N.04
Luglio/Agosto 2010

«Cercare e trovare la volontà di Dio nella propria vita» (E.S. Ann. 1)

Dialogo con p. Maurizio Costa, sr. Gabriella Tripani, p. Carlo Chiappini

Riportiamo le risposte date da p. Maurizio Costa, sr. Gabriella Tripani, p. Carlo Chiappini alle domande formulate nei gruppi di studio che, oltre ad integrare alcune questioni rimaste aperte nelle relazioni, fanno emergere l’esigenza comune di impegnarsi nel ministero dell’accompagnamento spirituale-vocazionale dei giovani, con delicatezza e competenza. Le risposte, pur nella loro sinteticità, richiamano ulteriormente la necessità di un cammino di accompagnamento che sappia integrare sapientemente la dimensione spirituale con quella antropologica, affinché possa realizzarsi in ciascuno un autentico discernimento della volontà di Dio.

 

Quale rapporto o differenza tra accompagnamento spirituale e direzione spirituale? Si possono intendere come sinonimi?

Maurizio Costa

Mi verrebbe da rispondere con una domanda: noi come abbiamo inteso questo rapporto nel corso di queste ore? Abbiamo forse utilizzato il termine accompagnamento pensando alla direzione spirituale e viceversa, ciascuno secondo la propria sensibilità. Questo nella prassi è inevitabile. Solo quando ci si mette a riflettere sorge la domanda se i due termini possono considerarsi sinonimi. Prima del Concilio si parlava esclusivamente di direzione spirituale. A partire dagli anni ‘72-’73 si è cominciato ad adottare il termine accompagnamento spirituale.

I motivi sono vari, soprattutto perché si criticava la direzione spirituale che si praticava prima del Concilio che non era certamente liberante. Essa era quasi un mezzo di potere sulle anime. Già San Giovanni della Croce non aveva esitato a dire che tra chi portava le anime all’inferno c’era anche il direttore spirituale. Quindi, anche nel tempo in cui è vissuto San Giovanni della Croce si faceva direzione spirituale in modo autoritativo. Addirittura c’era chi sosteneva il voto di obbedienza anche al proprio padre spirituale.

È stata poi cambiata anche la modalità di fare direzione spirituale e si è passati a parlare di accompagnamento spirituale. Il termine “accompagnamento” è nato in Francia ed è passato poi in Italia. È nato in due contesti: quello della psicologia e quello della pastorale vocazionale, intesa come cammino verso la scelta dello stato di vita.

I Centri vocazionali in Europa hanno avuto grandi meriti per rivalutare la direzione spirituale attraverso questo cambio di terminologia, ma hanno avuto anche dei limiti, perché portavano con sé il retaggio dell’atmosfera psicologica che li ha generati, dando preminenza al quadro psicologico, quasi che la dimensione teologica dovesse entrare nel quadro psicologico e non viceversa. Ci si rifaceva ad una psicologia di stampo rogersiano.

Ci sono aspetti positivi nella psicologia di Rogers, come l’aver aiutato a ricordare che direzione spirituale e accompagnamento sono forme di educazione senza pressioni, di ascolto rispettoso, di accoglienza neutrale, senza le interferenze della guida nella decisione finale. Aspetti che sono fondamentali per impostare bene la direzione spirituale.

Ma, quale psicologia? Quale antropologia?

Dagli anni ‘70 ad oggi, salvo eccezioni, rimane ancora questo impatto, tanto che ancora si parla di direzione spirituale come ad tempus, così come la terapia psicologica è “a tempo”. La direzione spirituale, tuttavia, può durare anche tutta la vita, perché posso essere sempre guidato affinché la mia dipendenza da Dio possa crescere sempre di più.

Si evidenzia così il problema di fondo: la direzione spirituale non è guidare in modo autoritativo, ma volgere verso un fine, aiutando il diretto a volgersi non verso affetti disordinati, ma verso il fine giusto. La direzione spirituale ha una sua attività specifica.

Non è totalmente neutrale e in un certo senso è anche giusto che ci sia una certa dipendenza del diretto rispetto alla guida. Questo però va visto alla luce di una relazione non a due, ma a tre, perché c’è lo Spirito Santo quale protagonista principale dell’incontro spirituale. La vera dipendenza è solo verso Dio, il solo maestro interiore.

La dipendenza dal direttore è come un sacramento della dipendenza verso Dio.

In questo senso vi è tutta la linea del discorso sulla trascendentalizzazione dell’ideale. C’è anche la linea della trascendentalizzazione del rapporto con la guida, che deve essere liberante ed educare alla dipendenza non da sé, ma da Dio. È giusto trovare la sicurezza nella guida, non nella guida in sé, bensì in Dio che opera in lui. Speranza solo in Dio, attraverso la guida.

Giovanni Paolo II, parlando per 84 volte di direzione spirituale, usa 80 volte il termine direzione spirituale e 4 volte il termine accompagnamento spirituale, intendendo quest’ultimo ad tempus, cioè come direzione in ordine a una scelta di vita. Alcuni dicono che il Magistero usa il termine di accompagnamento per indicare la dimensione più carismatica e il termine direzione spirituale per una dimensione più istituzionale, riservando il termine direzione spirituale unicamente al ministero presbiterale.

Personalmente ritengo che sia l’accompagnamento spirituale sia la direzione spirituale possano essere esercitati da qualsiasi figura ecclesiale, non solo dal presbitero. A mio giudizio non è corretto dire che l’accompagnamento è solo per i laici o le persone non ordinate, mentre la direzione spirituale è del solo ministero ordinato.

 

Per Sant’Ignazio il “criterio dei criteri” sembra essere il “maggior servizio di Dio e la più grande pace interiore”. Come tenerli realmente insieme in maniera dinamica?

Carlo Chiappini

Il “criterio dei criteri” a cui accenna la domanda mi pare vada leggermente corretto. Non è così che Sant’Ignazio lo propone: per lui il “criterio dei criteri” è la maggior gloria di Dio e il servizio delle anime, non la pace interiore. È vero che parlando di pace interiore si fa riferimento al sentire e Sant’Ignazio è molto attento ad esso, però un sentire interiore che non rimanga fine a se stesso.

Nel nostro mondo c’è il rischio di un’attenzione esagerata a quelli che sono i propri stati interiori, esclusivamente rivolta alla ricerca di un benessere, di un’armonia, di un equilibrio interiore. Molti tra quelli che si rivolgono a noi, anche sinceramente, per un accompagnamento o direzione spirituale, portano dentro il desiderio di trovare la pace. Ma questo, secondo Sant’Ignazio, non è il fine, non è il “criterio dei criteri”. Piuttosto il sentire interiore è un mezzo necessario per arrivare a cogliere qual è la forma concreta e precisa nella propria vita di realizzare la volontà di Dio, la sua maggior gloria e il servizio delle anime. Ignazio parla ripetutamente di “sentire la volontà di Dio”, per esempio come una grazia fondamentale che chiede concludendo le sue lettere: «Che Dio ci dia la grazia di sentire la sua volontà e compierla interamente». Prima sentirla, poi compierla; perché l’idea di Ignazio è che ci sia una volontà particolare per ciascuno di noi e il luogo particolare in cui si rivela non può essere che il sentire proprio di ciascuno, dato che questo sentire è la dimensione più individuale. Tutto quello che si pone a livello della conoscenza ha sempre una generalità e perciò è facilmente comunicabile; nella vita quotidiana è più facile scambiarsi conoscenze tra persone, meno scontata è la comunicazione dei sentimenti. A volte, se uno è nella sofferenza, la presenza vicino di chi invece è nella gioia non fa che accentuare il suo disagio.

Nel passato la direzione spirituale rischiava di perdere la ricchezza contenuta nel sentire. Il ruolo del direttore e accompagnatore spirituale deve essere di aiuto, di chiarimento, ma non può sostituire l’unicità del sentire personale. Certo parliamo di un sentire non superficiale, ma spirituale. Ignazio usa i termini di consolazione e desolazione e non è possibile far coincidere qualsiasi immediato star bene o star male con la consolazione e la desolazione. Sarebbe una grossa illusione prendere come criterio della volontà di Dio su di me la prima reazione emotiva che passa.

Le regole di discernimento ci dicono per esempio che si prova un certo gusto pure nel fare il male, altrimenti non lo faremmo! La prima regola del discernimento afferma che, se sono su una strada sbagliata, e se esiste un nemico, questo farà di tutto per convincermi ad avanzare. Per esempio, se dopo essermi a lungo trattenuto, esplodo e grido a chi mi ha fatto arrabbiare tutto quello che penso di lui, può darsi che dopo lo sfogo mi senta quasi in pace. Però è necessario vedere di che pace si tratta, non posso prenderla immediatamente come un segno della volontà di Dio. Mi pare che così si veda anche quale è la relazione tra il sentire, la pace interiore e la volontà di Dio, il maggior servizio di Dio nella mia vita.

 

Come aiutare a distinguere e a maturare dal senso di colpa al senso del peccato?

Maurizio Costa

Innanzitutto credo sia importante non colpevolizzare il senso di colpa. Per fortuna esso esiste, è voluto dal Signore ed è molto educativo. Parliamo di senso di colpa in senso negativo quando esso è sproporzionato, è cioè una reazione emotiva interiore sproporzionata (per difetto o per eccesso) rispetto all’azione commessa.

Ad esempio, se una donna abortisce e non prova alcun senso di colpa, esprime di sé qualcosa che non funziona.

Per fortuna esiste il senso di colpa e l’educazione deve aiutare a farlo percepire quando non c’è.

D’altra parte ci sono situazioni educative che inducono sensi di colpa eccessivi su fatti di poco conto, rispetto a questioni importanti che potrebbero invece essere vissuti come insignificanti. Bisogna educare al senso di colpa retto. Occorre passare poi dal senso di colpa retto al senso del peccato, che nell’ordine della fede non è semplicemente una trasgressione alla legge, bensì la rottura della relazione con Dio. Nasce qui il problema dell’educazione del senso del peccato mortale e veniale, anche dal punto di vista oggettivo, senso oggi purtroppo molto disatteso.

Si tende a prendere il peccato solo dal punto di vista soggettivo, con relative conseguenze negative. Giustamente, quando Sant’Ignazio fu portato in tribunale dall’Inquisizione e gli fu vietato di spiegare la differenza tra peccato veniale e peccato mortale, si difese dicendo che senza questo egli non avrebbe potuto esercitare il suo apostolato di discernimento dello spirito. Aveva perfettamente ragione, perché il discernimento spirituale non è semplicemente una questione soggettiva, bensì di integrazione tra i dati oggettivi della fede, della ragione, e quelli soggettivi, più particolari, interiori, non in senso arbitrario, ma in quanto personali.

Il discernimento personale è un cammino di liberazione verso la verità. È la verità che ci farà liberi.

Per aiutare a passare dal senso di colpa al senso del peccato ritengo importante educare al senso di Dio come persona e al senso della nostra vita spirituale che si gioca in un dialogo interpersonale, nel quale Dio parla per primo e l’uomo risponde. È vivere la propria vita morale come la risposta a Dio che chiama. È rispondere secondo come Dio ha chiamato. Occorre il discernimento per rispondere a come Dio ha chiamato.

 

Il sacramento della Riconciliazione e l’accompagnamento spirituale devono essere distinti? In che cosa? Quali confini? Come educare i giovani a questa distinzione? La conoscenza del foro interno potrebbe condizionare nell’accompagnamento e nel bloccare l’opera dello Spirito?

Carlo Chiappini

L’argomento del foro interno si collega alle domande sulla Confessione e sull’accompagnamento spirituale. Mi pare utile ribadire che, formalmente, sacramento della Riconciliazione e accompagnamento spirituale sono distinti. Ciò risulta evidente quando l’accompagnamento non è proposto da un sacerdote.

La distinzione tra i due permette di valorizzare la grazia del sacramento della Riconciliazione in maniera concreta, senza favorire attese di cambiamento un po’ mitiche o magiche. Nella mia relazione accennavo ad una certa analogia tra l’oggettività propria della Riconciliazione e quella piccola oggettività contenuta nel gesto esteriore che, nella pratica dell’esame particolare, è richiesto ogni volta che si cade. Ovviamente c’è una grandissima differenza tra queste due oggettività, ma entrambe si muovono nella medesima direzione.

Il sacramento della Riconciliazione dunque garantisce un’oggettività, cioè la consapevolezza che il mio cammino personale ha delle rilevanze che non riguardano solo me, ma implicano tutta la Chiesa e la storia della salvezza. Questo è uno specifico di ciò che questo sacramento offre e che poi diventa un punto prezioso per la continuazione del cammino di accompagnamento e di crescita spirituale.

Ci si può chiedere se i giovani debbano essere educati alla distinzione tra il sacramento e l’accompagnamento. Mi pare siano pochi quelli che si pongono simili domande e, tutto sommato, se occorre distinguere è per poi unire. Oggi vengono proposti tanti tipi di lettura della condizione giovanile: si sottolineano la fragilità, la superficialità, l’emozionalità, si parla di società liquida… A me sembra che l’influsso di internet produca tra i giovani un modo di pensare che è sempre più spinto a livello specialistico, ma incapace di una visione d’insieme. E ciò non solo nel campo scientifico, ma pure negli ambiti più personali e umani della vita interiore e della vita spirituale.

Ecco perché dicevo che è importante distinguere per poi unire; perché il vero rischio è la settorialità: la Confessione comprenderebbe un certo ambito, l’accompagnamento spirituale un altro totalmente distinto. Con la conseguenza di una frammentarietà che non rispetta più l’unità dell’io, il cammino reale che sto vivendo.

In questo senso si può dire ancora qualcosa circa la separazione tra foro esterno e foro interno. Questa distinzione è valida e utile lì dove c’è un rapporto con un’autorità costituita, magari all’interno di una vita religiosa, dove l’autorità non è scelta da me. Entro in un certo cammino di consacrazione e mi trovo a confrontarmi con alcune istanze che la Chiesa o la Congregazione mi offrono. Qui capisco che ha un suo senso anche la distinzione tra foro interno e foro esterno, che comunque va valutata caso per caso e non deve mai diventare l’occasione per condurre una doppia vita. Ma, trattando di accompagnamento e discernimento spirituale, tutto questo pare molto lontano. Lì dove la persona decide liberamente di intraprendere un cammino di accompagnamento spirituale non credo si ponga la questione di una separazione tra foro esterno e foro interno.

Senza dimenticare che in ogni modo la conoscenza del foro interno da parte dell’accompagnatore non può mai essere forzata, è il frutto della pazienza con cui si costruisce una relazione di fiducia.

 

Nel discernimento vocazionale come distinguere la dinamica prettamente psicologica da quella spirituale e come far passare dall’una all’altra perché ci sia reale cammino spirituale? Quale integrazione è necessaria?

Sr. Gabriella Tripani

La domanda esprime da un lato la preoccupazione, che tutti abbiamo, di tenere insieme la dinamica psicologica e spirituale e di non privilegiare troppo un polo rispetto all’altro. Si teme di cadere o in uno spiritualismo eccessivo o in uno psicologismo eccessivo. A me pare che oggi ci sia timore piuttosto verso uno psicologismo eccessivo.

Forse anni fa l’aiuto psicologico era sentito piuttosto nuovo e come una grande necessità, perché era sottovalutato nella formazione rispetto al polo spirituale, ma oggi prevale il timore dell’esagerazione e che tutto sia letto in chiave psicologica. Così, questa domanda forse nasce dal desiderio di trovare una buona sintesi tra i due aspetti.

La domanda per chi è accompagnatore dice anche un desiderio di distinguere, in quanto è necessario scegliere i mezzi idonei per affrontare aspetti particolari del cammino spirituale della persona.

Infatti, se le due dimensioni vanno tenute insieme, sempre, perché la persona è una, tuttavia bisogna intuire e comprendere il tipo di problema, perché ci sono mezzi diversi che aiutano a risolverlo.

Mi riaggancio all’esempio di p. Costa sul senso di colpa e di peccato. Qual è il problema di una donna che abortisce senza aver alcun senso di colpa? Il problema può essere di “ignoranza” nell’area morale, dovuta magari a una cultura che tende a considerare tutto lecito. Oppure può essere un uso massiccio di difese primitive, che rendono la persona apparentemente impermeabile al senso di colpa.

A seconda di una o dell’altra ipotesi, l’aiuto per farle prendere coscienza dell’accaduto sarà diverso.

Un altro esempio, a partire dal cenno, contenuto nella relazione, sull’identificazione proiettiva e il mistero pasquale. La persona umana che cresce, che si sviluppa, che diventa matura, fin dall’inizio incontra il problema dell’integrazione del male. Il bambino piccolo, che ancora non ha una struttura psicologica stabile, non sa tenere insieme aspetti positivi o negativi di sé e neppure riesce ad accettarli nell’altro. Non riesce ad integrare in sé l’essere arrabbiato e insieme l’amare, né l’immagine della mamma buona che dà da mangiare e della mamma che non è disponibile. È estremamente difficile per il bambino integrare aspetti positivi e negativi.

Questo è un cammino che dice molto del mistero della persona umana. La lotta dell’integrazione del limite, della debolezza del negativo in noi e negli altri è sempre presente. In questo senso il mistero della Croce è una risposta.

La scelta dell’Incarnazione e della Croce dice una modalità di Dio di esserci vicini in questo cammino. Il significato della Croce è di integrazione, di assorbimento e trasformazione del male che diventa salvezza, non eliminazione del male o della lotta. Tutto il Vangelo deve essere letto in questa chiave. Gesù non guarisce i malati, ma prende su di sé le infermità. Dice di lasciar crescere la zizzania insieme con l’erba buona. È la possibile lettura del cammino di Dio con noi: un problema di psicologia evolutiva è anche una lotta spirituale che dobbiamo continuamente affrontare.

Come far passare dall’una all’altra area? Una modalità privilegiata è sempre la preghiera, soprattutto con giovani in discernimento vocazionale. La preghiera intesa come luogo in cui tutti i dinamismi vengono messi di fronte a Dio. La Parola di Dio, in questo senso, è ricchissima di spunti che vanno a toccare le dinamiche psicologiche delle persone. Se la Parola viene letta non solo con la testa, ma con il cuore, interpella veramente i movimenti profondi della persona.

Dunque la preghiera e la Parola come luogo di sintesi non astratto per le persone che accompagniamo, dove si ascolta cosa si muove nel cuore come azione delicata dello Spirito.

 

Come educare la libertà interiore in chi accompagna?

Carlo Chiappini

Esistono purificazioni che la vita stessa ci offre, o ci impone, o ci spinge a fare, anche a noi accompagnatori o direttori spirituali. Da un certo punto di vista si tratta di non preoccuparsi troppo, ma di cogliere il modo in cui le vicende, la storia, le relazioni ci invitano a diventare più liberi, a volte attraverso fallimenti, fatiche, la malattia, la fragilità che portiamo, talora una ferita segreta, cambiamenti che stanno avvenendo… Si tratta di rimanere attenti a quel che avviene, a ciò che la vita, con una sua sapienza, ci richiede.

Questo non esclude che ci debba essere pure un certo nostro sforzo nel crescere nella libertà e credo che ciò riguardi soprattutto – attraverso una rilettura ed eventualmente un confronto – la formazione della nostra sensibilità. Non voglio dire che occorra essere freddi o distanti; anzi, se la persona che accompagniamo non entra con noi in una relazione affettiva, tutto è inutile, molte possibilità vengono escluse fin dall’inizio. Però si tratta – e qui è una purificazione continua – di mantenere questa relazione affettiva sempre aperta e di non chiuderla mai nella logica della possessività. Capiamo che questa libertà esige un cammino di purificazione costante, non più, né solo, attraverso quello che la vita ci impone di vivere, ma anche attraverso il nostro impegno. A tal fine, l’accompagnatore spirituale può trovare consigli nelle regole di discernimento più adatte alla seconda settimana. Riguardano, infatti, quelle situazioni in cui c’è da discernere tra un bene reale e un bene apparente e dove il discernimento si fa quindi più sottile ed è anche più facile illudersi, ingannarsi.

Credo che un altro aspetto dell’educazione interiore dell’accompagnatore sia il riuscire a crescere e mantenere una certa libertà rispetto alle immagini che colui che accompagniamo si fa di noi. Queste immagini sono una mediazione inevitabile, intersecano e condizionano lo stile della relazione. Ci facciamo in continuazione delle immagini gli uni degli altri, è importante esserne consapevoli.

 

Come aiutare i giovani di oggi a riscoprire il senso dell’interiorità che per Ignazio è stato essenziale?

Sr. Gabriella Tripani

Vorrei sottolineare la parola “riscoprire” contenuta in questa domanda. Importante è il nostro atteggiamento iniziale. Non dobbiamo creare cose. I giovani hanno un’interiorità, hanno desideri profondi. C’è qualcosa da liberare in loro più che qualcosa di completamente nuovo da creare o da inventare.

Come farlo? Come Ignazio, che prima della conversione conduceva una vita sufficientemente distratta… come la vita di tanti giovani. Quali sono i due elementi molto esteriori che lo costringono in qualche modo ad entrare nella sua interiorità? Trovarsi a letto convalescente per un certo tempo e non avere altri libri da leggere se non la vita di Cristo e la vita di Santi.

Ignazio, bloccato a letto, è stato costretto a leggere quei due libri. Se non fosse stato costretto a letto, non lo avrebbe fatto. Se avesse avuto altri libri si sarebbe perso completamente in quelle fantasie in cui pure all’inizio si perdeva per metà del tempo. Analogamente, anche per i nostri giovani, il creare la condizione del silenzio, del raccoglimento, non solo in termini di preghiera, ma in termini di cammino di conoscenza di sé: osservarsi, guardarsi… Non costringere, ma offrire realmente la possibilità di farlo. Forse gioca in noi la paura nei loro confronti, come se i giovani fossero così diversi da noi, nella loro umanità, da non capire assolutamente questo linguaggio.

Occorre creare le condizioni perché il giovane possa trovarsi in qualche modo solo con se stesso e solo con Dio. Dobbiamo anche saperci stupire di ciò che nasce da questo incontro con se stessi, avere la disponibilità di avviare un percorso con i giovani con l’apertura ad accogliere anche quello che non ci si aspettava di trovare, disposti ad interrogarsi e a riflettere, senza scoraggiarsi davanti a reazioni di apparente rifiuto delle nostre proposte, ma cercando le risorse positive nascoste.

 

Oggi sembra esserci una carenza di alfabeto delle emozioni. Quale impostazione di un cammino per un’educazione all’affettività?

Sr. Gabriella Tripani

L’attenzione alle proprie emozioni è parte di un cammino di approfondimento della propria interiorità perché è un linguaggio di ciò che c’è dentro. È vero che oggi sembra un po’ disatteso, se pur in maniera diversa rispetto a qualche tempo fa, quando, parlando delle emozioni, si aveva la preoccupazione di rendere legittime quelle che venivano invece sentite inaccettabili e represse. Questo era molto evidente nella vita consacrata e anche nei giovani impegnati.

Oggi non è che i giovani sentano poco. A volte si ha l’impressione che i giovani sentano troppo, ma sentono in modo confuso.

Qual è allora l’impostazione di un cammino? Iniziare a far prendere coscienza di sentire cosa si sente. Occorre aiutarli a dare dei nomi a quel che sentono e aiutarli ad esprimere in modo più corretto ciò che sentono. Sembra banale, ma per chi non l’ha mai fatto è un percorso impegnativo che a volte sblocca in maniera sorprendente il cammino. Ad esempio, scoprire semplicemente che un certo malessere era tristezza e giungere a riconoscere ciò che dava tristezza può realmente sbloccare il cammino.

È necessario riconoscere che non ogni sentire è subito spirituale, anche se la sensazione è abbastanza uguale. Pensiamo all’ansia. Tutti sappiamo cos’è. Ma l’oggetto può essere molto diverso. Il bambino piccolo sente ansia quando piange perché vuole il latte. È l’ansia di fronte al pericolo di non mangiare, ansia di sopravvivere. Ma anche l’ansia di non sentirsi accolto è la stessa sensazione.

Quando parliamo di ansia spirituale, poi, viviamo in fondo ancora la stessa sensazione. E non è detto che siano stati superati i livelli di ansia più primitivi nel processo dello sviluppo. Occorre accettare, cioè, che il processo di crescita trascina con sé i limiti dei vari stadi di sviluppo.

Imparare a riconoscere l’emozione, cogliendo il pericolo che in quel momento si percepisce, può favorire un vero cammino verso l’interiorità.

 

Quando un accompagnatore deve lasciare il passo a qualcun altro (esperto, prete) di fronte a situazioni problematiche?

Carlo Chiappini

Può accadere che un giovane stia facendo un certo cammino caratterizzato da un accompagnamento spirituale periodico e poi avvenga una novità per cui ritenga di prendere in considerazione un discernimento vocazionale; in questo caso potrebbe avere una certa utilità “lasciare il passo a qualcun altro”.

Però mi sembra che la domanda alluda piuttosto a problematiche di tipo psicologico. L’ambito spirituale e l’ambito psicologico, come è stato evidenziato, non sono due settori tra loro separati, perché la persona umana è unica. Credo che ogni accompagnatore vocazionale oggi sia chiamato e sia in grado di offrire un accompagnamento spirituale che non trascuri alcune piccole competenze ed esperienze nel campo umano e psicologico.

Al di là di questa normalità, se effettivamente si presentasse una situazione differente in cui si avvertisse la necessità di un intervento specialistico a livello psicologico, direi che comunque non si tratta di “lasciare il passo”, come se il percorso psicologico sostituisse quello spirituale. La persona, infatti, continua un suo cammino unitario. Quindi all’accompagnatore è richiesta una certa sapienza nell’aiutare a integrare i due cammini, visto che questi non sono tra  loro alternativi.

 

Qualche chiarimento sul momento in cui l’accompagnatore non può più far niente e l’accompagnamento si conclude.

Sr. Gabriella Tripani

A volte l’accompagnamento si conclude perché si comprende che la persona non è più disposta a continuarlo. Come concluderlo bene ugualmente?

È importante, in questa conclusione, che l’accompagnatore verifichi il proprio modo di lasciar libera la persona. Può essere che nasca un sentimento di delusione, di aggressività, perché si comprende che la persona non è ancora pronta per concludere il cammino, ma il rispetto della decisione (anche se si sente che non è troppo libera) consente solo di affermare chiaramente la propria convinzione che c’è ancora del lavoro da fare, che si rispetta la scelta a concludere anche se non la si condivide appieno. In qualche modo rimane come un’affermazione che non veicola la rabbia, la delusione, il senso di fallimento. Si può regalare l’invito a continuare a camminare e far percepire comunque l’importanza del cammino fatto; e offrire, nella misura del possibile, una disponibilità ad essere contattati ancora.

Vi è poi la reale preghiera di affidamento di quella persona. L’accompagnatore ha fatto il tratto di cammino che poteva fare, ma non è che adesso Dio lasci da sola quella persona. Occorre trasmettere alla persona la certezza che Dio continua ad accompagnarla e proseguire realmente l’accompagnamento e l’affidamento di quella persona nella preghiera.

Una certa gradualità, quando possibile, e il sincero interesse per il bene della persona aiutano la conclusione.