N.02
Marzo/Aprile 2013

Il chiamato: pellegrino della fede e servitore della speranza

La vita umana può essere interpretata come un “itinera­rio di vocazione”, lungo il quale si possono sperimentare diverse “chiamate”, che aiutano ad accogliere, confer­mare, perseverare e testimoniare la verità progettuale iscritta nel cuore di ciascun uomo. In questo senso, la vocazione è “il compito fondamentale” a cui deve attendere il credente lungo il corso della propria esistenza»1. Queste parole di Giuseppe De Virgilio, curatore scientifico del Dizionario Biblico della Vocazione e autore di numerosi saggi sulla vocazione, sono alla base della nostra relazione.

In queste poche pagine tenteremo di illustrare la dialettica vo­cazionale, cioè il dinamismo della chiamata divina e della risposta umana attraverso un “pellegrinaggio” biblico (come indicato nel ti­tolo della relazione che mi è stata affidata), ripercorrendo le storie vocazionali di alcuni personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamen­to, in particolare quella di Maria di Nazareth. Prima però di entrare in merito alla questione, riteniamo utile presentare, anche se molto brevemente, i cosiddetti “racconti di vocazione” e i loro tipi princi­pali.

 

  1. I racconti di vocazione

I numerosi racconti di vocazione che troviamo nella Bibbia sono stati composti dagli autori secondo determinati criteri o modelli narrativi che, pur non essendo fissi, si ripetono con pochissime varianti.

A partire dello studio pioniere di Wolfgang Richter, lo “schema di vocazione” (call pattern) è diventato patrimonio comune degli esegeti. Questo schema è composto dai seguenti elementi: urgenza, incarico, obiezione, conferma e segno2.

Presenteremo brevemente ognuno degli elementi. Il racconto comincia con la descrizione dell’urgenza, cioè una situazione d’ingiustizia o sofferenza che provoca l’intervento di Dio. In risposta a

questa situazione Dio chiama qualcuno ad intervenire affidandogli un incarico concreto, cosa che di solito implica un cambiamento radicale nella vita del chiamato. Da parte sua, la persona chiamata crede di non essere capace, di non avere le condizioni necessarie, di non poter rispondere adeguatamente a quello che le viene chiesto e oppone una resistenza. A questo punto Dio le assicura il suo aiuto, la sua protezione e il suo sostegno durante la prova. Infine, un evento o un segno materiale conferma la natura divina della

missione. Orbene, questi cinque elementi sono presenti quasi esattamente con lo stesso ordine in Es 3,1-4,17 (vocazione di Mosè), in Gdc 6,11-24 (vocazione di Gedeone) e in Ger 1,4-19 (vocazione del profeta omonimo) e in molti altri racconti di vocazione nella Bibbia.

Nel racconto della vocazione di Mosè l’urgenza è la situazione di miseria e di sofferenza che gli Israeliti patiscono in Egitto (Es 3,7- 9); nel racconto della vocazione di Gedeone si tratta dell’oppressione

dei Madianiti, un popolo nomade originario dalle montagne che si levano a est del golfo di Aqaba (Gdc 6,1-10); e nel racconto della vocazione del profeta Geremia la minaccia è l’imminente invasione proveniente da nord, cioè l’invasione dei Babilonesi (Ger 1,14-15).

Per quanto riguarda l’incarico, nel caso di Geremia si tratta della chiamata al ministero profetico, mentre nel caso di Mosè la chiamata è ad un compito di leadership – che comprende ugualmente una dimensione profetica, ma va anche oltre – e nel caso di Gedeone si tratta di una chiamata ad un compito essenzialmente militare (liberare il popolo dall’oppressione di un nemico). Tutti e tre i chiamati si sentono, in qualche maniera, indegni dell’incarico divino e muovono delle obiezioni al Signore. Per ben cinque volte Mosè si opporrà, sebbene invano, alla sua vocazione: dice di non sentirsi all’altezza del compito che gli è stato richiesto (Es 3,11: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto

agli israeliti?»); obietta di non conoscere il nome di Dio (Es 3,13: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?»); si mostra convinto che gli Egiziani non gli daranno retta (Es 4,1: “Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!”); confessa di essere balbuziente (Es 4,10: “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua”) e infine, arriva ad accendere la collera del Signore con la sua risposta disdegnosa: “Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!” (Es 4,13). Di parte sua, Gedeone non riesce a capire come egli, membro della famiglia più povera di Manasse, l’ultima tribù di Israele, potrà salvare il suo popolo (Gdc 6,15) e Geremia si ritiene troppo giovane per poter essere un buon messaggero della parola del Signore (Ger 1,6).

I tre protagonisti ricevono una promessa di assistenza da parte di Dio: «Io sarò con te» dice il Signore a Mosè dopo aver ascoltato la sua prima obiezione (Es 3,12). Lo stesso dice a Gedeone: «Io sarò

con te» e poi aggiunge: «E tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un solo uomo» (Gdc 6,16). E al giovane Geremia rivolge parole di incoraggiamento: “non avere paura di fronte a loro perché io sono

con te per proteggerti” (Ger 1,8).

Per quanto riguarda il segno che di solito accompagna l’assicurazione divina, nel caso di Mosè esso consiste nel servire Dio sul monte Oreb (Es 3,12), nel caso di Gedeone è il fuoco che consuma la carne e le focacce azzime preparate da lui per essere offerte al Signore (Gdc 6,17-24), mentre Geremia sperimenta il segno nella propria carne: il Signore gli toccò la bocca e mise le sue parole su di essa (Ger 1,9).

Anche se ovviamente diversi quanto al contenuto, i tre racconti di vocazione hanno un elemento in comune, cioè il concetto di una chiamata dal Signore rivolta ad un individuo per una missione a beneficio del suo popolo.

 

  1. Quattro tipi di racconti di vocazione

Una lettura attenta dei racconti di vocazione nella Bibbia ci permette di offrire una classificazione che, pur nella sua semplicità, può essere di grande aiuto per una migliore comprensione del testo biblico, così come per la riflessione personale o comunitaria sulla vocazione. Abbiamo individuato quattro tipi principali di racconto di vocazione.

  1. a) Primo tipo: “Va’”

Il primo tipo di racconto ha una struttura bipartita molto semplice: si compone di un ordine di missione da parte di Dio (si noti l’uso dell’imperativo di seconda persona singolare) e l’esecuzione dell’ordine da parte della persona chiamata. In questo modo, l’accento si pone sulla forza coinvolgente di Dio. Dio chiama e la persona chiamata sperimenta la vocazione come una forza irresistibile. Essa non resiste, non dubita, non valuta i pro e i contro, non fa nessun discernimento, non pensa alle conseguenze della sua decisione, ma fa un salto nel vuoto e compie l’ordine ricevuto. Così fanno Abramo (Gen 12,1-9), Elia (1Re 17,1-5), Osea (Os 1,2-3) e Giona (Gio 1,1- 3), anche se quest’ultimo profeta si comporta in un modo insolito, attuando una politica di fuga per sottrarsi alla parola di Dio che lo manda a Ninive, la città dei nemici.

  1. b) Secondo tipo: “Sì… però”

A differenza del modello precedente, caratterizzato dall’uso dell’imperativo, in questo secondo tipo spicca la combinazione tra un avverbio di affermazione () e una congiunzione avversativa (però). Quando non vogliamo dire apertamente “no” né “sì”, di solito diciamo “sì… però”, una formula alquanto ambigua che in realtà significa “io vorrei tanto dire di sì, ma in realtà, siccome non me la sento, dico piuttosto di no”. Questo tipo di racconto di vocazione contiene quattro elementi: un ordine di missione da parte di Dio, un’obiezione della persona chiamata e, infine, una conferma e un segno da parte di Dio. In questi casi la vocazione/chiamata si esprime per mezzo di un dialogo tra il chiamato e Dio. Siamo davanti

a un Dio dialogante, che ci parla a tu per tu, senza mediatori, senza messaggeri, senza “terze persone” che interferiscano nella trasmissione del messaggio. Consapevoli dei propri limiti, l’uomo e la donna chiamati dubitano, resistono e muovono obiezioni a Dio. L’obiezione, in genere reale e comprensibile, è sempre rifiutata e la ragione del rifiuto è molto semplice. La persona, infatti, non è chiamata a causa del suo talento, delle sue capacità oppure dei suoi meriti, ma per compiere una missione di ordine divino. Per questo motivo, non importano tanto il talento, le capacità o i meriti, quanto la disponibilità ad accogliere la parola divina. In più, l’uomo o la donna chiamati sanno che potranno contare sempre sull’aiuto incondizionato di Dio che conferma la sua assistenza con un segno visibile. Personaggi biblici la cui vocazione entrerebbe in questa categoria sono Mosè (Es 3,14,17), Gedeone (Gdc 6,11-24), Geremia (Ger 1,4-19) e Maria di Nazareth (Lc 1,26-38).

  1. c) Terzo tipo: “Inviami”

Questo terzo modello si distingue dagli altri per l’uso dell’imperativo in seconda persona singolare (“invia”) più una particella pronominale (“mi”). Questa espressione esprime un desiderio fervente di essere inviato o inviata. La persona chiamata desidera che Dio la invii per compiere una missione e non dubita nel chiederlo apertamente, senza tentennamenti. Questo tipo di racconto di vocazione contiene i seguenti elementi: un consiglio divino, la richiesta di un volontario, la risposta di qualcuno che si offre e

un ordine di missione. Un elemento di spicco è la figura del Dio trascendente che appare come un monarca circondato dalla corte degli angeli con i quali si consulta. Questa immagine imponente e lontana di Dio non impedisce la comunicazione tra la persona e Dio, che, come nel caso precedente, si stabilisce attraverso il dialogo. Un altro elemento da notare è l’entusiasmo della persona che desidera consegnarsi con decisione alla missione. Da parte sua, Dio accetta questo suo entusiasmo e affida alla persona chiamata un compito da svolgere. Nonostante l’iniziativa sembri procedere dal volontario, in realtà è Dio che lo invia. Esempi di questo tipo di racconto li troviamo nella vocazione dei profeti Michea – figlio di

Yimlà, da non confondere con l’omonimo profeta che visse un secolo e mezzo più tardi, contemporaneo di Isaia, e di cui si conserva un libro canonico (1Re 22,1-38) –, Isaia (Is 6,1-13) ed Ezechiele (Ez 1,1-3,15).

  1. d) Quarto tipo: “Ripeti… ascolto”

Anche se condivide elementi dei modelli precedenti, l’ultimo tipo di racconto di vocazione si caratterizza per il suo carattere di scoperta graduale, come a dire una vocazione a tappe, momento per momento. C’è una prima chiamata del Signore alla quale seguono altre chiamate. La persona risponde ad ogni chiamata, senza però capirle fino in fondo. Risponde di sì, ma senza rendersi conto della loro portata. In altre parole, ascolta la parola di Dio e, pur rispondendo ad essa, il suo significato le rimane velato. Sarà soltanto attraverso un processo di riflessione che il chiamato, gradualmente, arriverà a capire la sua misteriosa vocazione. Così capita a Samuele (1Sam 3,1-21), il cui dialogo col Signore ha uno sviluppo progressivo per tappe e culmina nella sublime formula di disponibilità del giovane: «Mi hai chiamato, eccomi» (3,8).

  1. e) Punti in comune

I quattro tipi di racconti di vocazione cercano di tradurre una esperienza unica che ha sconvolto la vita del chiamato. L’elezione rimane un mistero, ma una cosa è certa: essa non dipende mai dalle qualità eccezionali della persona. Mosè, essendo balbuziente, deve farsi aiutare dal fratello Aronne; Gedeone considera la sua povera origine come un ostacolo insuperabile; Geremia, essendo troppo giovane, non sa parlare bene. Dio li chiama tutti per nome, e chiamare per nome significa amicizia, amore, conoscenza, fiducia, attenzione. A volte il nome viene perfino ripetuto due volte (Abramo, Abramo; Mosè, Mosè; Samuele, Samuele) e ciò sta ad indicare l’urgenza della chiamata e la premura da parte di Dio.

La vocazione, dunque, non è orientata verso l’autorealizzazione della persona, ma verso la missione; essa è, infatti, una elezione di servizio. È del tutto comprensibile che, quando Dio chiama, il chiamato

ignori in che cosa in realtà si debba impegnare, che il futuro si presenti piuttosto incerto e quindi tentenni, dubiti e abbia paura. Tuttavia, egli percepisce che non è solo. Dio gli sta accanto, dandogli la forza di cui ha bisogno per esprimere la propria libera adesione alla chiamata divina e portare a compimento la missione affidatagli.

 

  1. La vocazione di Maria di Nazareth

Avendo deciso di scegliere un racconto di vocazione per studiarlo più da vicino, abbiamo subito pensato alla vocazione di Maria di Nazareth «che con il suo sì alla parola d’Alleanza e alla sua missione,

compie perfettamente la vocazione divina dell’umanità» (Verbum Domini, n. 27). Il testo evangelico che racconta la vocazione è Lc 1,26-38. Anche se nelle nostre Bibbie questo brano di solito ha per titolo “Annuncio della nascita di Gesù”, esso contiene anche un racconto di vocazione molto frequente, come abbiamo appena visto, in altri testi dell’Antico Testamento, specialmente in Gdc 6,11-24. Questo ci permette di leggere il testo in un’altra prospettiva, cioè non come “l’annuncio della nascita di Gesù”, ma come “la vocazione di Maria”3.

  1. a) Contesto della vocazione

Il racconto precedente, l’annuncio della nascita di Giovanni Battista a Zaccaria (Lc 1,5-25), conferma che per Dio non c’è niente di impossibile. Elisabetta, sposa di Zaccaria e cugina di Maria, pur

essendo sterile e di età avanzata, si trova incinta. Secondo la tradizione giudaica, Dio è l’unico che possiede la chiave della fertilità, l’unico capace di aprire o chiudere il seno materno: «R. Menahem in nome di R. Bebaj disse: Tre chiavi ha il Santo, egli sia benedetto: la chiave della tomba (Ez 37,12), la chiave della pioggia (Dt 28,11) e la chiave della fecondità (Gen 30,22). C’è chi aggiunge anche la chiave degli alimenti (Sal 145,16)» (Genesi Rabbah, 73,4)4.

Guarda caso tutte queste chiavi sono in un certo qual modo in rapporto con la fecondità. Nel nostro testo Dio visita una giovane di Nazareth che non è sterile ma vergine, e grazie alla sua chiave, che poco prima ha già aperto il seno di Elisabetta, la verginità di Maria diventerà feconda.

Se l’annuncio a Zaccaria si era svolto in uno scenario imponente e solenne, cioè il tempio di Gerusalemme, l’annuncio a Maria avviene in un ambiente molto più umile: una casa piuttosto modesta

di Nazareth. È da notare che, anche se Luca ama utilizzare il termine “città”, in quel tempo Nazareth era un piccolo villaggio sconosciuto della bassa Galilea. Così, dunque, mentre Maria probabilmente sbrigava le faccende domestiche o forse pensava ai molteplici preparativi per la festa di nozze, ricevette una visita inaspettata che cambiò radicalmente la sua vita. È così che agisce il Signore: senza avvisare, senza protocollo, senza far scalpore. Ci chiama un giorno qualsiasi della nostra vita, mentre noi siamo immersi nelle nostre occupazioni quotidiane.

  1. b) Primo intervento dell’angelo e prima reazione di Maria

«Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te”.

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo» (Lc 1,26-29).

L’arrivo dell’angelo fa saltare tutti gli schemi, interrompendo il ritmo e anche la monotonia della vita quotidiana. Senza mai chiamarla per nome, l’angelo saluta Maria con tre espressioni molto particolari: “rallegrati” (chaire), “piena di grazia” (kecharitomene) e “il Signore è con te” (ho kyrios meta sou).

Con la prima espressione Maria è invitata personalmente a gioire (si noti il verbo all’imperativo) perché destinataria del beneplacito divino. Prima di ricevere il messaggio, essa è invitata a reagire con gioia, con una profonda emozione interiore. La seconda espressione, “piena di grazia” (in greco è un participio perfetto passivo)5, esprime l’effetto che l’azione del Signore ha avuto e continua ad avere in Maria; indica cioè la sua condizione speciale in quanto destinataria della grazia, della benevolenza e del favore divino. Secondo l’interpretazione diventata tradizionale – dice Ignace de la Potterie – “piena di grazia” descrive la santità di Maria realizzata in lei dalla grazia, in preparazione all’evento dell’incarnazione6. La terza espressione, nonostante sembri un saluto convenzionale (cf Rut 2,4)7, è una formula basilare nella teologia dell’alleanza che viene adoperata per assicurare una particolare assistenza

divina. Nel nostro caso essa fa riferimento alla vocazione e missione di Maria. Così, dunque, prima di affidarle la missione di diventare madre del figlio di Dio, il Signore si rivolge a Maria con grande rispetto e tenerezza per assicurarle, così come ha fatto con le grandi figure dell’Antico Testamento, la sua presenza e la sua protezione in ogni momento.

La reazione di Maria è immediata. È tale saluto a turbarla, portandola a interrogarsi sul suo significato. In altre parole, la sua reazione si compone di elementi emotivi (turbamento, emozione) e

di elementi razionali (riflessione, domande). Da una parte, la parola ascoltata la emoziona. E questo è un fatto del tutto normale, soprattutto quando la parola proviene da una persona amata. Dall’altra, Maria non capisce il messaggio ricevuto e per questo riflette nel suo intimo prima di rispondere. E non risponde, o meglio ancora, non risponde verbalmente.

  1. c) Secondo intervento dell’angelo e seconda reazione di Maria

«L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.

Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”» (Lc 1,30-34).

L’angelo prende di nuovo la parola per spiegare la missione che Dio ha preparato per lei: essere madre di Dio, madre del Figlio dell’Altissimo. È da notare che l’angelo non dice mai “tuo figlio”, ma parla di “un figlio” e del “Figlio dell’Altissimo”. Come si spiega questo particolare? In certo senso, il figlio di Maria non sarà “suo” figlio, cioè, esclusivamente per lei, ma un figlio di Dio per il mondo. Si anticipa così «una caratteristica della sua maternità come missione: il distacco dal Figlio che, prima di tutto, è Figlio di Dio. Un distacco che ricorda quello che Dio chiede ad Abramo quando gli fa la promessa di un popolo cominciando da suo figlio Isacco. Il Figlio di Dio sarà, nella missione di Maria, un figlio che, come Abramo, le arriva con la Parola e che, come suo figlio, sarà un figlio condiviso»8.

Osserviamo i verbi del v. 31, tutti sono in riferimento a Maria: concepirai, darai alla luce, chiamerai. Per il momento non c’è nessun riferimento ad un intervento maschile, né appare lo Spirito Santo. In questo modo, Luca mette in rilievo il ruolo di Maria nel concepimento del bambino e nella sua maternità. A questo si aggiunge che è Maria, e non il suo sposo (come da consuetudine), l’incaricata di

imporre il nome al bambino. Maria sarà la madre di Gesù, il figlio di Davide, il Messia (cf 2Sam 7,1-16; Is 7,14).

Maria vuole capire come si possa avverare il messaggio dell’angelo tenendo conto della sua condizione di vergine. La sua domanda, inoltre, si addice molto bene alla descrizione che Luca ci offre

della sua persona. Sin dall’inizio, essa appare nel vangelo come una giovane che ascolta con attenzione e riflette su quello che ha ascoltato tentando di capirlo. Totalmente aperta alla Parola, desidera capirla fino in fondo e non interpretarla soltanto con la sua immaginazione. Dopo un breve silenzio, chiede all’angelo che le dia ulteriori spiegazioni per poter capire meglio il suo misterioso annuncio.

  1. d) Terzo intervento dell’angelo e terza reazione di Maria

«Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”.

Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”» (Lc 1,35-38).

L’angelo cerca di spiegare il mistero attraverso l’azione dello Spirito Santo in Maria. Secondo la logica umana, la spiegazione, oltre ad essere alquanto oscura, non risulta molto convincente: essa si

riferisce al futuro ed esige di essere interpretata. Ad ogni modo, prima di finire il suo intervento, l’angelo ricorda a Maria ciò che è successo a sua cugina Elisabetta. Forse la gravidanza inaspettata di Elisabetta può rendere più facile la comprensione di Maria. La storia è retta dalla mano misteriosa di Dio che, rispettando al massimo le situazioni umane, è capace di fare cose impossibili per gli uomini come, per esempio, che una donna sterile o una vergine possa concepire e dare alla luce un figlio.

Senza tante altre spiegazioni, Maria, infine, risponde in modo definitivo.

Sorretta dalla fede, osa dire di “sì”, pur sapendo o supponendo che un “no” le avrebbe risparmiato molti problemi. Il suo sì è totale, senza condizioni. Ha creduto ed è disposta al servizio. Così si esprime

Corrado Maggioni al riguardo: «Dalla “piena di grazia” (dono ricevuto da Dio) alla “serva del Signore” (dono offerto a Dio) si dispiega il mistero dell’Annunciata, la Vergine Madre di Dio»9. Una giovane sconosciuta, in un piccolo villaggio sconosciuto, ha fatto storia. Col suo fiat ha fatto sì che questa storia si realizzi in ciascuno di noi.

 

Conclusione

Luca conclude così il racconto: «E l’angelo partì da lei» (Lc 1,38b). L’angelo Gabriele se ne andò. Tuttavia, oggi egli continua a parlare e la risposta di Maria continua viva nella risposta di ogni uomo e donna di buona volontà. Per dirla con Mercedes Navarro: «Quell’avvenimento non è finito. Dio continua a chiamare e a parlare dialogando con noi. La forma in cui parla a Maria, con la mediazione dell’angelo, ci indica come Dio ci parla. Dio irrompe nella nostra vita ordinaria, nei presupposti di luoghi, tempi e situazioni in cui, come lei, viviamo normalmente. I suoi messaggi, come messaggi mediati, vengono mandati da Dio, così come l’angelo fu mandato a lei. Così il nostro posto e la nostra storia, riferendosi all’interpretazione che di ciò può fare la nostra fede, diventano luogo e storia sacra. Ognuno di noi, come Maria, è interlocutore di Dio e protagonista della propria storia. Dio mi rivolge, in primo luogo, una parola personale di riconoscenza prima di chiedermi qualcosa e solo se ascolto questa prima parola che fonda la mia identità e che mi impressiona, potrò riconoscere, in un secondo momento, la missione che mi affida. Una missione che scatenerà infinite domande e che si appellerà, con segni, alla mia capacità di interpretazione nell’ottica della fede. E la storia può continuare ad essere storia di Dio e il mondo può diventare una nuova creazione, perché Maria ha realizzato in anticipo ciò che ciascuno di noi può continuare a realizzare. Per il “già” della nostra speranza c’è Maria nel Vangelo. Per il “non ancora” incontriamo la tensione che lei, come Umanità Nuova, ha inaugurato e realizzato in anticipo»10.

Il racconto della vocazione di Maria è un invito a vivere la nostra vocazione umana, religiosa e professionale con grande gioia, perché il Signore ci ha chiamati per nome e ci ha invitati a realizzare una

missione piccola, ma importante. Un invito a rimanere sempre al suo fianco, nella prosperità e nell’avversità. Il Signore è con noi, sempre è stato con noi e siamo sicuri che mai ci abbandonerà. In

qualunque circostanza della nostra vita, nel lavoro, nel dolore, nella malattia, nella solitudine… lui ci accompagna. Un invito a non avere paura dei nostri limiti, difetti o debolezze, del domani incerto, del futuro sconosciuto. Ciò che conta non siamo noi, ma l’azione di Dio in noi. Nulla è impossibile per Lui.

Concludo citando ancora una volta le parole di Giuseppe De Virgilio: «Nella nostra cultura occidentale, pervasa da modelli antivocazionali sempre più rapidi e inquietanti, è importante mostrare come l’esperienza della fede e della ricerca del senso della vita sia contrassegnata dalla permanente dialettica tra chiamata e risposta, che si evince dalle storie e dai personaggi biblici»11. Ed è proprio questo che noi abbiamo voluto fare nella nostra relazione.