendersi cura degli altri, cioè non capirà nulla del concetto di salvezza cristiana e di missione. E se ne hai, in parrocchia, di perfetti, cerca di fargli capire che anche chi ha la patente della perfezione ha bisogno d’essere rievangelizzato, altrimenti… gli tolgono la patente! 

8- Non credere di comunicare il vangelo da solo, né di poter trasmettere la passione della missione da solo! Abbiamo già detto che il vangelo va annunciato almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Fondamentale, dunque, creare un gruppo di parrocchiani o collaboratori corresponsabili: non solo per avere qualcuno che ti dia una mano, ma perché sarebbe assurdo predicare la missione, tutta fondata sull’idea della solidarietà fraterna, del prendersi cura l’uno dell’altro, senza di fatto cominciare a realizzare questa idea della fraternità responsabile e di alcuni che in modo particolare vivano la missione come vocazione (da chi sceglie di far parte del consiglio parrocchiale a chi anima la liturgia, da chi s’occupa della Caritas a chi offre da volontario il suo tempo per varie necessità, da chi si prende cura degl’immigrati al ministro straordinario dell’Eucaristia…). 

9- Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati e provocati a divenire collaboratori corresponsabili. Che è un modo diverso di dire che prima va curata la loro risposta vocazionale personale, e solo poi possono esser coinvolti in un’azione pastorale missionaria corale. 

10- Non ridurti mai a fare il vigile del traffico interparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore o il primo missionario, senz’alcuna presunzione, anzi, sei il primo missionario pronto a lasciarsi evangelizzare, nella missione e dalla missione che il Signore ogni giorno gli affida. D’altro canto, solo un missionario può educare alla missione e dunque anche proporre una chiamata alla missione. 

 

Accompagnamento vocazionale missionario 

Vediamo ora invece la situazione più specifica e anche più evidente da metter a fuoco, almeno rispetto alla precedente, ovvero l’accompagnamento vocazionale missionario, o con prospettive in tal senso. 

Educare-formare alla missione come vocazione 

Abbiamo già detto diverse cose riguardo a questo punto; ora cerchiamo solo di riassumere quanto detto e porlo in ordine, usando anche qui una sorta di decalogo, più o meno conclusivo e che serva da verifica per ogni accompagnatore vocazionale. Anche qui c’è un allargamento di vario genere da attuare. 

1. Proponi l’accompagnamento personale come mezzo normale di crescita, non come strumento ancora legato a particolari problemi (di solito sessuali, chissà perché). E più in particolare come mezzo normale di crescita nella capacità decisionale, tipica dell’adulto, e in vista della scoperta della propria strada o dell’assunzione d’un compito da portare a termine, cui è legata la propria identità e che viene da Dio. Abbi il coraggio di offrire questa opportunità a più persone possibili, anche se questo ti porterà via tanto tempo, non avverrà sotto la luce dei riflettori (che sono puntati altrove) e non sarà tanto pastorally correct, almeno secondo la pastorale oggi più in voga, che privilegia gruppi e riunioni e si commuove o si esalta dinanzi ai megaraduni. 

2- Ma vivilo come una missione, che non è solo legata all’animazione vocazionale, ma al tuo essere in quel momento educatore, dunque collaboratore del Padre, per far emergere del tutto il suo sogno su quella creatura. Ti pare poco? Più missione di così?! 

3- Non ti aspettare grandi entusiasmi di ritorno, sia per quanto riguarda l’accettazione della proposta, sia soprattutto per quanto concerne la qualità della risposta e della collaborazione. Quando questo tipo di lavoro va bene, paradossalmente, fa male, e il soggetto mostra resistenze varie, paure singolari, voglia di mollare tutto… Perché quando questo lavoro va nella direzione giusta (e non si riduce a un’operazione consolatoria, o a puro counseling) complica la vita e mette di fronte alle proprie responsabilità. Non è poi così strano che il giovane mostri disagio e voglia di cambiare o finire tutto. Ma occorre che la guida sia sicura di sé e della sua personale scelta di vita, ovvero che interpreti quanto sta facendo nella linea della missione, senza aspettative di ricompense varie, unicamente per compiere la missione che il Padre gli ha affidato. 

4- Più in particolare l’azione pedagogica deve allargare lo spazio della razionalità per rispondere alla sete di verità, e si scompone per questo in due momenti successivi: educazione e formazione. La prima significa un tipo di operazioni volte a far emergere la verità della persona, anche quella negativa, ovvero tutto quell’insieme di negatività e inconsistenze che gl’impediscono d’aprirsi liberamente alla verità, bellezza e bontà o di coglierle nel loro splendore e come fonte della sua propria identità, come abbiamo visto or ora nel paragrafo precedente. In pratica, non aspettarti allora un abbraccio immediato dell’idea di esser chiamato e inviato da Dio; scatteranno barriere e censure, sordità e cecità, paure e fobie, precomprensioni e illusioni nei confronti di quest’idea. Né è detto che tutto ciò sia negativo. Importante sarà che tu non ti spaventi, magari piantando tutto. Se prima dicevamo che è importante la rettitudine interiore della guida, che sente il suo compito come una missione, ora diciamo che è importante pure una certa competenza, nell’aiutare il giovane a identificare con precisione i propri fantasmi e le ragioni vere dei propri timori, e a liberarsene lentamente e progressivamente. Chissà quanti “aborti vocazionali” sono legati alla mancanza di questo lavoro educativo![20] 

5- Formazione, invece, vuol dire “proporre una forma”, nel senso pieno del termine, una forma che ora possiamo intendere soprattutto come la missione del soggetto secondo il piano di Dio. Il tuo ruolo è soprattutto questo: saper disegnare e mostrare al giovane la forma del Figlio di Dio, l’inviato del Padre, nel quale siamo stati tutti creati e scelti, in modo così avvincente, o da innamorato, da fare scoccare nel giovane la scintilla del riconoscimento della propria forma, o della propria verità, in quella del Signore Gesù. Questo è ciò che dà senso all’accompagnamento, che dunque è ben lungi da una semplice cura estetica o da una terapia psicologica. Va da sé che questo esige da parte tua una grande coerenza. Non dimenticarti quella frase di s. Ignazio d’Antiochia, poi ripresa da ogni sistema pedagogico: “Si educa o si forma attraverso ciò che si dice, di più ancora attraverso ciò che si fa, di più ancora attraverso ciò che si è”[21]

6- In tal senso, allora, può esser molto utile allargare lo spazio dell’accompagnamento individuale in modo intelligente, oltre l’ambito del colloquio regolare, verso uno spazio diverso, lo spazio dell’esperienza d’una missione. Da calcolare in modo intelligente e proporzionato al livello di crescita del giovane, da leggere insieme, e magari anche da fare insieme, idealmente, guida e guidato. Sarebbe davvero un accompagnamento alla missione nella missione e attraverso la missione. E forse è il metodo più intelligente: “la vita viene destata e accesa solo dalla vita”[22]

7- Educare e formare significa ancora allargare lo spazio dell’intervento pedagogico, oltre i comportamenti e la condotta puramente esteriore, per giungere al cuore, alla coscienza, ai sentimenti…, e far nascere la libertà di far le cose per amore. Non accontentarti di osservare il lato esteriore di colui che guidi, altrimenti è alto il rischio d’una ambiguità di fondo, d’un atteggiamento compiacente da parte del giovane e d’un discernimento errato alla fine. Proprio per questo l’attenzione deve essere globale; per questo può essere utilissima l’esperienza missionaria fatta assieme, ove l’educatore può notare “in diretta” molte cose di cui il giovane stesso è ignaro; per questo è fondamentale insegnare al giovane non solo a leggere, ma a farsi leggere dalla Parola[23], non solo a fare l’esame di coscienza, ma alla (o della) coscienza[24]

8- Stai attento a non presentare la missione come qualcosa di straordinario per persone straordinarie, ma come la conseguenza naturale e assolutamente inevitabile della percezione del senso profondo della vita e della sua grammatica interna: la vita è un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. La missione si pone lì, in quel nesso tra la scoperta grata del bene ricevuto da altri e la decisione, perfettamente consequenziale, quasi già inscritta nella natura, di metter questo bene a disposizione degli altri, nelle varie forme che corrispondono alla vocazione d’ognuno. Questa è la logica della vita, la sua verità, vera per tutti, che per un credente in Cristo e nella sua pasqua di morte e resurrezione assume ancor più splendore di verità. Fallo capire ai tuoi giovani (specie a chi è portato a sentirsi un eroe): chi non coglie l’assoluta naturalezza dell’idea di farsi carico degli altri attraverso una missione non è sano di mente, sul piano umano, né di cuore, sul piano cristiano.

9- Se la missione non è per eroi o aspiranti tali, attento anche a un’altra categoria di giovani, oggi in aumento, si dice: gli (pseudo)contemplativi. Coloro che sembrano dover o voler fuggire dal rapporto con gli altri, o comunque poco sociali, quasi imbranati nella relazione, oppure ricercati e complicati nel porsi in rapporto coi simili, quasi fosse una loro degnazione, quelli che non possono sporcarsi le mani nella vicenda umana e che esibiscono, al contrario, una grande attrazione per lo spirituale, per la liturgia (o un certo tipo di liturgia), rifugiandosi sovente in improbabili rapimenti (pseudo)mistici. Attenzione, la vocazione contemplativa è altra cosa: è qualcosa che include in sé la passione della missione, non le è alternativa; è lo sbocco d’un cuore innamorato, non d’un cuore vuoto o pieno solo del suo io o preoccupato solo della sua propria perfezione. In ogni caso, formazione non è concentrazione su di sé, sforzo titanico di interiorità privata, ma apertura indispensabile alla comunione con gli altri. Tanto più formazione alla missione. Non c’è speranza in nessuna solitudine o in nessuna auto concentrazione. 

10- E proprio per questo motivo la tua azione non può limitarsi al singolo, ma dovrebbe sempre più allargarsi al gruppo, all’azione missionaria di gruppo, non proposta e poi lasciata solo alla testimonianza privata, ma vissuta come esperienza e compromesso di tutto il gruppo. Aumenta infatti l’efficacia dell’esperienza stessa se condotta assieme agli amici credenti. E poi non dimenticare: la Chiesa “è inviata per radunare” ed è “radunata per inviare[25]

 

“Giovani redentori dei giovani” 

Obiettivo finale della missione e di ogni educazione alla missione è la crescita nella fede, non solo di colui che riceve l’annuncio, ma anche di colui che fa l’annuncio stesso. Qui è il bello e forse il punto più importante. Come dire: noi annunciamo la fede che abbiamo, o abbiamo la fede che annunciamo? In altre parole: la fede è quel pacchetto di verità che metto da parte e custodisco come deposito prezioso e inviolabile, oppure la fede è solo quella che io riesco ogni giorno a dire, a donare, a proporre, così che mentre la propongo e la offro si radica in me e diventa vera fede? 

La fede è da comunicare, perché mentre uno la comunica si fa forte dentro di lui. Il giovane che tu guidi deve capire che l’unica fede che ha è quella che comunica, quella che sta al cospetto dell’altro, del mondo, del suo compagno di studi o di lavoro, del suoi amici del pub o dello stadio, è la freschezza che si sente dentro nel momento in cui annuncia Gesù, salvatore del mondo[26]. Quello, allora, e solo quello è accompagnamento vocazionale missionario. 

Ed è l’invito sempre più risuonato nelle parole degli ultimi Pontefici in questi tempi drammatici e straordinari per la crescita nella fede: “Cari giovani, guardate alla Croce, accogliete l’amore di Dio donato dallo Spirito Santo e, come disse Giovanni Paolo II, ‹‹divenite redentori dei giovani del mondo››”[27]

Dentro questa esperienza e alla luce di questa provocazione si compie l’accompagnamento vocazionale d’un giovane alla missione. 

 

Note 

[1] Sul passaggio, in chiave pedagogica, dall’esperienza alla sapienza (e prim’ancora dalla conoscenza all’esperienza) cf A. CENCINI, La verità della vita. Formazione continua della mente credente, Bologna 2007, pp. 277-492. 

[2] Cf G. MASCIARELLI, L’emergenza educativa: il “grido” del Papa, in “Settimana” 10(2008) 10. 

[3] HhX0N7faq0dCFNltI(OW3HJx Cf D. SIGALINI, La comunità cristiana luogo della formazione e della celebrazione per la missione sino agli estremi confini, relazione non pubblicata tenuta al convegno organizzato dal Servizio di Pastorale giovanile della CEI a Salsomaggiore, nel febbraio 2008. 

[4] Da una lettera, non firmata, pubblicata su “Settimana”, “Paolo, missionario di Gesù Cristo”: Pseudoepigrafo paolino a un giovane parroco, in “Settimana”, 27(2005) 2. 

[5] Vedi il caso di don Paolo (caso immaginario, ma …reale), classico missionario-dimissionario, anemico e mezzo depresso, freddo e distante dalla gente, “vivo” solo quando nella messa domenicale arringa i suoi fedeli rimproverandoli di tutte le colpe del mondo (cf CENCINI, La verità della vita, pp. 28-31). 

[6] Ad gentes, n. 2.

[7] M. ZAGO, “Missione”, in AA.VV, Dizionario di Pastorale Vocazionale, Roma 2002, p.712. Quanto sia stata presente quest’attenzione nei confronti di giovani non (più) credenti anche nel recente passato, è detto da quest’intervento di Giovanni Paolo II: “Abbiate premura anche dei tanti giovani che non frequentano la comunità ecclesiale e che si riuniscono sulle strade e nelle piazze, esposti a rischi e pericoli. La Chiesa non può ignorare o sottovalutare questo crescente fenomeno giovanile! Occorre che operatori pastorali particolarmente preparati si accostino ad essi, aprano loro orizzonti che stimolino il loro interesse e la loro naturale generosità, e gradatamente li accompagnino ad accogliere la persona di Gesù Cristo” (Castelgandolfo, 27 agosto 2000). 

[8] A.CENCINI, La verità della vita. Formazione continua della mente credente, Cinisello B. 2007, p. 59. 

[9] M. ZAGO, “Missione”, 715. 

[10] BENEDETTO XVI, Lettera sull’educazione, in “L’Osservatore Romano”, 24/I/2008, p. 8. 

[11] Cf, ad es, A. CENCINI, Il più piccolo di tutti i semi. Pedagogia della proposta e dell’accompagnamento vocazionale, Milano 2007, pp.14-32. 

[12] Circa l’atteggiamento corretto dell’animatore vocazionale nei confronti dell’animazione vocazionale stessa, ma anche dei superiori e persino di Dio, vedi la preghiera dell’animatore vocazionale in A. CENCINI, Vangelo giovane2. Compendio di animazione giovanile e vocazionale, Rogate, Roma 2005, pp.171-180. 

[13] Resta sempre valido l’invito del documento europeo sulle vocazioni a “non restare dentro gli spazi soliti e ad affrontare ambienti nuovi, per tentare approcci insoliti e rivolgersi ad ogni persona” (Nuove vocazioni per una nuova Europa, 33b). 

[14] BENEDETTO XVI, op. cit. 

[15] Vedi il titolo dell’interessante saggio di P. A. SEQUERI, Il Dio affidabile, Brescia 1998. 

[16] A. CENCINI, La verità, 29. 

[17] Pseudoepigrafo paolino, 2. 

[18] Ho affrontato questo tema e questa duplice possibilità in A. CENCINI, Chiamò a sé quelli che volle. Dal credente al chiamato, dal chiamato al credente, Milano 2003. 

[19] Circa il kerigma vocazionale, cf A. CENCINI, Il più piccolo, pp. 46-48. 

[20] NVNE, 35a). 

[21] In negativo potremmo accostare per contrasto a questa espressione l’amaro, quasi acido, rilievo di Kafka nei confronti del padre: “Non ti attenevi ai precetti che imponevi” (F. KAFKA, Lettera al padre, Colognola ai Colli (VR) 1997, p. 24. 

[22] R. GUARDINI, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, Milano 1987, p. 222. 

[23] Sul senso del “lasciarsi leggere” dalla Parola cf A. CENCINI, La vita al ritmo della Parola. Come lasciarsi plasmare dalla Scrittura, Cinisello B. 2008, pp. 86-88. 

[24] Ibidem, pp. 97-99. 

[25] Occorre domandarsi, osserva sempre Sigalini, se siamo in grado di avviare un movimento di evangelizzazione di strada, cioè gruppi di persone che, debitamente preparati, si dedicano a fare espliciti momenti di missione. Sono esperienze di annuncio, luoghi da pubbliche relazioni, momenti di coinvolgimento e di comunicazione anche emotiva che hanno come scopo l’annuncio di Gesù, della fede, di una proposta radicale di vita, di scelte controcorrente. I luoghi dell’annuncio sono discoteche, centri commerciali, grandi vie di presenza giovanile, apertura di chiese e spazi di dibattito notturno, spiagge… 

[26] Cf D. SIGALINI, La fede …in deposito?, in “Se vuoi”, 1(2008), pp. 5-8.

[27] BENEDETTO XVI ai giovani di Roma, 13 marzo 2008.