N.03
Maggio/Giugno 2010

Per una gioia semplice e trasparente

«Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2Cor 1,24).

 

  1. La coscienza apostolica di Paolo

L’unità 1,12-2,13 della seconda Lettera ai Corinzi è all’origine di molti studi, poiché fa riferimento ad esperienze precedenti di Paolo con la comunità di Corinto, a visite mancate e anche ad uno scritto che avrebbe inviato a questi fratelli, la famosa lettera fra le lacrime sulla quale non si possono formulare che delle ipotesi. Tanta letteratura per risolvere tanti enigmi rischia di bloccare la lettura del brano su molte questioni interessanti e distrarre il lettore dai suoi contenuti[1]. Il brano, invece, è interessantissimo, perché consente uno sguardo non superficiale sulla coscienza apostolica di Paolo. Si possono leggere queste parole come significative per ogni persona impegnata in una relazione apostolica, perché proprio della sua relazione con i Corinzi Paolo parla.

Sarà utile ricordare che Paolo scrive la seconda Lettera ai Corinzi in un momento particolarmente difficile del rapporto fra lui e loro: si tratta di un episodio che ha colpito molto Paolo, che in una sua visita precedente a questa Lettera ha ricevuto un’offesa da un membro della comunità. Non è possibile definire di quale offesa si parli, ma è certo che l’episodio si erge come un ostacolo fra Paolo e i Corinzi. L’apostolo descrive il suo stato d’animo in 2,4, in cui parla di grande afflizione e di cuore angosciato e di molte lacrime.

Paolo decide di scrivere la sua Lettera perché trova che sia necessario prima di una eventuale altra visita: chiarire le cose, calmare gli animi, aiutare se stesso e la comunità a superare la difficoltà.

Il problema è di relazioni che non funzionano, di fiducia negata, ma l’apostolo non si ferma molto su questi aspetti e preferisce parlare di sé, ponendo come inizio della relazione la sua coscienza. Anticamente non era usuale fare riferimento alla coscienza: il termine aveva un significato negativo, la coscienza interveniva per sottolineare la negatività di una scelta o di un comportamento; qui Paolo la invoca come giudice positivo e manifesta la sua consapevolezza che non deve rimproverarsi di niente.

Si legge in 1,12: «Poiché noi abbiamo un vanto, ed è la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente con voi, con la semplicità e limpidezza di Dio, non con la sapienza della carne, ma con la benevolenza di Dio»; più che della coscienza morale qui si può parlare di coscienza apostolica: si riferisce, infatti, al suo comportamento di apostolo.

 

  1. Semplicità e limpidezza

Che cosa conforta Paolo al punto di non trovare nulla da rimproverare al suo modo di essere apostolo? La presenza di due caratteristiche, la trasparenza e la sincerità, oppure, come nella traduzione proposta, la semplicità e la limpidezza di Dio, o ancora la santità e la sincerità che provengono da Dio (nuova versione CEI) sono il motivo della tranquillità di Paolo, del suo orgoglio che fa della sua autodifesa un vanto?

Questo sembra essere molto importante perché il desiderio della relazione non induce a una serie di recriminazioni, ma piuttosto alla sostanza che la sostiene; un apostolo è in relazione giusta con la comunità fin quando può riconoscere in se stesso la presenza della trasparenza e della sincerità. Evidentemente queste due qualità meritano di essere approfondite: infatti esse non possono ridursi ad un atteggiamento psicologico o ad una questione di carattere.

La coppia di cui si sta parlando esprime il modo di Paolo di essere apostolo, che è quello di essere in tutto trasparenza di Dio. Per essere trasparenza di Dio l’apostolo deve operare la scelta di non comportarsi con i criteri della sapienza umana e di lasciarsi guidare dalla grazia di Dio.

Brunot, in uno studio sul carattere di Paolo[2], analizza molti brani nei quali Paolo si manifesta e, accennando al brano oggetto di quest’articolo, parla della forte volontà di Paolo e la definisce volontà di un lottatore. Qui Paolo si sta vantando, sta cioè affermando con forza la sua identità di apostolo, sta mostrando con quale decisione si sa mettere dalla parte di Dio e riesce a non farsi dominare dai calcoli umani. Chi lo ha insultato non ha saputo riconoscere la sua forza di apostolo, non si è reso conto del suo legame con la sorgente, Dio stesso.

I Corinzi sono autorizzati a mettere in discussione l’apostolo, ma nella misura in cui possano ravvisare nelle sue scelte dei calcoli molto umani. Nel caso attuale, la decisione di rimandare la sua visita alla comunità è la reazione di una persona offesa e vendicativa, il segno della delusione di un uomo che avrebbe desiderato una comunità più reattiva nei confronti della persona che lo aveva offeso, oppure è altro? Questo comportamento è il segno della limpidezza di Dio e della semplicità?

Lasciarsi giudicare sulle motivazioni non è semplice, perché esse raccontano se stesse nelle scelte concrete di ogni giorno e qualunque slabbratura riesce a metterle in discussione. La scelta di Paolo è anche la manifestazione di una grande fede, veramente è convinto che Dio, di cui si dice trasparenza, è presente nella sua vita.

L’espressione “sincerità o limpidezza di Dio” può essere letta, infatti,come sincerità e limpidezza che provengono da Dio[3].

 

  1. Gelosia per il Vangelo

Tutto questo si giustifica, come accennato, per la presenza di avvenimenti che alcuni leggevano come segno di mancanza di credibilità dell’apostolo. La contestazione non riguardava qualche cambiamento di programma, ma tutta la predicazione. Il problema che Paolo vede è, seguendo il suggerimento di San Giovanni Crisostomo, che anche la sua predicazione non fosse più credibile. Solo così si comprendono le parole di Paolo che abbondano di dichiarazioni solenni e anche di giuramenti altrimenti ingiustificati dalla presenza di qualche malumore.

La relazione dell’apostolo con la comunità non può prevedere il dubbio sulla predicazione, Paolo è geloso del suo Vangelo.

Le parole a cui si sta facendo riferimento sono quelle dei versetti 13-23, che possono essere lette come la dimostrazione della trasparenza di Paolo, che ripercorre gli ultimi avvenimenti che hanno creato tanto malumore.

Si è detto che Paolo vuole mettere a fuoco la relazione nella sua sostanza, ma questo non significa che non viva le emozioni di una relazione; in questi versetti c’è la tempesta del cuore che si manifesta in un fraseggio contorto, in contenuti inattesi, come quello che si trova nei versetti 19 e 20, quando, come conclusione di una sua rivendicazione di non essere stato indeciso verso di loro, di non aver detto sì e no, esplode in un’affermazione cristologica fra le più suggestive del Nuovo Testamento: «Come è vero che Dio è fedele, la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”! Poiché il Figlio di Dio, Gesù Cristo che è stato predicato tra voi da me, da Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. Tutte le promesse di Dio in lui sono diventate “sì”. Per questo, attraverso lui, sale a Dio anche il nostro “Amen” per la sua gloria».

Affermazione inattesa, ma non incoerente. Infatti Paolo ha sempre in mente le due caratteristiche apostoliche con le quali aveva iniziato il discorso: la semplicità e la sincerità che vengono da Dio, per cui non è strano che indichi come sorgente della sua fermezza apostolica la fedeltà di Dio. Va comunque notato che queste parole non sono proprio la conclusione più scontata: vi è in esse un senso di sproporzione che va fatta riferire all’emozione.

La relazione che Paolo vive è storia concreta, del resto tutta la Lettera inizia con un riferimento forte allo stato d’animo dell’apostolo. Anche se questo non sembra essere un dato esegeticamente sensibile, pure vale la pena sottolineare queste due sponde dell’apostolato paolino, quella teologica che lo conferma, lo tranquillizza, e quella del rapporto con le comunità, che lo coinvolge in modo spesso drammatico. Paolo, come accennato, non rifiuta la lotta scegliendo l’identità teologica e trascurando quella comunitaria, ma prova a mettere insieme le cose e ci riesce proprio con l’immagine dell’apostolo come trasparenza di Dio.

Introdurre nella narrazione della sua relazione con la comunità una professione di fede così solenne manifesta più delle parole il fatto che Paolo vive il suo apostolato mischiato con Dio e con i fratelli. Questo passaggio della Lettera contiene nei vv. 19 e 20 la professione di fede in Cristo e poi, nei vv. 21 e 22, quella in Dio e in Cristo. In questi due versetti si trova infatti una frase molto familiare a tutti quelli che conoscono un po’ la Bibbia e che conferma la chiarezza della fede di Paolo in Dio come riferimento della sua vita di apostolo: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori».

 

  1. L’apostolo e la comunità. Destini incrociati

Nel definire la fede di Paolo è utile anche un altro elemento presente già al v. 14, che può essere letto, anche se con cautela, come una professione di fede nella comunità.

Infatti, volendo approfondire il riferimento ecclesiale di cui si sta ragionando, si legge al v. 14: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro, nel giorno del Signore nostro Gesù». In queste parole c’è un legame forte fra il destino dell’apostolo e quello della comunità. Nel giorno del Signore, quindi, la prospettiva è escatologica: ci sarà il giudizio nel quale ognuno potrà portare il proprio motivo di vanto. È importante chiarire che la terminologia del vanto è a prima vista un po’ negativa, per questo deve essere letta sempre nel contesto; Paolo ha già chiarito che ha smesso di comportarsi secondo il principio della sapienza della carne, motivo per cui non si può pensare al vanto dell’apostolo come ad una manifestazione di superbia e di vanità, piuttosto si deve pensare al vanto come ad un moto di orgoglio perché Dio conferma l’operato dell’apostolo.

Accogliendo questa interpretazione positiva del vanto, si vede che Paolo si vanta prima di tutto per la sua semplicità e sincerità che vengono da Dio e al v. 14 vede come vanto nel giudizio finale la sua comunità: la Chiesa. Il segno dell’apostolo, il frutto buono da presentare è la comunità; è essa la conferma che non si è lasciato guidare da calcoli umani, ma dalla grazia di Dio. Si tratta di una vera professione di fede nella relazione ecclesiale. Paolo crede molto in questo e in altre lettere esprime questa sua convinzione: Fil 2,15ss.; 1Tess 2,19: «Chi, infatti, è la nostra speranza, la nostra gioia e la nostra corona di gloria davanti al Signore nostro Gesù Cristo alla sua parusia, se non proprio voi?».

La particolarità della seconda Lettera ai Corinzi è che mostra come anche l’apostolo dovrà essere motivo di vanto della comunità. La Chiesa che Paolo ha in mente e che non vuole rattristare, non è un’entità senza responsabilità. L’incidente di Corinto, che tanto lo ha offeso e che desidera sia superato, mette comunque in gioco la comunità che non deve essere preoccupata della brutta figura con Paolo, ma della sua incapacità di discernere e di percepire la trasparenza di Dio nelle parole e negli atteggiamenti dell’apostolo. Anche la comunità è proiettata nell’ultimo giorno e anche essa dovrà potersi vantare di fronte a Dio e dovrà poter dire che ha saputo riconoscere chi portava la parola del Vangelo e di averlo saputo accogliere. Il problema di una comunità è non saper distinguere fra chi la evangelizza e chi la allontana dal Vangelo.

La relazione ecclesiale è dunque essenziale nella vita dell’apostolo e della comunità, è per questo che Paolo non lascia semplicemente correre, ma esamina i comportamenti, li illumina, affermando che, come non potrebbe pensare ad essere apostolo senza la relazione con Dio, nemmeno potrebbe immaginarsi senza la comunità.

 

  1. L’umiltà dell’apostolo

Paolo manifesta una grande stima per le comunità che ha fondato, ma anche un altro tratto del suo carattere emerge quando si rivolge alla comunità: quello dell’umiltà. Tale tratto si esprime chiaramente nella scelta di spiegare ogni singolo comportamento e non gli consente di assumere un atteggiamento pieno di sdegno e contrariato.

Dunque l’apostolo è una persona che sente chiara la presenza di Dio e immagina la sua vita come limpida trasparenza di Dio; è uno che vede nella comunità a cui è mandato il suo motivo di orgoglio, la conferma della sincerità del suo legame con Dio, il motivo stesso della sua esistenza. La coscienza che non rimprovera nulla e la comunità che nasce sono il segno che è la grazia di Dio e non il calcolo umano a guidare il cammino.

È proprio la trasmissione della grazia la preoccupazione centrale dell’apostolo.

Si arriva così a leggere i vv. 23 e 24: «Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita, che solo per risparmiarvi rimproveri non sono più venuto a Corinto. Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede: siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi».

I temi di questi due versetti riassumono quello che fin qui l’apostolo ha scritto. Si inizia con un giuramento che invoca Dio a testimone; ormai il lettore non si meraviglia più della forza di questo linguaggio perché ha compreso che Paolo sta esprimendo se stesso con sincerità e passione. Il giuramento conferma quanto affermato nel v. 12 e cioè la coscienza di Paolo di vivere una relazione forte e sincera con Dio: anche le decisioni che hanno fatto tanto discutere i Corinzi sono state prese con sincerità apostolica e sono motivate dal desiderio di non rimproverarli. Non sono poche le difficoltà che queste parole pongono agli interpreti, la traduzione della CEI parla di una visita mancata per risparmiare rimproveri; il testo greco introduce un verbo che significa semplicemente risparmiare, che indica un atteggiamento di uno che fa grazia a qualcun altro.

Ancora una volta il problema è di relazione: crea, infatti, difficoltà il pensiero dell’apostolo che, dichiarando di non voler intervenire, ammette di avere un’autorità quasi assoluta nei confronti della comunità. Si cercano diverse soluzioni per sfumare le parole di Paolo e ogni soluzione è discutibile. Probabilmente, se si resta fedeli al ragionamento che l’apostolo ha sviluppato fino a questo punto, si può trovare più facilmente una soluzione. Il problema di questo brano non è quello dell’autorità apostolica, che è un dato evidente, altrimenti non avrebbe senso tutto questo discutere in seguito a un’offesa fatta a quest’autorità, piuttosto si sta trattando delle caratteristiche di un apostolo che la comunità deve riconoscere per potersi fidare di lui. Che Paolo possa intervenire non è in questione!

C’è un brano (in 1Cor 4,21) che dice: «Che cosa volete? Debbo venire da voi con un bastone, o con amore e con dolcezza d’animo?». Ciò che Paolo vuole, però, è chiarire l’identità apostolica e dunque non può provocare nessun fraintendimento nei Corinzi.

Gli eventi erano tali che una reazione dura di Paolo era prevedibile e forse anche richiesta, ma un intervento autoritario non avrebbe aiutato la comunità nella sua relazione con l’apostolo, non l’avrebbe aiutata in quel discernimento al quale Paolo aveva accennato dicendo che lui voleva essere vanto, motivo d’orgoglio della comunità davanti a Dio.

La preoccupazione di Paolo non è quella di mostrare l’autorità, ma di trasmettere la Grazia. È come assistere al travaglio interiore dell’apostolo che si chiede che cosa sia meglio fare per essere limpidezza di Dio. Certamente non si è trasparenza nel momento in cui uno manifesta tutta la sua rabbia e delusione. La decisione di non andare a Corinto risponde solo a questa preoccupazione. Ancora una volta non un calcolo umano, ma l’obbedienza alla sapienza di Dio; non un atto complesso, ma un gesto semplice che nasce dalla sua fede, un atto che deve misurarsi con la sua coscienza di apostolo. Proprio la natura di questa decisione lo spinge a spiegarsi e quasi a chinare il capo per chiedere comprensione.

Le parole che Paolo ha usato fin qui non sono le parole di un padrone, ma sono parole diverse che esprimono un atteggiamento diverso, che per il lettore è chiaro fin dal momento in cui parla della comunità come motivo del suo vanto.

È come se Paolo dicesse ai Corinzi che ha evitato di visitarli perché sarebbe costretto a rimproverarli non solo per la presenza di quello che lo aveva insultato, ma anche per come avevano gestito la situazione, sia al momento dell’offesa, che li aveva visti un po’ tiepidi, sia dopo (2Cor 2, 5-10), perché non sanno trovare una via di uscita dalla situazione, la via del perdono e della carità.

Si può dire a ragione che la comunità manifesta incertezza e incapacità; pure Paolo non vuole rimarcare questo ed evita una visita che, giocata sulla corda della resa dei conti, avrebbe portato solo amarezza nella comunità e avrebbe rischiato di confondere il piano dei comportamenti di quei cristiani con quello della loro fede.

 

  1. Ripartire dall’essenziale

Ritorna anche in questo versetto la difficoltà di leggere bene le parole di Paolo la sua condotta a volte dà l’impressione di avere molto da dire sul comportamento e sulla fede delle sue comunità; ma probabilmente anche in questo caso il contesto aiuta la lettura. Le parole di Paolo, che erano partite al v. 12 con l’invito a guardare all’essenziale dell’essere apostolo, qui invitano a riflettere sull’essenziale dell’essere comunità: l’essenziale è la fede, la grazia, la gioia. Una relazione che funziona non mette in discussione tutto questo. L’affermazione «nella fede voi già siete saldi» ha il potere di ridimensionare i problemi e di suggerire che, come la dipendenza da Dio fa l’apostolo, così essa fa la comunità. L’uno e l’altra devono preoccuparsi di non perdere questa relazione e devono aiutarsi ad accrescerla e questa relazione non ha padroni.

Il giudizio di Paolo offeso avrebbe scoraggiato e sarebbe stato interpretato come una bocciatura del loro cammino di fede con una confusione inaccettabile fra Dio e l’apostolo.

L’apostolo ha come legge la grazia di Dio e se deve parlare lo deve fare per collaborare con la gioia – in greco la terminologia della gioia e della grazia sono molto simili – quindi con la grazia dei Corinzi.

Paolo deve essere trasparenza di Dio e preferisce non andare a Corinto piuttosto che essere di ostacolo alla grazia e alla gioia di quella comunità. Vuole collaborare alla loro gioia, collaborare con Dio, collaborare con i responsabili di quella comunità e con i Corinzi stessi; se questo non è possibile, è meglio non andare.

Questo perché, come visto, la fede della comunità è una cosa molto seria e riguarda la relazione dei Corinzi con Dio. In questa relazione, afferma, voi siete stabili, siete ben radicati, come a dire che quella relazione è importante e non può essere abbandonata alle sensazioni di nessuno, nemmeno di Paolo.

La trasparenza e la sincerità si leggono nella scelta di rispettare la fede dei Corinzi e di non turbarla, nel non voler dare l’impressione che la relazione fondamentale della comunità sia con lui piuttosto che con Dio.

Quello che accade fra lui e quella comunità può essere motivo di sofferenza e deve essere corretto, magari con la punizione del colpevole, ma la fede è un’altra cosa, la relazione con Dio è un’altra questione.

 

  1. “Collaboratore della gioia”

Un’ultima osservazione la merita la qualifica di collaboratore della gioia. Se è chiaro il significato dell’espressione “padrone della fede”, lo è meno quello dell’espressione “collaboratore della gioia”. La gioia è la grazia di Dio e questo risulta evidente dalla lettura del brano, ma con chi collabora Paolo nella trasmissione della grazia ai cristiani di Corinto?

Ognuno, leggendo la letteratura paolina, può avanzare delle ipotesi,una proposta potrebbe essere quella di legare questa frase alla situazione di Corinto che conosceva tante divisioni e ostilità. La prima Lettera era nata proprio per mettere fine ai partiti e definiva gli apostoli e gli evangelizzatori come collaboratori di Dio (1Cor 3,9); gli incidenti che provocano la seconda Lettera mostrano che i problemi non erano risolti e la definizione di collaboratore potrebbe essere l’invito a non dare troppa importanza alle diverse persone che affollano il panorama dei Corinzi e di preoccuparsi della loro fede.

Paolo si fa un po’ da parte, non scende nell’arena per dire con il comportamento quello che pensa e cioè che grazia, gioia e fede sono opera di Dio e che l’apostolo sincero può solo collaborare se vuole essere utile alla vita della sua comunità. L’assonanza di questa frase con la 1 Corinzi è presente anche nell’uso del termine che si traduce con “signoreggiare”, il termine greco è kurieomen, ma un apostolo, un evangelizzatore non è il kurios della comunità, perché si legge in 1Cor 3,5: «Ma chi è Apollo, chi è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede, ciascuno secondo che il Signore gli ha dato».

 

 

 

Note

[1] Ricche bibliografie si trovano in tutti i commentari sulla seconda Lettera ai Corinzi. Si propone, ad esempio: M.E. Thrall, 2 Corinti, 1, Paideia Editrice, Brescia 2007. Per una conoscenza della Lettera possono essere molto utili: G. Barbaglio, 1-2 Corinzi, Queriniana, Brescia 1989; M.A. Getty, Lettere ai Corinzi, Queriniana, Brescia 1993; A. Sacchi (ed.), Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), Elledici, Leumann (TO) 1996.

[2] A. Brunot, Le genie litteraire de Saint Paul, Les editions du CERF, Paris 1955.

[3] C.K. Barret, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1979.