N.05
Settembre/Ottobre 2008

Identità personale, identità collettiva e new media: linee etiche e pedagogiche

Una riflessione antropologica e, ancor più, una valutazione morale sulla costruzione dell’identità e l’utilizzo di strumenti informatici è assai complessa da effettuare per almeno due ordini di motivi:

Il primo riguarda il fatto che il fenomeno coinvolge diverse generazioni, che hanno approcci diversi allo strumento informatico: gli adulti, che spesso ne usano, ma non ne conoscono la grammatica di base e faticano ad adeguarsi ad un linguaggio logico “binario”; gli adolescenti e i giovani, che hanno maggiore conoscenza e, quindi, competenza sulle dinamiche di tali strumenti, che riescono a integrare bene nel loro corredo noetico, a maggior ragione che questi strumenti e la logica che li governa riguardano sempre più oggetti di uso quotidiano; i bambini, che crescono avendo i meccanismi conoscitivi (e, conseguentemente, i processi mentali) in interazione e in reciproca influenza con le dinamiche della logica informatica. Per questa ragione, il fenomeno non è uniforme e occorre subito precisare che ciò che interessa l’adulto, il sociologo, e anche il formatore e il moralista è ciò che accade in prima battuta agli adolescenti, e in seconda battuta ai bambini, giacché la generazione precedente si suppone abbia un’identità già formata. Sono gli adolescenti, infatti, che si trovano in quel segmento generazionale che dello strumento informatico coglie soprattutto il potenziale eversivo: la libertà non vigilata, gioco, piacere e “abuso” in senso lato. È la generazione meno protetta, più inconsapevole e quella che preoccupa maggiormente.

Dal punto di vista del sociologo o dell’antropologo il fatto più problematico è l’effetto dromologico e confusivo che tali strumenti possono indurre e che rischia di contrapporre – negli approcci linguistici e prassici intergenerazionali – la logica del discorso sequenziale (tipica, ad esempio, del rimprovero) a quella dell’ascolto (sutura) simultaneo di più stimoli (che induce a fare più cose contemporaneamente, mentre l’interlocutore si rivolge a loro), il silenzio al caos uditivo, il normale al deviato, il limite al quotidiano, ecc… Questa circostanza rende assai complessa e, di fatto, spesso inefficace, la trasmissione dei valori, che si nutre di silenzio significativo, che si avvale di un lessico anche sanzionatorio, che richiede una visione prospettica della vita e del suo svolgersi, che esige la capacità di scegliere per sé, lasciando fuori quei comportamenti che non riconosce come propria tradizione. Per questo oggi l’urgenza educativa è alta e le stesse agenzie educative spesso delegano ad altre agenzie questo compito (la famiglia alla scuola, la scuola alla società, la società alle parrocchie o alle istituzioni locali, ecc…).

Già questa difficoltà è grave, perché trasmettere i valori è l’unico vero dono che una generazione può fare alla libertà della generazione successiva: nessuno dona la libertà alle generazioni successive, perché esse la possiedono di loro, ma il vero dono è la trasfusione delle “istruzioni per l’uso” della libertà, che le tradizioni etiche hanno elaborato. Ovviamente, tale processo deve essere consensuale, proprio per ampliare la possibilità di scelta della libertà delle nuove generazioni, che comunque dovranno viverla in prima persona come novità esistenziale e potranno fare scelte etiche anche migliori di quelle di chi le ha formate, immettendo nuovi valori nel circuito culturale ed elevando gli standard di civiltà.

Dal punto di vista del moralista o del formatore, invece, il nodo più complesso è rappresentato dallo stimolo e dall’attrattiva che tali strumenti costituiscono e rappresentano per la libertà umana, che è il presupposto di ogni agire morale. La prospettiva morale sposta l’accento dall’esterno al sé, all’identità personale: la persona è autrice di sé quando decide in modo consapevole e sbarra l’accesso a porzioni del reale che non ritiene buone per il suo ideale di vita (bontà e ideale che sono giudicati alla luce di principi e criteri oggettivamente fondati e congrui con la dignità umana). L’identità, da questa angolatura, è anzitutto una griglia di selezione, sia nella sua costruzione, sia nel suo esercizio, sia nella scelta di ciò che la mantiene e la esprime.

Il significato del termine “identità” è molto complesso: dal punto di vista filosofico è forse addirittura indefinibile, al punto che si suole dichiarare in via preliminare il tipo di approccio utilizzato (psicologico, somatico, semplice), per evitare di incorrere in aporie già nel solo trattare la questione dell’identità; infatti il dispiegarsi della vita e il fenomeno della crescita rappresenta un ostacolo reale alla fissazione di una definizione.

Dal punto di vista morale, l’identità è legata indissolubilmente alla funzione della coscienza, sia psicologica che morale, e alla memoria, cioè all’“io” percepito e vissuto come tale. Infatti, è grazie alla coscienza che il soggetto si conosce come morale, cioè autore di atti liberi, volontari e responsabili, di cui risponde. Questa funzione della coscienza non può esercitarsi se non si sia prima verificata la collocazione del vissuto nell’“io”, che è frutto di un processo selettivo costituente l’essenza della costruzione dell’identità, ma che è altresì frutto del confronto con istanze esterne al sé e dell’apprendimento della verità sul bene umano. Gli eventi esperiti, narrati e selezionati si vanno a sedimentare nell’identità e costituiscono le risorse di giudizio etico in base a cui il soggetto agisce e sottopone a giudizio il proprio operato (esame di coscienza). Questo processo delicato è l’essenziale forma narrativa del soggetto, ciò che ne semantizza i singoli comportamenti in condotta, ciò che trasforma una successione di eventi in unità biografica, ciò che edifica una storia di senso e, infine, ciò che rende “autore”, concetto fondamentale del lessico morale.

Dal punto di vista sociale, invece, l’identità della persona è innestata in quella identità collettiva costituita dalla comune ricerca del bene umano e modellata in una tradizione di pensiero e di condotta, codificata in leggi e trasmessa in ideali valoriali (perché la domanda sul bene personale è sempre legata alla domanda sul bene umano). Oggi, però, si assiste al fenomeno definito della “individualizzazione di massa”, figlio della celebrazione della soggettualità della coscienza freudiana e della società dei mass media, in cui gli individui sono ansiosi di raccontare il loro vissuto, di esibirsi nel mercato dei frammenti di vita, incentivato dai programmi di reality show; sono desiderosi di raccontarsi a qualunque costo, sebbene sia evidente che tali racconti non possiedono nulla di paradigmatico che meriti un palcoscenico. Segno di tale incapacità a confezionare prodotti di qualità è anche la dilagante tendenza di presentatori e programmi a fingere errori, ad intercettare colloqui con i cameramen e i registi in studio mentre parlano al pubblico, ad esternare ragionamenti privati. La spinta alla narrazione si ravvisa, ma in forme deteriorate: nella meschina curiosità di sbirciare negli aspetti più avvilenti della fisiologia degli altri, o nell’afferrare brandelli di vita in una chat line, o nella grottesca imitazione di comportamenti di personaggi televisivi o star del jet set. Si tratta di distorsioni della realtà, e il compito del formatore consisterà anzitutto nell’indicare che l’apertura richiesta all’identità perché possa formarsi non va confusa con l’indeterminatezza, così come il necessario confronto con il mondo, richiesto dalla costruzione dell’identità, non va confuso con la “navigazione” perenne nelle multiformi facce della realtà, e l’atteggiamento di ricerca del bene che occorre per la crescita dell’identità non va confuso con la logica dell’“ex aequo” di ogni modalità del vivere, laddove, invece, indeterminatezza, navigazione senza fine e parità di stili di vita sono chiaramente i mattoni della costruzione informatica e i capisaldi del suo linguaggio.

Il formatore cercherà di aiutare nella ricerca del bene, altro polo, assieme al soggetto del lessico etico della decisione. La decisione morale, infatti, implica una scelta informata dai criteri etici, ovvero tendenti al bene morale, che è il bene umano gerarchizzato dalla ragione pratica.

Il secondo ordine di motivi riguarda l’atteggiamento sociale e la disponibilità verso la promozione di tutto ciò che indirettamente va ad ingrossare il fiume della logica informatica. Il ridotto senso del pudore, la pornografia e l’iperstimolazione sessuale a livello di immagini, lo sbandieramento di una tolleranza senza contenuto o scambiata per un valore in sé, quando è una condizione per sviluppare valori, l’esaltazione della spontaneità a scapito della disciplina e della professionalità, la messa al bando di termini come “sacrificio”, “assolutezza”, “dovere”, “punizione”, che costituiscono l’alfabeto di base per la competenza del vivere e, in prospettiva, l’irruzione dell’artificiale creato per interagire con l’humanum, a livello di contenuti, ne sono segnali inequivocabili. Si tratta di una visione sociale che tratta tutti come se fossero adulti, che dimentica le categorie da proteggere, che ignora l’esistenza di individui da tutelare, di individui deboli, mentre persegue unicamente la logica di mercato, che considera tutti acquirenti volontari e capaci, decisi e svincolati da remore morali.

Da questo attuale orizzonte di libertà, che costituisce la sfida degli educatori, non si può prescindere, come suggerisce il Papa nella sua Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione; occorre porsi immediatamente a livello dell’educando, per condurlo alla disciplina, l’altro correlato essenziale della libertà. Il concetto di vita buona, proprio come richiama il Papa nella Lettera, è la narrazione che va immessa nel circuito: in tale ottica occorre che i formatori mettano in evidenza che questa libertà non significa solitudine, ovvero assenza di progetto o di chiamata – come Benedetto XVI richiama nell’omelia per la Solennità del Corpus Domini – ma è una libertà capace di rispondere ad una vocazione, orientata ad un progetto e in rapporto fondamentale con la verità.

Il Papa fornisce alcune linee guida pedagogiche di evangelizzazione e di priorità nel comprendere il nucleo del messaggio evangelico nel modo stesso del suo magistero, nell’andamento che egli dà alle sue encicliche, che si possono individuare e sintetizzare come segue:

1. il punto di partenza della comprensione del cristianesimo è la comunità delle origini e l’assoluta novità esistenziale, la “modificazione” della vita che l’annuncio del Vangelo richiede, in modo da distinguere chiaramente chi aderisce a Cristo. Il primum logico spetta al vissuto concreto;

2. immediatamente successiva al vissuto nuovo, occorre sviluppare una domanda sulla nuova connotazione che la noesis riceve da questo annuncio e che presto la riflessione trasforma in presupposto epistemico. Si tratta di una teoresi esplicita sulla praticabilità della razionalità informata dalla fede, di una considerazione sulla sfida eccellente che la fede lancia alla razionalità nel condurre in un mistero che non riesce a formulare in proposizioni scientifiche, ma che nella realtà e nella vita riconosce inequivocabilmente e a cui non può sottrarsi;

3. in terzo luogo, è proposto l’appello alle esemplificazioni vissute di queste realtà di fede, sia nelle storie di singoli individui, sia nella storia della chiesa e di quanto essa ha operato e lasciato nella storia, attraversandola con il messaggio cristiano, senza sensi di colpa o di inferiorità;

4. in ultima istanza compare la rassegna degli enunciati di fede, delle proposizioni dogmatiche che costituiscono la dottrina e la fede, e la loro applicazione alle questioni pressanti della nostra epoca.

Volendo applicare questa pedagogia del Pontefice al nostro tema, è opportuno annotare anzitutto la necessità che l’internauta credente sia testimone della contraddizione che il Vangelo porta in ogni cultura. L’utilizzo degli strumenti informatici e telematici è anch’esso, in quanto attività umana, sottoposto al vaglio del giudizio morale e veicolo di un modo diverso e nuovo di interfacciare le realtà della tecnologia informatica. Autocensura, autocontrollo, educazione virtuosa, promozione di stili sobri devono caratterizzare la comunità credente nell’uso di tali strumenti, non tratteggiandola alla stregua di un’entità aliena proveniente da un altro pianeta – atteggiamento che, oltre ad essere impraticabile, sarebbe ingiustificato – ma come una comunità che considera la propria identità pre-contenuta nella chiamata a vivere il Vangelo, identità che le scelte concrete inverano e non contraddicono. La comunità credente sarà una “storia” narrata e vissuta, un’esemplificazione della vita buona come reale e possibile alternativa alle seduzioni del mondo e del virtuale; la sua vita, le sue scelte saranno diverse da quelle della società, possedendo una persuasività interessante, perché non disprezza i prodotti dell’humanum, ma ne mette in luce le verità e i valori intrinseci. Nel formatore, soprattutto nel formatore adulto, ci potrà essere disponibilità ad acquisire nuove conoscenze dalla competenza degli adolescenti e dei giovani riguardo la realtà informatica, a patto di trovare poi disponibilità ad ascoltare la ragionevolezza dei criteri che presiedono alle scelte morali riguardo la navigazione in Internet e riguardo la precedenza della formazione dell’identità rispetto all’utilizzo di qualsiasi strumento; l’identità personale, quella costruita attorno ai valori, va manifestata, va curata, ma anche protetta da quanto conduce alla disintegrazione di sé. Al formatore spetterà inoltre incanalare gli interessi telematici degli adolescenti e dei giovani nell’espressione dei contenuti della fede, considerati i nuovi “areopaghi” nei quali proclamare il Vangelo.

In secondo luogo, occorre ammettere l’esistenza di un’oggettiva difficoltà, intrinseca all’annuncio stesso del Vangelo, giacché l’evangelizzazione innesta in una traditio sequenziale, autoritativa e diacronica, mentre la logica informatica immette nel bombardamento multisensoriale, sincronico e non autoritativo. I meccanismi di apprendimento e la loro incidenza su categorie epistemiche, ma anche di senso quali “autorità”, “tradizione”, “trasmissione”, “passato”, che si trovano investite in pieno dall’evoluzione tecnologica in ambito informatico e telematico, sfida a trovare moduli espressivi per effettuare la mediazione fra queste realtà, in una ricerca ancora aperta.

In terzo luogo, è urgente che si creino delle scuole di formazione concreta all’utilizzo dei mezzi informatici e telematici, che fungano da progetti collaudati nell’individuazione e nella gestione di tali mezzi e che forniscano paradigmi, esperienze e modelli di comportamento cui ispirarsi.

Infine, ineludibile risulterà richiamare l’altissima valenza antropologica delle verità di fede che più da vicino toccano l’identità: il concetto di vocazione, ma anche quelli di rivelazione, di dono, di creazione, di salvezza, che mettono in gioco proprio la sensorialità della corporeità (auditus fidei), che danno un nome e un destino al desiderio di essere notati, considerati, amati; che danno forma alla nostalgia di una relazionalità significativa e non effimera e che risvegliano la viscerale esigenza di volgersi in solidarietà al debole e al piccolo.

 

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