N.02
Marzo/Aprile

Chiamata e risposta: un’esperienza di senso.

Alcuni spunti di riflessione a partire da 1Ts 5,16-28

Prigionieri di uno schema

È forse abituale leggere questo testo come l’invito rivolto al cri­stiano a conformare i suoi atteggiamenti ad una certa modalità di vivere il cristianesimo; a questo agire dell’uomo (vv. 16-22) segue l’azione di Dio (vv. 23-24). Effettivamente, questo è l’ordine con cui si snoda in questi versetti la riflessione e l’esortazione di Paolo. A partire da questo dato di fatto, vorremmo fare alcune con­siderazioni.

1) Seguendo l’ordine del testo, così come si presenta, potremmo essere tentati di leggere l’intervento di Dio descritto nei vv. 23-24 quasi come una risposta conseguente all’assunzione di uno specifico comportamento da parte dell’uomo. In certo qual modo, la tradu­zione del v. 24 conduce a questa prospettiva, aggiungendo l’espres­sione “tutto questo”, assente dal testo greco. Senza dubbio, questa prospettiva di lettura ha un suo valore; tuttavia, in questa ottica, sembra che l’agire di Dio, il suo operare nell’uomo sia strettamente conseguente e vincolato alle azioni di quest’ultimo, alla sua adesio­ne ad una serie di esortazioni precedentemente espresse.

2) Possiamo, inoltre, considerare come i vv. 23-24 non si col­lochino sullo stesso piano dei vv. 16-22: essi, infatti, contengono le parole conclusive della lettera, le quali contengono come una sintesi del pensiero che Paolo è andato svolgendo nel suo testo; si tratta di parole che focalizzano il centro attorno a cui si è riflettuto, il cuore della comunicazione e del messaggio dell’Apostolo.

Sulla scorta di queste brevi considerazioni, lasciandoci provocare dalla Parola di Dio, vorremmo cercare di leggere questo testo par­tendo proprio dalla conclusione, dal nucleo del messaggio di Pao­lo, con l’intento di riscoprire e mettere al centro il valore fondante della chiamata, una chiamata che è assolutamente originaria, non presupponibile né presupposta da alcuna azione; è quanto ricorda il Signore a Geremia: «Prima di formarti nel grembo, ti ho ricono­sciuto» (Ger 1,5). Si tratta, dunque, di una chiamata che non solo nell’origine, ma anche nell’oggi ha il sapore dell’iniziativa di Dio, alla quale l’uomo può rispondere attraverso il suo assenso.

 

  1. La chiamata: dall’evento di parola all’esperienza/accadimento

Cominciamo il nostro percorso orante nel testo a partire dalla frase conclusiva di Paolo – quella che precede i saluti – la quale, tradotta alla lettera, suona: «Fedele è il chiamante voi, che anche agirà» (v. 24).

È stato riconosciuto che la chiamata, l’elezione è il cuore del messaggio della 1Ts; non a caso Paolo menziona questa chiamata/elezione non solo in 5,24, nella conclusione della lettera, ma anche nel suo momento iniziale, laddove si rivolge ai destinatari con que­ste parole: «Noi sappiamo bene fratelli, amati da Dio, che siete stati eletti da lui (lett. la vostra elezione, τήυ έκλογήν ύμων), poiché il nostro vangelo si fece evento (accadde) per voi non solo a parole, ma anche con potenza, con Spirito Santo e grande pienezza» (1Ts 1,4-5)[1].

Se di primo acchito possiamo pensare alla chiamata come ad un evento di parola (cosa che, del resto, i sostantivi chiamata o vocazionesuggeriscono), tuttavia proprio queste parole dell’Apostolo ci con­sentono di passare dalla nozione di chiamata come evento di parola a quella di chiamata come esperienza: «Sappiamo […] che siete stati eletti da lui poiché il nostro vangelo si fece evento/accadde tra voi […]» (1Ts1,4-5). La chiamata, dunque, nasce dall’esperienza del Vangelo che accade nella storia, un vangelo che si fa avvenimento “con po­tenza” (έν δυνάμει).

Il concetto di potenza (δύναμις) evoca, negli scritti paolini, quel­la stessa potenza con cui Dio ha risuscitato Cristo dai morti (cf ad es. 2Cor 13,4 «[Cristo] fu crocifisso per debolezza, ma vive per la potenza di Dio»); si tratta pertanto di una potenza che permette di passare dalla morte alla vita, una potenza che consente un cambia­mento radicale. Non soltanto: la potenza, in particolare la potenza del Vangelo, porta con sé la salvezza: «Il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16).

Ecco che la chiamata si configura come l’accadimento del Van­gelo nella storia, l’accadimento della potenza di risurrezione e sal­vezza nella storia di ognuno. Essa è ciò che permette al Vangelo di farsi evento, ciò che consente a Dio di irrompere nuovamente nella storia[2].

Questa irruzione di Dio nella storia attraverso la chiamata pro­voca un vero e proprio ribaltamento, uno sconvolgimento, come precisa Paolo ai Corinzi: «Considerate la vostra chiamata […] Dio ha scelto l’idiozia del mondo per umiliare i sapienti […] Dio ha scelto ciò che non è per rendere nulla ciò che è» (1Cor 1,26-28); attraverso la chiamata Dio non solo entra nella storia, ma la cambia radicalmente dall’interno.

Il testo di 1Ts 5,24 ci mostra infine che la chiamata considerata come esperienza, come intervento di Dio nella storia, non è affatto confinata ad un momento preciso del passato; infatti, Dio è descritto da Paolo come “il chiamante”. La chiamata si rivela, allora, un’espe­rienza continua, un’esperienza del presente, un’irruzione continua di Dio nella storia. È lui che nell’oggi, nel presente di ciascuno, si fa evento in una determinata storia portando un cambiamento, un ribaltamento radicale; è lui che è anche oggi, per ciascuno, il chia­mante.

 

  1. La chiamata: esperienza di fedeltà. «L’essenza della tua parola è fedeltà» (Sal 119,160)

Se, come abbiamo visto, la chiamata è esperienza, accadimento nel presente, il modo in cui Paolo caratterizza Dio, il chiamante (ό καλών), ci consente di specificare meglio di quale esperienza si tratta.

Il primo aggettivo con cui si apre la frase è “fedele”[3]: la chiamata è prima di tutto esperienza di fedeltà, esperienza della fedeltà di Dio. Cerchiamo dunque di comprendere meglio cosa si intenda per “fedeltà di Dio” o, in altre parole, di cosa si fa esperienza quando questa fedeltà entra in gioco.

Il salmista, parlando della fedeltà di Dio, ci dice: «La tua fedeltà di generazione in generazione» (Sal 119,90; cf anche 100,5). Ecco che la fedeltà del Signore può essere vista, innanzitutto, come un legame, come un filo che lega passato e presente.

Crediamo, dunque, che la fedeltà debba essere considerata non soltanto come l’esperienza dell’aiuto di Dio nella prova, quanto piuttosto, e forse più compiutamente, come un’esperienza che uni­fica tutta la persona e la sua storia, un’esperienza che lega passato, presente e futuro abbracciando tutta una vita. Letta in questa otti­ca, l’esperienza della fedeltà di Dio è allora un’esperienza di senso, l’esperienza di ciò che dona senso e significato a tutta la persona, passato, presente, futuro, e in quanto esperienza di senso e di uni­ficazione è esperienza di pace.

Non a caso Paolo si riferisce all’agente di tutta questa opera come al “Dio della pace”, pace che evoca non solo l’assenza di conflitto, ma qualcosa di più. La stessa radice ebraica che è contenuta nella parola “pace”, significa anche “essere completo/intero”, “portare a compimento”. Ed effettivamente la pace è espe­rienza di compimento. Paolo ha fatto esperienza di tutto questo: egli ha sperimentato la fedeltà di Dio come dono di senso, come ciò che conferisce significato al passato, al presente e consente di aprirsi verso il futuro, proprio nel momento della sua chiamata, sulla via di Damasco. Così egli si riferisce a questo evento in Gal 1,15-16: «Quando a colui che mi aveva messo a parte fin dal grembo di mia madre e mi aveva chiamato con la sua grazia, piacque di rivelare in me suo figlio […]». La chiamata per Paolo è un culmine cui Dio lo ha condotto fin dall’origine, un momento di senso, quel momento in cui egli percepisce che tutta la sua vita, “fin dal grembo della madre”, è attraversata da un significato e da un filo invisibile, quello della fedeltà di Dio che lo aveva scelto. Ecco allora che la rivelazione del figlio non accade semplicemente per lui, ma in lui (“piacque di rivelare in me suo figlio”): proprio in virtù di questa fedeltà di Dio ogni momento della vita di Paolo, tutto ciò che Paolo era, è e sarà acquista un significato, un senso, una pacificazione. Ecco che la tradizione mette sulla bocca dell’Apostolo queste parole: «So a chi ho dato la mia fiducia» (2Tm 1,12) e dietro questo “so” (οίδα) si nasconde un’esperienza, l’esperienza della fedeltà di Dio.

 

2.1 Riflessione

Potremmo prenderci un momento per ripercorrere la nostra vita e considerare nella nostra storia la presenza del chiamante… come il Signore, il chiamante è presente nel nostro passato, nell’oggi e ci proietta verso il domani… Potremmo ancora cercare di sentire e riportare alla memoria l’esperienza della fedeltà di Dio, intesa come esperienza di senso, come quando in montagna si percorre un sentiero in salita a testa bassa e, improvvisamente, quando l’orizzonte si apre si vede il senso del nostro salire… Fedeltà di Dio come dono di senso, come quel filo che lega ogni nostra esperienza, come quella corda che annoda e dona significato a tutto, alle nostre fedeltà e anche alle nostre infedeltà. La chiamata è fare esperienza di questa fedeltà: fedele è il chiamante

 

  1. La chiamata: esperienza di creazione

Paolo continua: «Fedele è il chiamante, egli che anche farà». Non ci sono ulteriori specificazioni nel testo greco (cf TOB «C’est lui qui encore agira») e vorremmo mantenere il testo in questa forma, leggendo in questo fare un rimando alla creazione. Ancora, come nel momento della creazione, sono unite parola e agire di Dio – evocate nel nostro testo rispettivamente da il chiamante e da farà. La chiamata è più volte legata dalla Scrittura all’atto creativo (cf Is 43,1; Ger 1,5; Gal 1,15-16); mentre in questi testi si rimanda alla chiamata e alla creazione come al momento originario dal punto di vista del tempo, in 1Ts 5,24 l’accento si sposta nel presente e nel futuro.

Il presente della chiamata diventa esperienza continua di nuova creazione, una creazione che si rinnova sempre: «Il chiamante [… ] farà». Nel momento della chiamata, l’agire di Dio diventa promessa: di fronte alle obiezioni e alle mancanze del chiamato (tipiche del racconto di vocazione) questo “farà” diventa promessa del dono di ciò che manca, promessa di assistenza continua (cf Ger 1,8: «Io sono con te»), di presenza operante.

 

  1. La chiamata: esperienza di totalità nella santificazione

Paolo non si limita a descrivere la chiamata come esperienza del­la fedeltà di Dio. Se andiamo a ritroso nel testo, lo stesso Dio della pace, definito successivamente “il chiamante”, è colui che santifica. Il legame tra santificazione e chiamata è chiaro già nel racconto della vocazione di Geremia: «Prima che tu uscissi dal grembo ti ho santificato» (1,5). Lo stesso legame è evocato da Paolo, attraverso il concetto di separazione – affine a quello di santificazione – in Rm 1,1: «Chiamato apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio»; e Gal 1,15: «Colui che mi aveva messo a parte fin dal grembo di mia madre e mi aveva chiamato con la sua grazia».

La chiamata si configura, dunque, come un’esperienza di santi­ficazione. Rendere santo, consacrare, significa mettere da parte per una destinazione particolare; nella Scrittura, quando è Dio colui che santifica, solitamente egli riserva per sé colui che ha santificato.

Di questa santificazione vorremmo considerare due aspetti:

1) l’insistenza di Paolo sul concetto di completezza, legato alla san­tificazione: «Vi santifichi completamente; e la completezza di voi spirito, anima e corpo […]» (1Ts 5,23). L’esperienza di santificazione o, più precisamente, della chiamata come santificazione, è un’esperienza di totalità: «Tutta la vostra persona» (secondo la traduzione della nuova BC) (v. 23). Se la chiamata come esperienza della fedeltà di Dio consentiva di abbracciare tutto il tempo della vita, nella sua interezza, leggendo la vita come un percorso attraversato dalla sua fedeltà, la chiamata come esperienza di santificazione consente di abbracciare tutta la persona, l’intero essere nella totalità (“spirito, anima e corpo” per indicare la completezza dell’essere). Non esiste una chiamata che non coinvolga l’interezza della persona, corpo, anima e spirito; e se la santificazione e la chiamata sono spesso lette come esperienze “spirituali”, Paolo ci ricorda che non esiste una santificazione che non passi attraverso il corpo. E lo stesso Apostolo è testimone di come la sua chiamata, l’opera di Dio in lui, il suo essere messo a parte per il Vangelo, passi attraverso il suo corpo che porta i segni concreti del suo rapporto con Cristo: «Io porto i contrassegni di Gesù nel mio corpo» (Gal 6,17), scrive Paolo ai Ga­lati, ma possiamo richiamare alla memoria anche il corpo di Paolo incatenato, percosso o lapidato. Siamo dunque di fronte ad una santificazione che passa attraverso tutta la persona.

2) Per quanto “santificazione” evochi il concetto di separazione, essa non si attua nella storia rimanendo “separati”. Paolo, infatti, spe­cifica in questo modo l’opera di santificazione: «La completezza di voi (tutta la vostra persona) sia conservata senza macchia (avme,mptwj)» (1Ts 5,23). Istintivamente, siamo portati a considerare l’“essere senza macchia” come un’immagine affine a quella della separazione: ciò che è senza macchia, santificato, è ciò che è e rimane separato. Tut­tavia crediamo che la prospettiva sia radicalmente diversa.

Infatti, Paolo in 1Ts 3,12-13 lega così le due nozioni di santifi­cazione e di essere “senza macchia”: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore vicendevole, verso tutti affinché confermi i vostri cuori senza macchia nella santità (άμέμτους έν άγιωσύνη) davanti a Dio nostro padre». Ciò che consente di conservare e “con­fermare i cuori senza macchia nella santità” è l’amore reciproco, l’amore verso tutti, l’amore totale. Si è conservati senza macchia e santificati dall’amore vissuto, non da una distanza “asettica” da tut­ta la realtà, fratelli compresi. La santificazione si dà solo nella rela­zione d’amore, radicata nella fedeltà di Dio, cioè in quella relazione capace di riconoscere e promuovere il volto dell’altro; nessuno può sentirsi esente da questo.

 

4.1 Riflessione

Prendiamo un momento per rileggere la nostra chiamata come esperienza di totalità nella santificazione… un’esperienza in cui è coinvolto tutto il nostro essere, l’anima, il corpo, lo spirito…

Soffermiamoci anche su come si può essere conservati “senza macchia”, mediante la relazione d’amore “verso tutti”… tutto il no­stro essere, la nostra persona è chiamata a entrare in questa relazio­ne, per essere conservata senza macchia proprio attraverso di essa. Chiamati alla totalitànell’amore: da qui passa la santificazione, dalla relazione che coinvolge tutto, che mette in gioco tutto… Talvolta, la relazione è percepita come un rischio per la vocazione, mentre Paolo ci mostra esattamente il contrario…

 

  1. La risposta: esperienza di totalità

Ecco che, dopo aver considerato il modo con cui Paolo tratteggia il volto di Dio che chiama e l’esperienza della chiamata, possiamo passare a considerare gli imperativi/esortazioni con cui il nostro te­sto si apre. Letti sullo sfondo del volto di Dio, il chiamante, essi non diventano per il cristiano traccia di un “imperativo etico” o di una pia esortazione, ma si rivelano come la forma che assume la libertà dell’uomo di fronte al chiamante. L’imperativo, infatti, già nel de­calogo è ciò che chiama in causa la libertà dell’uomo, ciò che indica che è presente una libertà mossa e provocata dalla chiamata, una libertà che può rispondere all’appello del chiamante.

E, se la chiamata è descritta come esperienza, come irruzione di Dio nella storia, altrettanto vale per la risposta adeguata e conforme a questa chiamata: essa sarà una risposta incarnata, una risposta personale che si gioca nelle pieghe della storia e nella relazione con i fratelli (cf 1Ts 5,14-15) e con Dio. Non a caso, i vv. 16-22 fanno riferimento al comportamento del chiamato nella storia, ad atteg­giamenti concreti di fronte agli eventi.

Non solo: se la chiamata, come abbiamo visto in precedenza, coinvolge la totalità e la completezza della persona, questo sarà va­lido necessariamente anche per la risposta. Essa sarà una risposta totalizzante, la quale coinvolge la totalità del tempo (“sempre, “in­cessantemente” vv. 16.17), la totalità dello spazio (“in ogni cosa” v. 18), la totalità del rapporto con la realtà (“tutto esaminate”, da ogni forma di male” vv. 21.22) e con i fratelli (“sempre cercate il bene […] verso tutti” cf v. 15). Cerchiamo, dunque, di considerare alla luce di quan­to detto le esortazioni del testo.

 

5.1 La gioia

Sempre rallegratevi”. La gioia diventa risposta all’esperienza della fedeltà di Dio: «Ti renderò grazie con l’arpa, per la tua fedeltà, o Dio, canterò sulla cetra o Santo di Israele… le mie labbra grideran­no di gioia quando canterò a te insieme alla mia anima che tu hai ri­scattato» (Sal 71,22). L’esperienza della fedeltà di Dio, cioè del dono di senso che egli dà alla vita: è questa la fonte e la causa della gioia, è questa la gioia che fa cantare insieme corpo e anima («Le mie lab­bra grideranno quando canterò a te insieme alla mia anima»).

Forse vale la pena ricordare che questa esortazione rivolta ai Tes­salonicesi si colloca in un contesto di difficoltà per la comunità di Tessalonica (cf 1,6: «[…] avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove»; 2,14: «Anche voi avete sofferto […] da parte dei vostri con­nazionali»; 3,3-5 «Perché nessuno si lasci turbare in queste prove […] per questo mandai a prendere notizie della vostra fede temen­do che il tentatore vi avesse messi alla prova»).

Letta come risposta alla fedeltà di Dio, l’esortazione di 1Ts 5,16 non è dunque l’invito alla gioia insensata di chi non comprende gli eventi ed ha un atteggiamento “fuori luogo”. Essa è, piuttosto, la gioia di chi ha fatto esperienza di questa fedeltà, di chi sente conti­nuamente la voce del chiamante e risponde a questa voce rallegran­dosi. È la gioia fedele di chi ormai sa bene che il filo conduttore della propria vita è e sarà la fedeltà di Dio.

 

5.2 La preghiera

«Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie». Si tratta di una preghiera globale, che coinvolge tempo e spazio (incessantemente, in ogni cosa), delineando un atteggiamento che coinvolge totalmente l’esistenza. Ma, come abbiamo fatto per la gioia, vorremmo con­siderare la preghiera non tanto come una domanda – cui segue la risposta di Dio – quanto come una risposta al chiamante, al Signore che chiama.

È noto che i padri e dottori della Chiesa hanno accostato questa preghiera incessante al desiderio del cuore, un desiderio che, secon­do le parole di Caterina da Siena, «prega davanti a Dio in tutto quello che tu fai» (cf Lettera 26) . Letta come risposta al chiamante, la preghiera incessante diventa allora desiderio che Dio – che ha chiamato e che chiama – parli ancora: «Fammi sentire la tua voce» (Ct 2,14). Il desiderio di essere ascoltati, quel desiderio che muove la preghiera, è nient’altro che il desiderio che Dio parli ancora: «Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa. Ascolta la voce della mia supplica» (Sal 28,1-2).

La preghiera, dunque, intesa come risposta alla voce di Dio che chiama, non si configura semplicemente come richiesta che prece­de l’azione e l’esaudimento da parte di Dio: essa è piuttosto desi­derio incessante di udire ancora quella voce, la voce del chiamante, desiderio di fare ancora esperienza della sua fedeltà.

Ecco che la preghiera, intesa come risposta, diventa riconosci­mento del volto di Dio, riconoscimento che colui che sta chiaman­do è Dio stesso. Se la risposta porta con sé questo riconoscimento è chiaro che essa può solo essere gioia, desiderio e rendimento di grazie. Una tale risposta, tratteggiata come esperienza totalizzante di gioia e desiderio del cuore, è esperienza di salvezza: «Questa è la volontà di Dio verso di voi». La “volontà di Dio” è, per Paolo, il decreto eterno di salvezza e santificazione che egli ha operato per l’uomo mediante la persona di Cristo Gesù (cf ad es. 1Ts 4,3: «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione»). Proprio questa volon­tà, che è salvezza, si intreccia con il desiderio di salvezza che abita l’uomo: «Desidero fare la tua volontà; la tua legge sta dentro le mie viscere» (Sal 40,9).

 

5.3 Riflessione

Prendiamo un momento per fermarci a considerare la gioia come risposta alla fedeltà di Dio, risposta all’esperienza della sua fedeltà. E poi la preghiera, intesa come risposta al chiamante: la nostra preghie­ra come espressione del desiderio di sentire ancora quella voce che chiama, non come obbligo, imperativo, cosa necessaria perché Dio mi ascolti, ma come desiderio che risponde alla voce che chiama.

 

  1. Il discernimento: libertà e fedeltà

Infine Paolo descrive l’esperienza del discernimento. Si tratta in­nanzitutto di un’esperienza di libertà: «Lo Spirito, non spegnetelo». Ancora una volta siamo di fronte ad una risposta dell’uomo di fron­te alla manifestazione di Dio: si può lasciare che Dio si manifesti o lo si può limitare. Spegnere lo Spirito significa precisamente limitarlo, reprimerlo, tenerlo sotto controllo (chi spegne qualcosa mostra la sua superiorità e la sua forza su di essa). Questo controllo, alla fine, soffoca lo Spirito, lo estingue. Non spegnere significa rinunciare alla pretesa di gestire lo Spirito, accogliendo la sua libertà; lo Spirito «soffia dove vuole, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8).

«Le profezie non disprezzatele». Per Paolo il discorso profetico è il discorso esortativo per l’edificazione della comunità; tuttavia se prendiamo il concetto più ampio di profezia, così come ci viene dal­la Scrittura, possiamo intendere profezia come la Parola di Dio nella storia e sulla storia, quella Parola che dà il senso alla storia. Ecco che “non disprezzare le profezie” significa accogliere questa Parola di Dio che si manifesta nella storia, significa riconoscere che, attra­verso il profeta, attraverso qualunque profeta, è Dio che parla. E accogliere la parola profetica riconoscendola come Parola di Dio, si­gnifica assumere lo stesso statuto di profeti, diventare profeti (cf Mt 10,41: «Chi accoglie un profeta come un profeta avrà la ricompensa del profeta»). La risposta al chiamante si configura dunque come esperienza della libertà di Dio e riconoscimento di questa libertà che è all’opera nella storia.

Non solo: le altre due esortazioni dell’Apostolo ci svelano come l’ultima risposta alla chiamata – esperienza della fedeltà di Dio – si riveli proprio come una risposta di fedeltà, una risposta che provoca e mette in gioco la fedeltà del chiamato.

«Tutto esaminate». Come l’azione del chiamante coinvolge la tota­lità della persona («Vi santifichi completamente»; «La completezza di voi» v. 23), così ciò che Paolo ci pone davanti come risposta pos­sibile è un approccio completo alla realtà: rispondere alla fedeltà di Dio significa rapportarsi a “tutto”, significa fare di “tutto” oggetto di attenzione. Soltanto attraverso questo rapporto con tutta la realtà si giunge a “trattenere ciò che è buono (lett. bello)” e a “tenersi lontani da ogni forma di male”. Ecco l’esercizio responsabile e con­sapevole della libertà che diventa espressione di fedeltà. Infatti, il verbo greco che significa qui “trattenere” è impiegato diverse volte nel NT (sia da Paolo sia nella Lettera agli Ebrei) come espressione di fedeltà, di custodia fedele. Ad esempio, in 1Cor 11,2 il verbo fa ri­ferimento alla custodia fedele delle tradizioni, così come trasmesse dall’Apostolo; analogamente, in 15,1-2 esso si riferisce alla custodia del Vangelo, così come annunziato da Paolo[4].

L’esercizio della propria libertà, che sola può esprimere la propria fedeltà a Dio, è possibile solo per chi sa accostarsi a tutta la realtà, nella sua complessità, non rimuovendo, né comportandosi come se qualche parte della realtà – della persona o di ciò che la circonda – non esistesse. Solo dopo aver esaminato, guardato tutto è possibile trattenere ciò che è buono ed esprimere la propria fedeltà a Dio; non esiste una fedeltà fondata sulla rimozione o sulla repressione: la fedeltà esiste solo se fondata sulla piena consapevolezza.

Ecco, allora, che una fedeltà di questo tipo, una fedeltà che è espressione piena della propria libertà diventa la risposta adeguata e conforme alla fedeltà di “colui che vi chiama”. E, come la chiamata è esperienza della fedeltà di Dio, quella fedeltà che dà senso a tutta la persona nella sua complessità, allo stesso modo il discernimento, la scelta di trattenere il buono e lasciare ogni forma di male, che è a sua volta espressione di fedeltà, diventa momento di senso, dono di significato.

 

6.1 Riflessione

Non spegnete lo spirito, come accoglienza della libertà di Dio…

Possiamo prendere qualche attimo per considerare il discerni­mento come esperienza ed espressione della fedeltà a Dio; in par­ticolare, consideriamo il rapporto a tutta la realtà… rimuovere, re­primere, non guardare, letti come atteggiamenti di infedeltà invece che di fedeltà…

 

Conclusione

Potremmo riassumere questo piccolo percorso attraverso le pa­role di Paolo considerando la chiamata e la risposta come esperien­za e incontro di due fedeltà. Solo quando l’uomo fa esperienza reale della fedeltà di Dio, del senso che Dio dà alla propria vita, può sen­tire al suo interno il bisogno di fedeltà e così rispondere.

Si tratta di un incontro realizzante, totalmente coinvolgente, che non lascia in disparte nessuna dimensione umana; è il compimento, la scoperta del senso, in cui il chiamato si realizza come creatura e il creatore si “compie” – se così si può dire – come creatore, un creatore che posa lo sguardo sul chiamato, osserva:  “ed ecco, cosa molto buona”.

 

Note

[1] I due testi presentano due modi diversi di esprimere lo stesso concetto: in 5,24 si parla di chiamata (utilizzando il verbo καλέω), mentre in 1,4 si parla di elezione (έκλογή). È chiaro che si allude allo stesso evento pur con una terminologia diversa. Il testo di 1Cor 1,26-28 consente un collegamento chiaro ed esplicito tra i due concetti: «Considerate, infatti, la vostra chiamata (τήυ έκλογήν ύμων)[…] Dio ha scelto (έξελέξατο) l’idiozia del mondo per umiliare i sapienti […]». Chiamata ed elezione vanno di pari passo e contribuiscono ambedue a caratterizzare l’iniziativa di Dio.

[2] In questo senso ogni chiamata è profetica e ancora di più profezia, in quanto Parola di Dio sulla storia e nella storia.

[3]  La nuova BC traduce “degno di fede”. L’aggettivo gr. πιστς supporta ambedue le tradu­zioni: “fedele” o “degno di fede”. Tuttavia, ci sembra più pertinente la traduzione “fedele”, la quale pone l’accento sull’azione di fedeltà da parte di Dio. Nel contesto, infatti, si tratta principalmente dell’azione di Dio, non tanto dell’azione dell’uomo nei suoi confronti, come invece l’espressione “degno di fede” porterebbe a considerare.

[4] Cf anche Eb 3,6.14; 10,23.