N.03
Maggio/Giugno 2010

“Non abbassate il tiro della vostra vocazione!”

Post-it per l’Anno Sacerdotale

In occasione dell’Anno Sacerdotale e in vista del prossimo decennio pastorale, in cui la Conferenza Episcopale Italiana ci invita a lavorare sul tema della sfida educativa, dal 10 all’11 febbraio 2010 si è tenuto a Roma un Seminario di studio per sacerdoti: “Collaboratori della vostra gioia”. Il sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale.

Il Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile, il Centro Nazionale Vocazioni e la Commissione Presbiterale Italiana hanno insieme proposto questo momento di riflessione e di approfondimento sul rapporto fra il sacerdote e i giovani nel contesto della celebrazione del sacramento della Riconciliazione e della direzione spirituale, come veri e propri itinerari educativi per una crescita umana e cristiana.

Hanno partecipato al Seminario i membri della Commissione Presbiterale Italiana e i Direttori e gli incaricati regionali della Pastorale vocazionale e giovanile.

È possibile dividere i lavori – che si sono svolti in un clima fraterno molto impegnato e coinvolto – in tre blocchi:

– la testimonianza di tre giovani sulla loro esperienza in rapporto a Confessione e direzione spirituale;

– la relazione di Padre Daniele Libanori, S.J.;

– il lavoro di gruppo per un confronto e un approfondimento sul tema.

Per la relazione di P. Libanori, molto apprezzata, rimandiamo alla sezione “Studi” di questo numero della Rivista. Di seguito riportiamo la testimonianza dei giovani e una sintesi delle tematiche più significative emerse dal lavoro svolto nei gruppi di approfondimento.

 

TESTIMONIANZE

 

Sabrina Atturo – Anagni (FR)

Caro Diario,

sono giorni che penso, rifletto e soprattutto invoco lo Spirito affinché mi aiuti a ripercorrere tutte le tappe salienti della mia vita spirituale, un cammino affascinante, in salita, ancora con tanta strada da percorrere, con punte di estrema gioia, ma anche punte oscure e difficili.

La prima sensazione che provo…

…è la difficoltà di concepire il discernimento! Eh sì, la parola DISCERNIMENTO ha accompagnato tutta la mia adolescenza… non c’era testo di Azione Cattolica che non riportasse questo termine. Ho provato con tutta me stessa a comprenderlo, ma la cosa più difficile è stata accettare che il discernimento nella mia vita non potevo farlo da sola, avrei dovuto accettare di confrontarmi, di aprirmi, di raccontare, di diventare libro aperto per qualche guida spirituale. Pregavo il Signore affinché mi evitasse tutto ciò, mi sembrava troppo difficile. Perché confrontarmi con un altro essere umano limitato come me? E poi, se mi guarda in modo diverso quando ci incontriamo per strada? Che vergogna… Ma chi è lui per dirmi cosa devo fare, come mi devo comportare; la mia è una vita normale, tranquilla, Dio mi conosce, parlerò direttamente con lui e aspetterò i suoi segni.

 

Per un po’ di tempo ho trovato due soluzioni…

Ogni volta un sacerdote diverso per la confessione, se poi riuscivo a trovarlo nel confessionale, durante la celebrazione domenicale, con un po’ di confusione, era il “top”: il sacerdote aveva fretta, io facevo la confessione tecnica, per lo più sempre le stesse cose da dire, non stavo completamente in pace con la coscienza, ma potevo accedere all’Eucaristia…

La confessione comunitaria in parrocchia prima di Natale e prima di Pasqua… che altra bella trovata per la confessione “mordi e fuggi”! E tutto questo per anni!

 

Il Magis ancora era lontano…

Ho provato anche a confessarmi prendendomi più tempo. Sono andata dal mio parroco una volta che avevo 20 anni, gli ho chiesto un appuntamento, non credevo a me stessa: mi sentivo talmente piccola, non sapevo da dove cominciare, appena sono entrata a casa sua mi sono seduta e alla sua domanda: come va? Ho iniziato a piangere. Era una tecnica efficace… il perdono è arrivato anche se accompagnato da un bel ceffone… proprio un bel ceffone, di quelli che tieni a mente, di quelli dati da un padre che ti vuole un sacco bene… l’ho capito soltanto più tardi, per molto tempo ho tenuto il broncio ogni volta che lo incontravo.

 

Tutto intorno a me mi chiedeva di più!

Gli impegni e le responsabilità nei confronti dei ragazzi del gruppo di Azione Cattolica aumentavano, ero una loro educatrice, come accompagnarli al sacramento della Riconciliazione se io stessa avevo difficoltà a farlo? Furono anni duri! Anche il mio essere cresceva con gli anni… crescere, scegliere, discernere: verbi che mi tampinavano il cervello! I sacerdoti, con il loro stile, non mi aiutavano, la scusa per non trovare una guida spirituale era semplice: il parroco è sempre impegnato, proprio io, corresponsabile della Chiesa che gli faccio perdere del tempo prezioso?

 

Il Magis stava arrivando

La semina c’era stata: bisognava fare sintesi e raccogliere. Ho dovuto aspettare il Giubileo del 2000, un evento molto importante della mia vita. Stavo in fila davanti alla Basilica di San Pietro per attraversare la porta santa, mi fermai un attimo e dissi a me stessa: Sabrina, se attraversi quella porta santa entrerai nella Chiesa con tutta te stessa, da vera cristiana, fino in fondo, anzi fino in cima, come dice don Tonino Bello, oppure ti fermi, non l’attraversi, non entri, starai fuori dalla Chiesa! Nella vita si sceglie…

Sono entrata e da quel giorno mi sono riappropriata con profonda consapevolezza di tutte le cose belle della Chiesa, anche della Riconciliazione, che prima di allora mi sembrava una cosa imposta per il controllo delle anime mi sono appropriata pian piano della ricerca personale di un cammino spirituale per me, per la mia persona, per la mia vita, un cammino solo mio.

E da chi sono tornata? Chi ho scelto come accompagnatore? Il prete del ceffone, proprio lui, quello dal quale fuggivo, lui che intanto non era più mio parroco, con il quale c’era il giusto distacco: è stato lui a farmi capire l’importanza della Riconciliazione con il suo stile, con la sua passione per la Chiesa, per Cristo… Occhi che brillano al solo parlare di Cristo, una conoscenza profonda, racconta di lui come parlasse di un amico; una conoscenza che mi stupisce ogni volta, che mi ricorda ogni volta che, con impegno, anche io posso seguire gli insegnamenti di Cristo, posso anche io adottare il suo stile… Che bella la fede del mio padre spirituale, una fede viva, accesa, fresca, una fede fatta di esperienza diretta di Cristo, una fede raccontata e condivisa con me, che mi aiuta a crescere nella santità.

All’inizio non è stato facile, ma ora è un rapporto profondo, fatto di stima, fiducia… quando lo cerco lui è lì, senza fretta, con cuore aperto e sento che non siamo soli, ci sono sempre con noi la sapienza, l’intelletto, il timor di Dio, la forza dello Spirito Santo. Lui per me c’è e la sua disponibilità non è data dall’assenza di impegni, ma dal fatto che nella vita ha stabilito delle priorità e l’accompagnamento spirituale è una di queste, prima del fare.

Non l’ho mai sentito dire alle sue pecorelle: «Quanto ho da fare! Non ho tempo per fare tutto…» I suoi impegni sono cose sue, è la sua agenda, ma non la carica addosso alle persone che incontra e questo non mette a disagio le persone che vogliono confrontarsi con lui; se vuoi chiamarlo lui c’è e sai bene che non lo disturbi.

Quanti sacerdoti sento invece dire: «Non ho tempo, una giornata di 24 ore non mi basta, non riesco a fare tutto: i gruppi, la parrocchia, le responsabilità»… e la persona?

Caro sacerdote, ti fermi a guardare negli occhi il giovane della tua parrocchia, sai che scuola frequenta? E poi, magari, dalla stessa bocca frasi del tipo: «Ma i giovani non si vengono a confessare, non hanno il senso della riconciliazione, al catechismo non glielo hanno insegnato»… E perché io, giovane, dovrei chiamare te, che mi dici sempre che non hai tempo? Io voglio uno che mi ascolti! Mi ascolti! Che mi faccia sentire importante dedicandomi del tempo, perché se alle relazioni si dedica tempo, energia, passione, queste diventano vere, fanno crescere persone mature e sane.

Una canzone dice che nel momento in cui dedichi del tempo ad ascoltare le attese, le ansie, le paure, le gioie di tuo fratello, si crea tra le persone della relazione una danza… che bella immagine: una danza tra il padre spirituale e il giovane.

Spesso mi trovo ad osservare e ad ascoltare i giovani e mi rendo conto dei loro bisogni. Auguro a tutti loro un cammino ricco, auguro loro di incontrare sacerdoti belli e ricchi interiormente. Oggi c’è la tendenza ad essere sacerdote “alternativo”, fuori dagli schemi, ma questo stile non sempre è opportuno per i giovani. Un giovane di oggi ha già tutto il mondo attorno a sé “alternativo”, non ha riferimenti stabili: famiglie di corsa o a pezzetti, amici egoisti, istituzioni assenti. In tutto ciò ci mettiamo anche il sacerdote alternativo, che va di corsa? No, vi prego sacerdoti! Fermatevi per noi giovani! Per le “cose da fare” delegate i laici, ma per i giovani trovate il tempo, non delegate… abbiamo bisogno dei sacerdoti, della testimonianza di fede in Cristo.

Ringrazio il Signore per lo splendido dono dei sacerdoti.

Cari sacerdoti, non abbassate mai il tiro della vostra vocazione, siete chiamati a diventare santi e a farci diventare santi con voi!

 

Giovanni Amici – Roma

Mi chiamo Giovanni, vengo da Roma e ho 27 anni. Sono stato catechista/animatore nella mia parrocchia, collaboro a livello diocesano con il Centro Oratori Romani e a livello nazionale nella Commissione Fointernational del Forum degli Oratori Italiani. Attualmente opero come catechista missionario in una parrocchia della periferia romana. Non dico tutto questo per fare curriculum, ma per introdurre il contesto della mia esperienza. Mi sono limitato a fissare alcuni punti su cui vi darò la mia testimonianza in modo molto libero e personale, sia come giovane che come educatore.

Innanzitutto, vorrei parlarvi del mio rapporto personale con la confessione e la direzione spirituale, per poi allargare la mia argomentazione a quelli che, secondo me, sono più in generale i bisogni dei giovani.

Personalmente il mio rapporto con la confessione è di amore-odio. Ne capisco e ne condivido profondamente l’assoluta importanza, ma, allo stesso tempo, ho un’enorme difficoltà nel praticarla per un mio limite personale. È, infatti, un bel dire che il sacerdote è li per ascoltarti e non per giudicarti. Il problema sta proprio nella relazione personale con l’uomo.

Ammettere i proprio errori davanti ad un’altra persona non è mai una cosa banale e ci rende in qualche modo “nudi” e questo crea un problema a prescindere da tutto il resto.

E poi c’è il grande dilemma del “e adesso a questo che gli racconto? Faccio sempre le stesse cose, a che mi serve confessarmi ogni volta?”.

Una grossa difficoltà, che ho sempre avuto, è proprio quella del mio discernimento personale. Non è facile capire ogni volta quali sono le cose da dire e quelle che, invece, non servono e si finisce spesso per iniziare a raccontare la nostra vita a ruota libera, confondendo la confessione con la direzione spirituale, mentre sono due cose molto diverse. Questo è dovuto al fatto che non siamo mai stati davvero preparati a farlo, ad analizzare la nostra vita alla luce di Cristo, individuando quali sono le cose che non vanno, a capire che, anche se ripetiamo ogni volta gli stessi peccati, non è la stessa cosa perché tra le due confessioni ci dovrebbe essere una crescita o almeno un tentativo di cambiamento. Andrebbe battuto molto su questo punto se vogliamo davvero che le nostre confessioni siano efficaci e contribuiscano realmente alla nostra crescita. Ecco, secondo me manchiamo molto in questo. Dico manchiamo perché credo molto nella corresponsabilità tra laici e sacerdoti e non la considero una colpa solo dei sacerdoti, ma di tutti gli operatori che si occupano dei giovani.

Per quanto riguarda il problema “dell’uomo”, la soluzione che spesso si trova è quella di cercare sacerdoti che non conosciamo e che cambiano di volta in volta perché, se lo andiamo a dire al nostro sacerdote, poi chissà quello cosa pensa di noi, ma è una dinamica che non porta a molto e l’unica vera soluzione è quella di avere un prete che c’è.

Io vengo da un’esperienza di oratorio e sono molto legato al concetto di un prete che c’è, che è presente nel cortile e tra i giovani, ma quando mi riferisco a questo non voglio intendere che deve essere sempre al centro delle attività, deve sapere vita, morte e miracoli di ogni ragazzo che passa all’oratorio o che deve essere chissà quanto giovanile. Un sacerdote che c’è è un sacerdote che sa diventare un punto di riferimento a prescindere dall’età che ha o da quanto tempo passa a giocare o a scherzare con noi. È una persona per cui tu sai di non essere un perfetto sconosciuto e che è pronto ad esserci per te.

Solo se si crea un rapporto personale sicuro è possibile oltrepassare il problema della relazione interpersonale e si è disposti ad aprirsi veramente al sacerdote che si ha davanti. E questo è possibile perché ci si sente prima di tutto accolti. La confessione diventa allora un momento in cui il dialogo è vero e si riceve finalmente una parola per noi e non una risposta standard. È una questione solo di atteggiamento e non di quanto un prete è più o meno forte o accattivante.

L’aspetto dell’esserci diventa poi fondamentale se ci riferiamo ai ragazzi più piccoli e sopratutto agli adolescenti. Per l’esperienza che ho, essi hanno un estremo bisogno di essere accompagnati nella loro crescita ed è una cosa che desiderano ardentemente.

Mi sono occupato a lungo, per la mia associazione, dei convegni estivi e in particolare della settimana di formazione teologica e pastorale per i catechisti/animatori di 16-18 anni e si vede chiaramente come questi, a metà convegno circa, “esplodano” con il sacerdote che è lì per seguirli. È bene dire che non sono persone speciali, ma sacerdoti che semplicemente sono lì per seguirli e formarli teologicamente. Però ci sono ed è questo che conta. Tutto ciò avviene perché il più delle volte i ragazzi arrivano con alle spalle un anno di cose che non sono riusciti a dire a nessuno e, finalmente, trovano qualcuno pronto ad ascoltarli.

Se il mondo scopre che sei cristiano e che vai in chiesa, allora decide che tu devi sapere tutto e devi saper giustificare ogni cosa che la Chiesa fa o dice. Questo alla lunga logora la nostra fede ed è fondamentale essere seguiti e sostenuti in questa età cosi difficile in cui finalmente decidiamo se quello che ci dicevano mamma, papà, il prete o i catechisti sono solo “favolette” o cose in cui davvero crediamo. Ma come farlo? Io sono dell’idea che spesso si sia troppo strutturati. Quando si pensa a come favorire la confessione si pensa subito a delle belle liturgie penitenziali per i bambini, per i giovani o per chiunque altro, ma poi questo fa sì che ci si confessi solo se si capita in una di queste occasioni. È solo di questo che hanno bisogno i ragazzi? Di occasioni molto strutturate in cui finalmente possano confessarsi? O questo eccessivo strutturare i momenti porta al non saper più valorizzare la quotidianità? Credo che in un momento cosi delicato, in cui si vanno a porre le basi della nostra crescita, sia fondamentale avere una persona che ci aiuti a mettere le pietre giuste su cui costruire la nostra vita da “grandi”. Questo lo si fa soprattutto in modo informale e con il rapporto diretto e costante con i ragazzi, rapporto da cui ovviamente scaturiscono anche la confessione e la direzione spirituale, ma in un modo molto naturale e spontaneo.

Ringrazio il cielo perché, quando avevo 16-17 anni, nella mia parrocchia ho trovato un sacerdote che mi ha aiutato a crescere e non lo ha fatto attraverso una direzione spirituale “canonica” in cui prendevamo appuntamenti per vederci. Ma in fondo non ce ne era nemmeno bisogno. Alla mia età, invece, le esigenze cambiano e cambia anche il modo con cui si approccia alla fede e diventa, allora, possibile una vera direzione spirituale più classica, in cui ci si sceglie un padre spirituale e si segue con lui un cammino di crescita.

Ma, se prima l’esigenza era quella di fondare la nostra vita, ora diventa quella di essere accompagnati nelle scelte che si fanno. Iniziamo, infatti, ad entrare nel mondo universitario o del lavoro, a porci domande sul nostro futuro e sulla nostra scelta vocazionale, che non è necessariamente solo la vita matrimoniale, e abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a scegliere e a sostenere la nostra fede. La fede è un “sì” a Cristo che va confermato in ogni nostra scelta e, se si è lasciati soli a scegliere, il rischio di sbagliare, pure in buona fede, è altissimo.

In sintesi, quello che, come giovane e come educatore, mi sento di chiedervi è questo: se davvero dovete diventare contagiosi nelle vostre diocesi e dovete scegliere un aspetto su cui concentrarvi, io vi chiedo di puntare sull’esserci. Abbiamo bisogno di sacerdoti che ci siano per noi e, ripeto, questo lo si può fare a prescindere dall’età e dal tempo effettivo che si ha, perché quello che conta è la qualità del tempo che ci dedicate. Per fortuna di sacerdoti così ce ne sono e io ne ho conosciuti parecchi, ma molto va ancora fatto.

 

Marta Micelli – Como

C’è una cosa che desidero mettere alla base di questa testimonianza inesperta che porto ed è il perché di un “sì”. Di quel “sì” ad esserci, qui, oggi.

A parte quella che definirei una buona dose di incoscienza, e che mi è risultata chiara l’altro giorno, quando al telefono un’amica mi ha detto: «Marta, io non l’avrei fatto» (…bene!); mi sono chiesta quale fosse la ragione più profonda dell’aver accettato di venire qui.

Sono qui perché credo di non essere da sola. Perché sono convinta che siamo molti, molti giovani, che desideriamo vivere la nostra quotidianità con Cristo. Tanti ho avuto il regalo di incontrarne, alcuni sono in comunione con noi anche oggi, in tre siamo seduti qui, altri certamente non li conosco. Molti. Magari esprimiamo questo desiderio con la nostra incoerenza e vi chiediamo di non nominarlo troppo questo Dio. Ma, in realtà, lo cerchiamo in ogni nostra domanda e lo cerchiamo in voi, desideriamo cercarlo con voi. Non da sola dunque. E ci tengo a dirvi che non lo siete neanche voi, se volete, nel lavoro che vi proponete in questi giorni e tutti i giorni. Non da soli.

A due amici, nella vita chiamati ad essere sacerdoti, ho rivolto questa domanda: «Se doveste descrivere il sacramento del perdono ad un bambino, quale gesto usereste?». Ho ricevuto in regalo le loro risposte e mi sono accorta che c’era un denominatore comune: le mani. Mani che accarezzano. Mani che rialzano. E ho tenuto lì queste risposte, perché in realtà non sapevo ancora bene cosa farne.

Due giorni dopo ho letto il brano del Vangelo del giorno (Mc 2,1-12) e ho scoperto il senso di quelle immagini. Nella Parola ho trovato alcuni spunti che, come “post-it”, vorrei ora condividere.

Il primo post-it l’ho trovato nel momento centrale: «Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati».

Se avessi dovuto abbinare una didascalia a quest’attimo (un po’ come nell’esercizio che si fa con i bambini: “Dividi il testo in sequenze e metti i titoli”) avrei scritto: FERMARSI PER ESSERE AMATI.

Ecco, il paralitico non me lo immagino ad andare di fretta. Calma e tempo dedicato per stare davanti a Cristo con la nostra vita. Forse ogni tanto dovremmo augurarci di essere, in questo senso, paralitici. Dovremmo chiedercelo, in modo reciproco, noi a voi sacerdoti, voi a noi giovani. Pensando alla mia esperienza vedo che per anni ho fuggito questo tempo dedicato, questo fermarmi per mettere la mia vita e le sue paralisi di fronte a Dio. Fuga perché non coglievo il senso di questo FERMARSI e avevo una gran paura.

Ma oggi desidero questo tempo dedicato. E credo che il cambiare per me sia stato scoprire il “come” di questo fermarmi. Il senso di questo spazio che provo a vivere pur nell’incoerenza del riuscire davvero a fermare la mia quotidianità. Ecco dunque perché il titolo della sequenza ha una seconda parte: PER ESSERE AMATI. E così ho un po’ più di coraggio nello starci.

La mia storia mi suggerisce che l’essere amati non è mai in teoria. Obbligatoriamente vive nella relazione, è incarnato (e lo ha scelto Dio stesso! «Figlio»). E il bello è che nel sacramento della Riconciliazione voi avete la grandissima possibilità di dare corpo a questo amore, con il vostro modo assolutamente personale “di stare” nella relazione. Allora mi sono fatta io per prima la domanda – non certo perché sia chiamata a confessare, ma ad amare siamo chiamati tutti –: «Qual è il mio modo di far trasparire, nella relazione, il suo amore… qual è il tuo?»: non ho certo la risposta, ma vi lascio qui la domanda!

L’amore del Padre ti rialza con la barella («alzati, prendi la tua barella»). Me lo ha fatto notare un po’ di tempo fa un amico: il limite della mia umanità, e il segno concreto che lo rappresenta, non resta lì. Sono amata e rialzata con la mia barella. Ci ho messo anni ad accogliere questa cosa. Ci ho messo anni ad accettare che quella sensibilità che mi ha fatto star male (mi ha fatto sperimentare il peccato) poteva essere la stessa con cui stare vicina ad altri. La mia barella per ripartire. Perché se la barella l’abbiamo in mano, magari possiamo usarla per soccorrere. Solo che lo sguardo è duro a cambiare e anche qui credo che a voi sia dato un grandissimo spazio d’azione. Stateci accanto, proponeteci questa lente del suo amore, anche se facciamo fatica a starci, anche se magari sul momento la rifiutiamo.

L’amore di Dio, se hai spazio per accoglierlo, ti indica la strada con speranza («alzati… e va’ a casa tua»). Per me è stato fondamentale incontrare persone che nell’errore hanno saputo vedere la mia umanità vera, la possibilità di ripartire per amare. Mi piace davvero tanto che Dio ci ami così. Ma mi rendo conto di quanto sia delicato questo anello di congiunzione tra il ricevere il perdono e il viverlo. Insomma, non vi dico che la ritengo una cosa semplice o immediata, ma credo che ancora una volta abbiate voi tra le mani la possibilità di indicarci la sua strada per ripartire, con quello che siamo. Perché uscendo riconciliati e nuovi non rischiamo di non renderci conto di esserlo.

Complesso, ho detto. Perché è un indicare la strada, non ancora un camminare. Partendo da me vi dico che per anni ho cercato questa confusione, così evitavo di vivere davvero sia il perdono che la conversione; e non cogliendo il senso, giustificavo anche il mio non essere particolarmente attirata né dall’uno né da un cammino di accompagnamento. Ho trovato fondamentale – ma non per questo lo ritengo indicazione universale – differenziare anche le persone. Un confessore ed un padre. Due relazioni per lasciarsi amare e poi rispondere con la vita. È quindi in mano a voi anche questo saperci ricordare che il suo amore ci precede e che l’introspezione, l’analisi, la conversione sono fondamentali, ma sono un cammino che parte da lì. Da questo lasciarci amare.

Vi chiediamo di esserci padri. E vi chiedo con molta schiettezza alcune cose.

Il Padre stesso vi ha scelti. Ecco, penso che la cosa più bella sia trovarvi consapevoli di questo: “prestatevi” a lui.

Non abbiate paura di essere esigenti.

Non fatevi sconti. Se scegliamo un sì alla paternità, o alla maternità, allora chiediamoci di vivere con serietà il tempo della preghiera e della preparazione, perché un cammino non è mai un insieme di incontri-spot, ha bisogno di continuità, impegno e anche un po’ di studio. E la differenza si sente.

 

Il secondo post-it è la Parola («ed egli annunziava loro la Parola»).

La Parola ti apre all’accoglienza, perché in ogni pagina senti respirare quell’amore che Dio ha per te, tutti i giorni. E stare di fronte a questo ti dona il senso di quello a cui ti avvicini. Ti libera dalla zavorra della paura che ti mette in fuga.

Quando poi metto la mia vita al confronto con la Parola, quella Scrittura che è racconto e vita di una relazione davvero umana e realizzata con il Padre, con gli altri e con se stessi, allora riesco a scoprire dove, nella mia quotidianità, sono andata in riserva d’amore. E scopro che mi capita nelle piccole cose. Ma se il parametro di confronto è l’amore, nel riconoscerlo so che c’è la sua fiducia che mi rilancia.

 

Il terzo post-it, infine, l’ho trovato in quel «sorretto da quattro persone».

Anche il paralitico, così come me, non sempre riesce ad arrivare da solo. Ma la Riconciliazione non è fatta per essere vissuta da soli, è un sacramento nella, per la e della comunità cristiana. Lo è perché insieme agli altri possiamo riconoscere le nostre riserve d’amore, lo è perché solo con loro possiamo vivere la gioia della festa e il grazie per il perdono ricevuto. Nella mia esperienza questi due momenti hanno oggi significato. Non è semplice viverli nella vita di tutti i giorni, non vi nego le incoerenze che spesso il nostro limite ci fa incontrare anche in questo cammino. Ma assaggiare il significato della preparazione e del ringraziamento in cui io, giovane (o un giovane con me), divento testimone di quella Chiesa che accompagna al perdono, è stato capire cosa significa che la comunità dà completezza al sacramento.

 

Mi piace chiudere con un augurio che fa sintesi delle provocazioni, perché in questo Seminario, e nella quotidianità di ogni oggi, possiamo scoprirci davvero mani del Padre.

Un gesto: le nostre mani per essere sue,

per fermare e fermarci,

per incarnare la carezza del suo amore,

per rialzare con la barella,

per indicare la strada della speranza,

per prendere per mano la comunità,

per offrire la Parola

e poi

per scavare nella vita,

per sostenere nella salita del cambiamento,

per sottolineare la sua traccia nella nostra quotidianità.

 

SINTESI DEI LAVORI DI GRUPPO

Dopo la relazione di P. Libanori, sono stati costituiti alcuni gruppi di studio che, in due sessioni di lavoro, hanno approfondito le seguenti tracce di riflessione:

1- la condizione antropologica di base, caratterizzata dalla percezione del peccato, strettamente legata alla percezione di Dio, ma anche dalla confusione tra peccato e colpa.

2- La Penitenza sacramentale come risposta della Chiesa all’uomo ferito, attraverso la ricerca e la messa in evidenza dei luoghi di incontro in cui avviene tale risposta.

3- Il Ministro della Penitenza: ricerca del percorso esperienziale più idoneo per la formazione di un presbitero che sappia essere “epifania sacramentale” di Cristo misericordioso, degno di fede, maestro e pastore.

4- Ipotesi pastorali: quali proposte per fare della Penitenza un luogo di evangelizzazione?

 

Gruppo di studio 1

Sintesi a cura di don Mario Masciantelli

I lavori di questo gruppo hanno preso in esame dapprima il primo ambito proposto: la condizione antropologica di base, caratterizzata dalla percezione del peccato, strettamente legata alla percezione di Dio, ma anche dalla confusione tra peccato e colpa.

Ci si è dapprima interrogati sui fattori che favoriscono il senso di Dio e aiutano a comprendere l’agire umano nella relazione con lui e con il suo progetto e sui fattori che invece portano a interpretare la realtà dell’uomo secondo criteri che lo escludono. È stata indicata come decisiva in tal senso la relazione primaria con i genitori: la percezione distorta della famiglia nella realtà contemporanea è di ostacolo, in molti casi, allo sviluppo di un rapporto maturo con Dio.

È stata anche rilevata la necessità di mettere l’accento su un “Dio del cuore che deve portare a creare una comunità dei cuori”. In questo senso “un’esperienza di Chiesa davvero misericordiosa fa riscoprire Dio”: il “senso di Dio passa attraverso la capacità di stabilire ponti, di entrare in sintonia affettiva”.

Ci si è quindi domandato se la diffusa tendenza a vivere sulla corda delle emozioni sia di aiuto o intralcio all’annuncio della fede. È stata messa in rilievo la possibile valenza positiva delle emozioni, che possono diventare “canali attraverso cui fluisce la grazia”. Luoghi come Taizé, in cui si lavora sulle emozioni elaborandole, possono diventare occasioni per fare esperienza autentica di Dio. Analogamente, è stato osservato, “anche il senso di colpa può aiutare a cogliere il senso autentico del peccato: non è necessariamente in antitesi”. La discussione del primo ambito si è chiusa rilevando la necessità da parte dei pastori oggi di “recuperare la relazione profonda, interiore con Cristo”, che fa perno anche sui sentimenti e sulla vita interiore, sulla scia di Sant’Ignazio di Loyola che scrutava i moti del cuore, dell’anima, dando vita a una vera e propria psicologia spirituale.

La discussione è poi passata al secondo ambito: “La Penitenza sacramentale come risposta della Chiesa all’uomo ferito”, attraverso la ricerca e la messa in evidenza dei luoghi di incontro in cui avviene tale risposta. Essi sono stati individuati nei momenti in cui la persona sperimenta il fallimento (affettivo, professionale) oppure la perdita di un familiare o di un amico, ma anche la vecchiaia e la sofferenza, preludio della morte. In tutti questi casi la risposta è l’annuncio del mistero pasquale come paradigma interpretativo della vita dell’uomo, l’annuncio di Cristo che ha vinto la morte per ricondurre l’uomo alla sua autenticità più profonda del suo essere. In questa prospettiva il sacramento della Riconciliazione aiuta a rendersi coscienti di questa verità fondamentale che è il mistero pasquale.

Nel terzo ambito (“Il Ministro della Penitenza”) si è quindi andati alla ricerca del percorso esperienziale più idoneo per la formazione di un presbitero che sappia essere “epifania sacramentale” di Cristo misericordioso, degno di fede, maestro e pastore. Diverse le indicazioni formulate in proposito: il percorso deve innanzitutto far vivere un’esperienza di vera armonia con il vescovo e il presbiterio; deve rivalutare l’importanza della dimensione comunitaria, stimolando una sana autocritica ed esperienze autentiche di comunione e di riconciliazione, così come contatti costruttivi con le famiglie, con il vissuto quotidiano della gente, in un rapporto davvero empatico; il futuro sacerdote deve poi fare per primo esperienza assidua del sacramento della Penitenza e vivere anche la Messa come luogo di riconciliazione con gli altri e con Dio. Fondamentale sarà poi acquisire negli anni di formazione una vera abitudine alla correzione fraterna.

Infine, il gruppo di lavoro ha discusso le “ipotesi pastorali” del quarto ambito: quali proposte per fare della Penitenza un luogo di evangelizzazione? Sono state formulate alcune piste in proposito: proporre la Quaresima come cammino serio di conversione; sottolineare nella predicazione e nella catechesi tutte le altre modalità di riconciliazione: preghiera, opere di carità, meditazione della Parola, l’atto penitenziale della Messa; mettersi seriamente di fronte alla Parola di Dio nella celebrazione del sacramento della Riconciliazione; valorizzare l’importanza della dimensione comunitaria anche nella celebrazione del sacramento; preparare ministri laici per l’accompagnamento dei penitenti.

 

Gruppo di studio 2

Sintesi a cura di don Gianni Caliandro

Il contesto rende problematico un vero recupero del senso del peccato (lo sfilacciamento della vita familiare, l’influenza dei massmedia, la diffusione di un soggettivismo estremo, ecc.). In questo contesto è necessario aiutare le persone innanzitutto a riscoprire il senso di Dio e per noi significa chiederci che catechesi facciamo, quale immagine di Dio presentiamo, interrogandoci sulla qualità della nostra proposta. Da un punto di vista più ampiamente pastorale, occorre saper creare, come presbiteri, spazi affettivi nei quali la persona sia accolta e facilitata nell’esaminare se stessa senza sentirsi giudicata, nel prendere contatto con sé profondamente senza far nascere da questo contatto nessuna angoscia.

Noi dobbiamo oggi evangelizzare attraverso una qualificata azione educativa. Il prete è un amico, che sa creare attorno a sé fiducia, ma anche un fratello, e a questo livello deve far crescere il senso di appartenenza nelle persone, e infine un padre, che deve suscitare e alimentare responsabilità nelle persone. Come preti, dobbiamo allestire cammini che abbiano anche un calore affettivo – perché l’affettività è quel centro in cui la persona si gioca con le emozioni, i desideri, i bisogni – all’interno dei quali soltanto potranno nascere degli itinerari di accompagnamento spirituale. A questo scopo non bastano grandi eventi, o proposte di tipo esclusivamente aggregativo, ma è necessaria l’elaborazione di veri e propri progetti di Pastorale giovanile.

La questione preliminare alla pastorale della Penitenza è quella di Dio. Solo aiutando le persone a ritrovare il senso di Dio, a crescere nella fede, esse potranno recuperare il senso del peccato e sentire il bisogno di compiere un vero itinerario penitenziale. Come preti, il compito è innanzitutto quello di far crescere la fede nelle persone.

Come preti dobbiamo essere attenti a far evolvere l’esperienza affettiva verso l’assenso intelligente a Dio e alla sua proposta. La difficoltà che come preti viviamo è che questo passaggio richiede tempo, può avvenire solo all’interno di relazioni interpersonali profonde, di grande qualità e spesso un prete non riesce a trovare il tempo per far fiorire relazioni di questo tipo, pressato da impegni pastorali spesso su fronti diversi, quando non in parrocchie diverse di cui ha contemporaneamente la responsabilità. Anche i momenti tragici, nel mondo dei giovani, possono diventare occasioni preziose per crescere nella riconoscenza e nella gratitudine per il dono della vita, dono di cui sentirsi responsabili.

«Fissatolo, lo amò» dice il Vangelo dell’atteggiamento di Gesù nei riguardi del giovane ricco, facendo intravedere una qualità autenticamente umana, che presta attenzione anche all’aspetto affettivo, che fa sentire vicinanza emotiva e calore. In che maniera ci avviciniamo ai giovani perché si sentano attratti dalla proposta cristiana? Spesso, dopo aver celebrato il sacramento della Penitenza, essi si sentono un po’ “pentiti”, ma non “graziati”, spinti in avanti, aiutati a ricominciare con entusiasmo e gioia! È la loro fame di senso, di felicità, di vita e di valori a costituire il terreno della nostra proposta pastorale con loro.

Come preti siamo chiamati ad appassionarci dei giovani. Il momento sacramentale della Riconciliazione deve essere espressione di una vita ecclesiale che nella sua interezza è accogliente, disponibile, appassionata nei loro riguardi. Non possiamo rassegnarci ad una episodicità del sacramento (“purché si confessino…”), ma pian piano dobbiamo educarli al senso del cammino di conversione, perché arrivino a percepire che il peccato è l’interruzione di questa crescita continua in umanità e nell’amore.

Nella visione cristiana della vita le ferite sono un luogo importante e significativo. Dobbiamo aiutare i giovani a mettere le loro ferite davanti alla verità del Signore, perché non perdano una direzione, un orientamento, che già di per se stesso è liberante. A creare la possibilità di questo incontro tra le proprie ferite e la verità che è il Signore è la qualità affettiva della nostra relazione con loro, l’empatia tra noi preti e i giovani, la profondità e la serietà del rapporto interpersonale.

Dobbiamo chiederci seriamente se non stiamo perdendo il contatto con il mondo giovanile. Dobbiamo stare molto in piazza, nei luoghi di aggregazione, per strada, e perfino nei bar, dove essi trascorrono molto tempo, fino a condividere la loro quotidianità, e così comprenderla. In ogni caso i nostri molteplici impegni pastorali non sono del tutto negativi, perché un giovane, se non mi trova subito a sua disposizione, ma mi vede impegnato seriamente in altre cose, comprende più facilmente di non essere il centro del mondo e che non può narcisisticamente pretendere che tutto sia in funzione dei suoi bisogni.

Chi lavora in un santuario comprende la necessità di questi luoghi, nei quali spesso la pratica dell’accompagnamento spirituale e la confessione sacramentale vanno forzatamente insieme, vista la sporadicità e l’eccezionalità degli incontri. Sono utili anche alcuni piccoli sussidi che nell’immediato favoriscono nella persona un atteggiamento di riflessione e di penitenza.

Mancano padri spirituali, tante persone li cercano, ma non riescono a trovarne. La verità è che spesso il livello della vita spirituale del clero è insoddisfacente e le occasioni per crescere in questa dimensione non sempre sono significative. Solo chi vive la propria fede come una conquista quotidiana, avvenuta anche attraverso una dimensione di lotta, può accompagnare gli altri nel loro cammino spirituale. Nei giovani, poi, c’è una specie di ottundimento: sono bravi, hanno l’istinto del bene, una sensibilità interiore, ma non sempre, pur frequentando i nostri ambienti ecclesiali, hanno fatto un vero incontro personale con il Signore. Dobbiamo aiutarli ad arrivare fin lì, fino a sentire la voce del Signore nella propria coscienza.

Per far sentire la persona incontrata e accolta in tutto quello che vive, la confessione sacramentale può iniziare con una domanda del tipo: “Come va la sua vita?”. L’esperienza concreta mostra come espressioni di questo genere funzionano e aiutano il penitente a guardare alla propria esistenza, per un iniziale discernimento. Nella compassione, dobbiamo stare al passo delle persone, cogliendo la gradualità dei loro cammini e aiutandole a passare dal razionalismo della fede ad una vera esperienza di fede. Ma tutto questo si impara solo facendolo, a confessare – ma anche a confessarsi come preti! – si impara confessando.

Come preti dobbiamo stare attenti ai rubricismi, perché finiremmo per soddisfare solo le esigenze astratte del diritto, ma dobbiamo compiere gesti di affetto e di accoglienza nei confronti dei giovani, aiutandoli a camminare verso Cristo, verso la perfezione da lui proposta, ma senza colpevolizzarli se essi non la raggiungono subito.

 

Gruppo di studio 3

Sintesi a cura di don Roberto Masciantelli

Abbiamo rilevato come ancora sia grande il rischio della sacramentalizzazione: si parla di Penitenza e di Riconciliazione intendendo subito parlare del sacramento e della sua celebrazione:

– questo è segno di una formazione più cerebrale (sapere Dio) e meno del cuore (sentire Dio);

– sarebbe interessante capire come viene praticata la formazione nelle Scuole di teologia e nelle Facoltà, perché evidentemente è fondamentale la formazione dei pastori;

– manca l’esperienza personale di Dio: questo è grave poiché significa che nella formazione rimangono incisive le esperienze pregresse, precedenti la formazione stessa;

– manca una pedagogia della misericordia.

 

Come fare? Quali i possibili sentieri da percorrere? Alcune proposte:

– valorizzare al meglio l’anno liturgico;

– recuperare la Parola di Dio, senza derive e con equilibrio, in quanto annuncio del bene di Dio;

-cercare e imitare i modelli di prossimità: l’annuncio del bene di Dio può avvenire solo da cuore a cuore;

– vivere con frutto i rapporti istituzionali, che possono già essere occasioni di annuncio (con gli amministratori, le istituzioni civili, ecc.);

– non escludere le situazioni irregolari (sempre più presenti) e considerarle come ambito prezioso;

– considerare questo tema (della misericordia) come oggetto della formazione permanente dei presbiteri;

– ricordando che è determinante il come ci si gioca nelle situazioni feriali;

– sarebbe bello imparare a “sbilanciarsi verso”: i vescovi verso i preti, i preti verso i laici, questi ultimi verso i non praticanti, ecc.;

– solo se ci si conosce, infatti, l’annuncio diventa più incisivo e autentico, capace di proposte forti;

– all’interno delle comunità questo clima di conoscenza reciproca potrebbe favorire la costruzione di una cultura del perdono.