N.01
Gennaio/Febbraio 2010

«Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1). Identità ministeriale e pastorale vocazionale

L’invito di Paolo al suo amato discepolo e fedele collaborato­re, Timoteo, nella seconda Lettera: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani», sta all’origine del sacramento dell’ordinazione al ministe­ro nella tradizione della Chiesa (2Tm 1,6). Un rimando allo stes­so rito si trova nella prima Lettera a Timoteo, dove si riportano le istruzioni dell’apostolo circa i compiti propri di Timoteo, proposto come modello dei pastori: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’impo­sizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Il rapporto tra l’imposizione delle mani e il dono di Dio, che viene conferito come dono spirituale permanente, sono gli elementi costitutivi del sacramento dell’ordinazione ministeriale. Questo richiamo al rito dell’ordinazione al ministero si colloca nella cornice delle istruzioni ed esortazioni che l’apostolo invia a Timoteo perché sappia come comportarsi «nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, co­lonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). L’analisi dei testi, nel ri­spettivo contesto, consente di tracciare il profilo ideale del ministro del Vangelo e del pastore, chiamato a prolungare il ruolo dell’apo­stolo Paolo nella Chiesa di Dio[1].

 

  1. L’imposizione delle mani e il dono dello Spirito di Dio

Il testo più chiaro ed esplicito sul rapporto tra imposizione delle mani e dono dello Spirito di Dio si trova nella seconda Lettera a Timoteo (2Tm 1,6). Nell’intestazione della Lettera, Paolo si presenta come «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la pro­messa della vita che è in Cristo Gesù» (2Tm 1,1). La Lettera è indi­rizzata a «Timoteo, figlio carissimo» (2Tm 1,1). Nella breve preghie­ra di ringraziamento, Paolo rende grazie a Dio, ricordando Timoteo nelle sue preghiere «sempre, notte e giorno» (2Tm 1,3). In questo caso l’apostolo aggiunge un tocco che rivela il rapporto profondo e affettuoso con il suo collaboratore: «Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia» (2Tm 1,4). Paolo ricorda in particolare la famiglia di Timoteo, dalla quale ha ricevuto la fede cristiana e una solida formazione religio­sa: «Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2Tm 1,5).

Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la mamma di Timoteo, residente a Listra, nell’Anatolia, era una credente cristiana di origi­ne ebraica, mentre il padre era greco. Durante il viaggio missiona­rio, che intraprende dopo il Concilio di Gerusalemme, Paolo ripassa nella comunità cristiana di Listra e prende con sé Timoteo che «era assai stimato dai fratelli di Listra e di Icònio» (At 16,2). Questa nota dell’autore degli Atti fa capire che Timoteo svolge già un’attività pastorale nelle comunità cristiane della regione anatolica.

Sullo sfondo del ricordo personale della famiglia cristiana di Ti­moteo si colloca l’invito pressante che Paolo gli rivolge all’inizio delle istruzioni pastorali: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Il tenore del testo fa capire che il gesto dell’imposizione delle mani da parte di Paolo per trasmettere il dono di Dio, s’innesta sulla fede familiare di Timoteo. L’apostolo ora lo esorta a «ravvivare il dono di Dio». Il verbo adoperato da Paolo, tradotto in italiano con “ravvivare”, evoca l’immagine delle braci sotto la cenere. Perché si sprigioni la fiamma, che illumina e riscalda, il fuoco del focolare deve essere riattizzato. In realtà si tratta del chárisma toû Theoû, dono che proviene da Dio e che ora è presente in Timoteo, grazie al gesto di imposizione delle mani da parte dell’apostolo.

Nella seconda Lettera a Timoteo, il chárisma coincide con il dono dello Spirito, che viene da Dio e che ora dimora nell’apostolo e nel suo discepolo. Per incoraggiare Timoteo a condividere la sua testimonianza al Signore e le sue sofferenze nell’annuncio del Van­gelo, Paolo rimanda allo Spirito che Dio «ci ha dato», non «uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2Tm 1,7). Egli risale alla chiamata di Dio – klêsis hágia, “santa chiamata” – che ha come scopo e risultato la salvezza dei credenti. Questa si fonda sull’iniziativa gratuita ed efficace di Dio, che in Cristo Gesù porta a compimento il suo progetto. La grazia di Dio che «ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manife­stazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro» (2Tm 1,9-10). Mediante il dono dello Spirito di Dio, ricevuto con l’imposizione delle mani, Timoteo partecipa e prolunga il ministero di Paolo nella proclamazione e testimonianza del Vangelo di Dio. L’apostolo lo esorta a condividere la sua fede e fiducia nel Signore che è «capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato af­fidato» (2Tm 1,12).

L’espressione “quel giorno” indica l’incontro finale con il Signo­re, che, come giusto giudice, gli darà la corona di giustizia, assieme a tutti quelli che ne attendono con amore la manifestazione (2Tm 4,8). Quello che è stato affidato a Paolo, e che egli ha trasmesso a Timoteo, è hê kalê parathêkē, “il bel/buon deposito”, il Vangelo o la sana dottrina della fede. Perciò lo invita a tenere come punto di riferimento ideale «i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,12). Alla fine ri­manda esplicitamente alla presenza e all’azione dello Spirito Santo, che dona la forza di conservare il deposito: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affi­dato» (2Tm1,14).

Il termine chárisma, connesso con il gesto di imposizione delle mani, ricorre anche nella prima Lettera a Timoteo, dove Paolo prescrive al discepolo di presentarsi ai fratelli come «un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina» (1Tm 4,6). Egli paragona l’esercizio della “vera fede”, a quello che fanno gli atleti per conseguire un premio di poco conto, «mentre la fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura» (1Tm 4,8). Il contenuto della fede, da accogliere e proporre a tutti, è la «speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini» (1Tm 4,10). Paolo invita Timoteo a trasmettere con forza e autorevolezza queste cose ai fedeli, sia con l’insegna­mento sia con l’esempio «nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza» (1Tm 4,12). In attesa della venuta dell’apostolo, Timoteo deve dedicarsi «alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento», tre aspetti o diversi momenti del ministero della parola (1Tm 4,13). Le esortazioni che seguono fanno leva su questo evento della “ordinazione” presbiterale. Timoteo deve avere cura di queste cose, dedicarsi ad esse interamente, vigilare costantemente su se stesso e sul suo insegnamento, perché questa è la condizione per salvarsi e salvare quelli lo ascoltano (1Tm 4,15-16).

Sullo sfondo di questo ritratto ideale del “ministro di Cristo” e dei suoi compiti, si colloca il richiamo al chárisma, che gli è stato con­ferito mediante l’imposizione delle mani: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Qui la novità è rappresentata dal riferimento alla “parola profetica” e al gruppo dei “presbiteri”, coinvolti nel gesto di imposizione delle mani. L’espressione dià prophētéias, tradotta “mediante una parola profetica”, può indicare sia la preghiera ispirata, che accompagna il gesto di imporre le mani – preghiera liturgica – sia l’intervento dei “profeti” – persone ispirate – che depongono a favore del candida­to all’ordinazione (cf 1Tm 1,18; 6,12b). Nella traduzione della CEI (2008) si suppone che i presbiteri come gruppo impongano le mani sul candidato al ministero. Il testo originale greco toû presbyteríou, può essere interpretato diversamente: «Con l’imposizione delle mani per far parte del presbiterio». In ogni caso, con queste espres­sioni si allude ad un contesto comunitario, dove si fanno preghiere, o si ascoltano le testimonianze ispirate, e i presbiteri, che formano un collegio autorevole, sono partecipi.

L’autore delle Lettere pastorali suppone che i suoi lettori o i de­stinatari conoscano il significato e la valenza religiosa del gesto di imposizione delle mani. Nella tradizione biblica il gesto di imporre le mani accompagna la preghiera di benedizione o di guarigione, ma è utilizzato anche per trasmettere un incarico. Dio comunica lo spirito di Mosè a settanta collaboratori, scelti tra gli anziani di Israele. Nel testo biblico si dice che Dio pone lo spirito su di essi (Nm 11,25.30). Di Giosuè, che prende il posto di Mosè nella guida del popolo di Dio, si dice che «era pieno di spirito di saggezza, per­ché Mosè aveva imposto le mani su di lui» (Dt 34,9). Nel Libro dei Numeri si racconta il passaggio dalla guida di Mosè a quella del suo successore, Giosuè, mediante il gesto dell’imposizione delle mani. Il Signore ordina a Mosè di prendere Giosuè, figlio di Nun, «uomo in cui è lo spirito» (Nm 27,18). Egli deve porre la mano su di lui, farlo comparire davanti al sacerdote Eleazaro e a tutta la comuni­tà e, alla presenza di tutti, deve trasmettergli i suoi ordini e la sua autorità «perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca» (Nm 27,19-20). Mosè fa come il Signore gli ha ordinato: «Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini» (Nm 27,23). A questo rito, chiamato in ebraico semikâh, si ispira la tradizione giudaica per l’ordinazione dei rabbini.

Tenendo presente la tradizione biblica, si può interpretare il rito di imposizione delle mani nelle lettere pastorali non solo nel senso della trasmissione di un incarico – dall’apostolo al suo successore Timoteo, e da questi ai presbiteri – ma come comunicazione, in un contesto di preghiera, del dono dello Spirito di Dio, corrispondente al compito affidato. Non è casuale che l’autore delle lettere pastora­li, per parlare di questo dono, ricorra al termine greco chárisma, che, nelle lettere autentiche di Paolo, designa sia i doni suscitati dallo Spirito, sia i ministeri disposti da Dio per la nascita e crescita della Chiesa, corpo di Cristo (1Cor 12,4-6.28). Cesare Marcheselli-Casale, nel suo commento, riassume molto bene il significato del gesto di imposizione delle mani quando scrive: «Dio ha dato dunque a Ti­moteo, attraverso l’imposizione delle mani, un dono speciale che lo ha segnato per l’intero corso della sua vita… Questo dono è lo Spirito di Cristo, fattore funzionale essenziale del e nel ministero di Timoteo. Il compito di guidare la comunità, inoltre, chiede a Timo­teo di saper trovare i mezzi e le vie per rendere visibile e concreta la presenza dello Spirito»[2].

 

  1. L’identità del presbitero al servizio del Vangelo

L’apostolo Paolo, che scrive ai suoi discepoli e collaboratori Ti­moteo e Tito, traccia il profilo del ministro di Cristo, chiamato a servire il Vangelo nella Chiesa. I responsabili della Chiesa in Asia e a Creta devono affrontare una situazione di crisi, provocata dai falsi maestri, che propongono speculazioni sul destino degli uomini genealogie – definite “miti” e favole (1Tm 1,4; 4,7; 2Tm 4,4; Tt 1,14). Il loro insegnamento intacca il patrimonio della fede e minaccia la coesione delle comunità. Il compito del responsabile della comunità è di garantire la trasmissione della fede, richiamandosi alla figu­ra autorevole dell’apostolo Paolo, maestro della verità e araldo del Vangelo. Nel servizio della Parola Dio, identificata con il Vangelo, i responsabili di comunità devono conservare la “sana dottrina” e custodire il “deposito” della fede. Come fedeli discepoli di Paolo, Timoteo e Tito devono scegliere persone fidate, capaci di insegnare la sana dottrina. Paolo esorta Timoteo ad attingere forza dalla gra­zia che è in Cristo Gesù, per trasmettere le cose che ha udito da lui davanti a molti testimoni, «a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri» (2Tm 2,1-2). Due esempi di istruzioni per il servizio della Parola si trovano nella prima e secon­da Lettera a Timoteo (1Tm 4,8-16; 2Tm 3,10-4,6).

La sezione di 1Tm 4,8-16 è un piccolo manuale di ciò che deve fare il delegato di Paolo, che ha ricevuto un’investitura mediante l’imposizione delle mani. Egli deve esercitarsi nella “pietà”, che rias­sume i doveri dell’uomo di Dio. Come responsabile della comunità deve combattere, con la speranza, fondata nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti. La sua autorevolezza non dipende dall’età, ma dall’incarico e dal carisma ricevuti dall’apostolo. In sua assenza deve dedicarsi “alla lettura” – proclamazione liturgica della Parola del Si­gnore – alla paráklēsis, “esortazione”, interpretazione e applicazio­ne della Sacra Scrittura, e alla didaskalía, “insegnamento”, cateche­si, istruzione, cui si attualizza la Parola di Dio. I compiti specifici di Timoteo – prototipo dei pastori – nella guida della comunità sono concentrati nel ministero della Parola. Per fare questo il discepolo di Paolo può contare sul carisma ricevuto per l’imposizione delle mani dell’apostolo (1Tm 4,14b).

La seconda Lettera a Timoteo è un discorso di addio dell’aposto­lo, il suo testamento prima di morire come testimone del Vangelo.

Timoteo, che lo ha seguito fedelmente nelle sue peregrinazioni e sofferenze, ha imparato come si serve il Vangelo e ha visto chi sono i falsi maestri e quale sarà la loro fine (2Tm 3,10-13). Fin da piccolo ha imparato a conoscere le Sacre Scritture. L’apostolo lo esorta a rimanere fedele e saldo in quello che ha imparato dalla madre e dalla nonna (cf 2Tm 1,5). Le Sacre Scritture offrono la sapienza per la salvezza, che si ottiene «per mezzo della fede in Cristo» (2Tm 3,14-15). Infatti «tutta la Scrittura», in quanto scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio – theópneustos – è utile per l’intera opera pastora­le, che consiste nell’insegnare, convincere, correggere, formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio – il cristiano – sia preparato ad ogni opera buona. Questo è lo scopo dell’azione pastorale (2Tm 3,16-17). La Parola di Dio, attestata nella Sacra Scrittura, è adatta ed efficace per tutti i compiti pastorali nella comunità dei fedeli[3].

Dato il ruolo preminente della Parola di Dio per la guida e la vita pastorale della comunità cristiana, si comprende il pressante invito di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,1-2). Sulla base dell’autorità di Dio e di Gesù Cristo, giudice universale, con cinque imperativi si definisce il compito di Timoteo “evangelizzatore”, in un contesto dove imper­versano i “miti” che rispondono ai gusti e ai capricci degli ascoltato­ri. Timoteo, prototipo del responsabile della comunità, deve annun­ciare la Parola di Dio in tutte le forme e in ogni circostanza, poiché è necessario contrastare i falsi maestri. Come modello dei pastori, egli deve vigilare attentamente e svolgere il suo ministero – diakonía – che consiste nell’annuncio del Vangelo (2Tm 4,5).

 

  1. La vocazione del pastore

Nelle Lettere pastorali, che si richiamano alla tradizione dell’apo­stolo Paolo, si ha un ritratto ideale del pastore, modello e guida del­la comunità cristiana. Il pastore è l’uomo di Dio, posto al servizio della comunità mediante il “dono spirituale”, fonte e fondamento del compito pastorale. Il rito di imposizione delle mani, ripreso dalla tradizione biblica e giudaica, trasmette il chárisma, “dono” spiritua­le, corrispondente al compito e al ruolo autorevole dei pastori nella Chiesa (1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Paolo incarica i discepoli, Timoteo e Tito di scegliere e stabilire i responsabili nelle singole chiese: epísko­pos, presbýteroi, diákonoi [4].

L’epískopos è il sovrintendente o “amministratore di Dio”, che deve garantire il buon ordine e l’ortodossia nella chiesa locale. La sua autorità, tramite il discepolo, risale all’apostolo, che traccia il modello del suo compito e del suo stile pastorale. Dato che nelle Lettere pastorali si parla di epískopos al singolare, si pensa che egli sia il rappresentante o presidente del collegio dei presbýteroi. Almeno in un testo si fa riferimento al presbytérion e si menziona anche il ruolo di presidenza dei presbiteri (1Tm 4,14; 5,17). Il modello per questa struttura dell’ordinamento ecclesiale è quello del “consiglio degli anziani” dell’ambiente giudaico.

Anche i diákonoi, nell’ordinamento ecclesiale delle Lettere pasto­rali, hanno un ruolo autorevole, perché ai candidati alla diakonía si richiedono qualità analoghe a quelle del candidato all’episokpê e al compito di presbiteri (1Tm 3,8-13). La qualifica di “diacono di Gesù Cristo” è data a Timoteo, proposto come modello di tutti i pastori nella Chiesa (1Tm 4,6). La sua attività, come quella dell’apostolo, è presentata come diakonía (1Tm 1,12; 2Tm 4,5.11). Dal momento che si parla di “diaconi” e di “diaconia” solo nella prima e seconda Lettera a Timoteo, si può pensare che questa forma di ministero sia propria di alcuni centri ecclesiali più importanti, con strutture più articolate.

I requisiti del pastore sono quelli di un cristiano maturo, capace di stabilire relazioni positive tra tutti i componenti della comunità. Il candidato all’episokpê deve essere «irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegna­re, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» (1Tm 3,2-3). Le qualità elencate per il respon­sabile della comunità cristiana sono quelle che, nell’ambiente greco-romano, si richiedono a quanti svolgono una funzione pubbli­ca. L’epískopos-presbýteros, come capo della comunità cristiana, non solo dà il tono allo stile di vita dei suoi membri, ma la rappresenta all’esterno. Un tratto distintivo dell’epískopos-presbýteros, come quel­lo dei diákonoi, è di essere uno sposo fedele e un padre di famiglia, che sa educare i propri figli: «Perché, se uno non sa guidare la pro­pria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tm 3,5; cf 3,12; Tt 1,7-9). Il modello dei rapporti di comunità è quello della famiglia – óikos – perché la Chiesa è la “casa-famiglia di Dio” (1Tm 3,15)[5]. I rapporti del pastore della comunità con le varie catego­rie di persone si ispirano al modello delle relazioni familiari: «Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza» (1Tm 5,1-2; cf Tt 2,3). A tutti i cristiani si propone un ideale di vita spirituale, dove si coniu­gano insieme i valori umani – saggio equilibrio – e la coerenza tra fede e prassi per una testimonianza credibile.

 

  1. Conclusioni

Come la chiamata alla fede, mediante l’annuncio del Vangelo, risale alla libera e gratuita iniziativa di Dio – cháris –, così il ruolo e il compito di guida responsabile della comunità dei credenti si fonda­no su un dono, il chárisma, comunicato mediante l’imposizione del­le mani. Nel gruppo delle Lettere pastorali, dove un paio di volte si fa riferimento a questo evento – chárisma trasmesso con l’imposizio­ne delle mani – si definisce l’identità del responsabile della Chiesa come servizio alla Parola di Dio, adatta ed efficace per ogni attività pastorale. Il pastore, chiamato a guidare la comunità, deve essere una persona capace di relazioni positive, in grado di dare buona testimonianza anche nell’ambiente esterno. Nella Chiesa, “famiglia di Dio”, le relazioni si ispirano al modello familiare. Perciò il pastore responsabile deve essere uno sposo fedele e un buon padre, capace di trasmettere il Vangelo di Dio e di educare alla fede.

 

Note

[1] Il gruppo delle Lettere pastorali – due a Timoteo e una a Tito – sostanzialmente omogenee per stile e contenuto, sono state scritte da un discepolo di Paolo, dopo la sua morte, per attua­lizzare e applicare il messaggio dell’apostolo in un nuovo contesto e in una diversa situazione vitale delle comunità cristiane (R. Fabris, La tradizione paolina, Devoniane, Bologna, 1995; R. Fabris – S. Romanello , Introduzione alla lettura di Paolo, Borla, Roma 2006 22009, pp.169-173.

[2] C. Marcheselli-Casale, Le Lettere pastorali, Dehoniane, Bologna 1995, p. 650; cf P. Iovino, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, Paoline, Milano 2005, pp. 116.184.

[3] R. Fabris, “Lo Spirito santo e le Scritture in 2Tm e 2P”, in E. Manicardi – A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nell’autotestimonianza della Bibbia. XXXV Settimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche 12,1-2 (2000), pp. 297-320.

[4] G. De Virgilio (ed.), Chiesa e ministeri in Paolo, Dehoniane, Bologna 2003.

[5] R. Fabris, “La casa-famiglia negli scritti del Nuovo Testamento”, in R. Fabris -E. Castellucci (edd.), Chiesa domestica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, pp. 9-123.