N.04
Luglio/ Agosto 2013
Studi /

Maturità della guida nel dialogo dell’accompagnamento vocazionale

L’arte di accompagnare le persone è veramente un’arte. Si apprende anche studiando i libri per tutta la vita, ma so­prattutto vivendo la propria vocazione con totalità di dedi­zione e accompagnando le persone prestando massima attenzione ad esse. Paolo VI all’ONU (4-10-1965) ha presentato la Chiesa di­cendo: «Noi, quali “esperti in umanità”» e tali dovremmo essere per accompagnare le persone sulle vie di Dio.

Occorre formarsi bene e conoscere bene la nostra e l’altrui uma­nità per accompagnare al meglio le persone che si affidano a noi. Bisogna conoscere l’uomo per guidarlo sulle vie del Signore e non – magari inconsapevolmente – sulle nostre, se vogliamo aiutarlo a far emergere quanto Dio gli ha già donato e quanto Dio gli sta sug­gerendo per il bene suo e della Chiesa. Se, come afferma la Pastores dabo Vobis (nn. 43-44), la dimensione umana è il fondamento di ogni formazione vocazionale, occorre essere esperti in questa di­mensione umana. Significa essere esperti non solo della meta (le virtù umane e cristiane che devono essere acquisite dall’accompa­gnato), ma anche dei processi attraverso cui si rende possibile o viene ostacolata tale acquisizione.

 

  1. Accompagnati da persone “esperte in umanità”

Se un cieco guida un altro cieco, tutti e due finiscono nel fosso (cf Mt 15,14). Non si può essere esperti in umanità se non si cono­sce la propria innanzitutto. Esperti non di una conoscenza teori­ca dell’uomo in generale, ma di quel guazzabuglio che è il cuore dell’uomo, a partire dal proprio. È proprio su questa conoscenza di sé e dell’altro che vogliamo puntare la nostra attenzione in questa relazione.

L’essere umano sviluppa la propria umanità soltanto interagen­do con altri esseri umani, a partire dalle relazioni familiari. Si cono­sce veramente soltanto dentro le relazioni, ma deve anche imparare a gestire le relazioni (che vuol dire capire che cosa sta avvenendo dentro la relazione), se vuol essere una guida sufficientemente si­cura. Non basta la relazione, tutto dipende da come si vive la rela­zione.

«Prima che andare a Dio ed entrare in comunione di vita con lui, l’uomo ha costantemente bisogno di essere ricondotto a se stesso, di sviluppare la propria autocoscienza e di autoappartenersi. Questo spiega la grande importanza che i nostri tempi hanno attribuito alla psicoterapia e alla conseguente presenza di un “esperto in umanità” che ci faccia come da specchio e ci consenta di “leggere” il nostro vissuto e di porci al timone della nostra esistenza, sottraendoci alle pulsioni interne e ai condizionamenti esterni che ci chiudessero in una triste prigionia»1.

 

1.1 La relazione prima delle parole

Il colloquio di accompagnamento non è mai solo uno scambio di idee, di contenuti verbalmente espressi, è sempre un incontro di persone, che prende caratteristiche particolari in dipendenza dei bisogni emotivo-affettivi, delle difese, di processi che le due persone mettono in atto in quello specifico incontro. C’è sempre un coinvol­gimento emotivo, vissuto con partecipazione o con distacco – per esempio –, che orienta la comprensione di quanto viene detto: la tonalità con la quale viene detto, i gesti e le posture mentre viene detto fanno da chiave interpretativa del senso autentico di quanto si sta comunicando, ecc.

La maturità della guida si rivela nel tipo di relazione che stabi­lisce con la persona che accompagna. L’accompagnamento, infatti, è costituito prima che dalle parole che vengono scambiate negli in­contri, dal tipo di relazione che si riesce a stabilire. Nella relazione entrano le disposizioni psicologiche e la storia personale delle due persone che stanno l’una di fronte all’altra, le proprie attese e i pro­pri pregiudizi. Nell’accompagnamento si stabilisce cioè una interre­lazione molto complessa di influenze reciproche esplicite e implici­te, percepite a livello conscio ma anche a livello inconscio. Nessuno di noi è la stessa persona in tutte le relazioni che intrattiene, nel senso che ogni relazione suscita in noi attese e aspetti diversi della nostra personalità, sfaccettature e risvolti diversi di essa. Per cui, ogni relazione è unica e noi non siamo gli stessi in tutte le relazioni.

Nella relazione interpersonale entrano non solo le immagini e le attese coscienti (magari nascoste all’altro) che abbiamo di noi stessi e dell’altro, ma anche le attese di cui non abbiamo ancora rag­giunto la consapevolezza, ma che comunque sono presenti e così influenzano il tipo di relazione che stabiliamo con l’altro, ciò fin dal primo saluto con il quale accogliamo la persona che incontriamo. Altro è un saluto espansivo che comunica fiducia, altro è un saluto freddo che forse comunica sospetto o sfiducia. Altro è accogliere una persona con un sorriso, altro accoglierlo con un cipiglio da ar­rabbiato che comunica di essere stato disturbato da un arrivo non desiderato. Detto diversamente, le nostre relazioni sono influenzate da fattori consci e da fattori inconsci sia nostri sia della persona che accompagniamo. Così è per ciascuno di noi.

Sul piano psico-affettivo, la relazione è influenzata in gran par­te da bisogni non sempre consci: sicurezza e protezione, amore e appartenenza, stima di sé e desiderio di essere accettato, oppure da disposizioni istintive: timore, colpevolezza, sessualità, aggressività, ansietà, ecc. Spesso queste disposizioni e questi bisogni non sono riconosciuti tali, essi operano sotto un velo di altre giustificazioni razionali così da rendere accettabili anche quelli che non lo sono così chiaramente.

Il fatto intrigante è che tali disposizioni e tali bisogni sono tanto più inconsci quanto più si scostano dalla normalità. Per esempio: lo scrupoloso parla a lungo del suo senso di colpa per ciò che sem­brano quisquiglie a chi ascolta, dice che si sente in colpa perché fa perdere molto tempo al suo interlocutore, ma il suo atteggiamento generale è talmente dipendente (in modo aggressivo) da lui che non riesce a staccarsene e non vorrebbe mai concludere il collo­quio. Non è consapevole dei bisogni che influenzano in modo quasi deterministico la relazione. In alcuni casi, quelli patologici, questa influenza è determinante e a volte risulta, di fatto, insuperabile.

Siamo cioè sempre di fronte a forze inconsce destate dalla re­lazione, forze chiamate “trasferenziali”: le attese dell’accompagna­to verso l’accompagnatore; e forze “controtrasferenziali”: le attese dell’accompagnatore verso l’accompagnato. Trasferenza e contro­trasferenza sono presenti in ogni relazione di accompagnamento. Non è questione del fatto che ci siano, ma di quanto siano forti ed eventualmente determinanti.

 

1.2 La relazione è data anche dal contesto

Dunque, ogni dialogo con le persone, quindi anche quello di accompagnamento, è molto più delle parole che vengono scam­biate. Le attese di cui si è detto creano un “ambiente relazionale” particolare che è fatto di sguardi, di posture, di gestualità, di feeling, di vicinanza o di lontananza fisica… tutti fattori attraverso i quali si dialoga al di là delle parole. Questo contesto dà il criterio per la corretta interpretazione del senso delle parole che vengono dette. Si può creare, a causa di questo, una situazione comunicativa a diversi livelli: uno è quello verbale (ciò che si comunica con le parole) e l’altro è il contesto in cui il livello verbale si esplica e questo dà il senso esatto di cosa dicono le parole e anche di quello che esse non dicono o, talora, non vorrebbero dire. Ciò è sempre vero. Nasce qualche problema, più o meno serio, ma sempre rilevante, quando i due livelli non sono concordi. Si verifica allora una dissonanza comunicativa nella quale ha più peso non quanto viene detto, ma il vissuto in quell’ambiente relazionale.

 

1.3 Tra il detto e il non detto

Va, inoltre, sempre tenuto presente, accanto al detto, il non det­to: “Perché questa persona parla di questo e non di quello?”. La scelta, conscia o inconscia, di che cosa comunicare o non comuni­care contiene già una comunicazione non verbalizzata: essa orien­ta la relazione in un modo o nell’altro. L’eliminazione costante di alcune tematiche dall’accompagnamento, magari anche dopo che è stata richiamata l’attenzione a quella specifica materia, non può che essere significativa. È nota la tecnica di parlare di altro (o deviare il discorso) per evitare di confrontarsi con ciò che non piace, ma forse sta proprio qui la materia più importante e più utile per un profi­cuo accompagnamento. Può capitare che si parli solo di esperienze mistiche, ma mai di quello che capita e si vive ogni giorno nelle relazioni parentali, affettive, professionali… Si vola sopra la realtà. Basterebbe chiedersi: ma questo vive solo di mistica?

È importante fare una volta ogni tanto una recensione degli ar­gomenti toccati nell’accompagnamento e chiedersi quali altri ar­gomenti sarebbero importanti per una vita che si vuole affrontata nella sua integralità. Mi è capitato di sentirmi dire da sacerdoti che sono venuti da me a cercare aiuto in momenti di difficoltà affettive, che nella direzione spirituale in seminario non erano mai stati in­terpellati (se non in modo estremamente vago) sulla loro affettività e sessualità. A quel tempo anche a loro faceva comodo che il padre spirituale sorvolasse sulla materia, perché creava loro già alcune tensioni.

Non è l’accompagnato, sia pure nel suo rispetto, che decide in toto sull’accompagnamento e su ciò che è rilevante per un favore­vole esito dello stesso, soprattutto non è lui che deve decidere cosa è rilevante per affrontare la difficoltà presentata.

 

1.4 La parola rivela la persona…

È quanto la psicoanalisi ha messo bene in luce. Ma occorre an­che saper ascoltare la persona al di là delle parole dette dalla stessa. Si può certamente dire che le parole rivelano la persona, anche quando la persona non vorrebbe rivelare se stessa. Ma dipende dal nostro modo di ascoltarla. L’accompagnatore esperto è colui che si lascia condurre dalle parole e dai gesti dentro il mistero della per­sona.

 

1.5 …ma soprattutto le modalità della parola rivelano la persona

Spesso, infatti, più che le parole, è il modo in cui sono dette che diventa rivelativo di dove sta la persona. Per esempio, il tono del­la voce può condizionare negativamente il colloquio al di là della buona volontà. Il tono dice la modalità affettiva che sta agitandosi nel soggetto: depresso, agitato, nervoso, arrabbiato, contento, feli­ce, deciso, incerto… Ciò fa una diversità notevolissima tra il parlato e lo scritto. Per questo io sono per un accompagnamento che non avviene solo per scritto. Nello scritto ci si avvicina di più alla comu­nicazione virtuale che rende facile nascondere la propria identità, come può avvenire in Facebook o nei vari social network. Uno può scrivere che è contento di sé e degli altri, mentre sta singhiozzando di dolore per quello che gli hanno appena fatto.

 

  1. Cambiare le regole usuali del gioco comunicativo

In genere – è normale – l’accompagnato entra nel colloquio se­condo le sue solite modalità relazionali, proiettando in modo trasfe­renziale sulla relazione le sue attese, i suoi desideri, le sue paure, i suoi conflitti relazionali, ecc. Nulla di drammatico se questo “gioco” trasferenziale non pregiudica una comunicazione su base di realtà. Il problema nasce quando questa trasferenza riveste in maniera forte­mente impropria l’accompagnatore ed è peggio ancora se l’accompa­gnatore non se ne accorge e si lascia tirare dentro questo gioco. Non solo il colloquio abortisce, ma provoca danni all’uno e all’altro.

Occorre cambiare le regole del gioco: rispondere all’accompa­gnato in modo diverso da quello che lui si aspetterebbe, in modo da aiutarlo ad accorgersi che il gioco non funziona più, non ottiene la risposta che si aspetta, quella che in qualche modo è sempre riuscito a provocare. Se non funziona più, allora deve cambiare e il gioco viene allo scoperto.

 

2.1 Le aspettative verso l’autorità nell’accompagnamento

Coloro che accompagniamo vengono da una lunga storia di rap­porti con l’autorità: i genitori, i maestri, i professori, il sacerdote della loro parrocchia… In un modo o nell’altro hanno imparato una modalità di relazione con essa; si sono fatti inconsapevolmen­te un’idea dell’autorità e hanno delle attese nei suoi confronti: si aspettano che il suo comportamento sia di un certo tipo, molto si­mile a quello che fino a quel tempo hanno sperimentato. Comuni­cano con l’autorità dell’accompagnatore a partire da questo schema mentale che si sono formati.

L’accompagnatore, volente o nolente, è un’autorità, se non altro perché il soggetto gliel’ha conferita quando lo ha scelto come suo accompagnatore. Basta questo per capire che nell’accompagnamen­to è in gioco il tipo di rapporto con l’autorità che l’accompagnato ha imparato. Quali le sue attese o paure nei confronti dell’autorità? Se l’accompagnatore si lascia tirare dentro la concezione distorta dell’autorità che l’accompagnato ha, l’accompagnamento si avvin­ghia su se stesso.

Alcuni esempi:

  1. se il punto di partenza è pensare/aspettarsi l’autorità come quella che giudica e punisce (una specie di carabiniere), la comuni­cazione sarà particolarmente guardinga e diffidente, forse centrata nel mostrare alla guida quanti sforzi egli abbia fatto per compor­tarsi moralmente bene. L’accompagnato cerca di mostrare il lato buono della propria personalità, con molta difficoltà ad affrontare le proprie fragilità e ad ammetterle (“se lo fai, il carabiniere ti rim­provera”). Sotto sotto facilmente nella comunicazione appariranno modalità di aggressività passiva e resistenze ad entrare negli angoli un po’ più oscuri della propria personalità. L’accompagnato ten­derà a sentirsi come un colpevole davanti a un giudice che lo sta interrogando. L’atteggiamento sarà apparentemente sottomesso e docile, ma in realtà manipolativo nei confronti dell’accompagna­tore: questi deve essere convinto che lui è un bravo ragazzo/a così può ottenere da lui i permessi desiderati (entrare in vocazione, per esempio). Il colloquio tende ad essere portato sulla linea di un mo­ralismo accentuato con difficoltà ad entrare negli ambiti problema­tici della vita.
  2. Se il punto di partenza è una visione dell’autorità come il buon cambusiere da cui dipende la distribuzione di tutte le provvi­ste di cui il soggetto ha bisogno, la comunicazione sarà impostata su richieste continue (esplicite o implicite) di attenzioni, di approva­zioni, di lodi, oppure di favori particolari (dall’accesso alla biblioteca alla partecipazione a una liturgia particolare della comunità, dal po­ter telefonare in qualsiasi momento alle richieste continue di collo­qui fuori calendario…). Si tratta di persone che scambiano l’essere amati con l’avere attenzioni particolari, doni speciali…
  3. Se invece il punto di partenza è quello dell’autorità come colei che ti risolve tutti i problemi della vita, il colloquio facilmente scivo­lerà su domande e su richieste di risposte immediate ai quesiti posti; in pratica il tono generale sarà: “risolvimi subito tutti i problemi”. Tutta la responsabilità della conduzione del colloquio e delle decisio­ni da prendere (anche non strettamente collegate al discernimento vocazionale, per esempio) viene portata sull’accompagnatore. L’ac­compagnatore ne può ricavare la sensazione di essere particolarmen­te importante e utile per l’accompagnato: diventa generoso di consi­gli, di proposte, si assume compiti e decisioni che dovrebbero essere lasciati all’accompagnato. In altre parole, lo fa rimanere bambino con un padre “onnipotente” che sa tutto e risolve tutto.

Da tutto ciò emerge che l’accompagnato tende a dare una sua interpretazione e una sua direzione al colloquio spirituale. Nulla di male, è inevitabile. Ma la guida deve esserne consapevole e do­vrebbe essere capace di accorgersene, onde non cadere nel gioco, altrimenti impedirebbe al soggetto di raggiungere una maturità maggiore anche nella propria decisione vocazionale, per esempio.

È proprio qui che diventa importante la maturità umana della guida e il suo essere esperto in umanità, uno che conosce bene e sa riconoscere queste dinamiche nel colloquio onde orientare quest’ultimo su una direzione più proficua per l’accompagnato.

 

  1. Le reazioni della guida

Anche per la guida la relazione si ripercuote e si riflette su un suo mondo di aspirazioni molto elementari: sicurezza, successo, stima di sé, soddisfare le aspettative di altri, bisogno di accettazio­ne e di affetto, tendenze a proteggere, a influenzare, a dominare… Oppure timore, insicurezza, sessualità, aggressività, ansietà, colpe­volezza… Non tutto ciò purtroppo è sempre noto alla guida. Non è poi così importate, fino a che questo non ricade negativamente sull’accompagnamento, magari compromettendolo. Tutto ciò, in­fatti, interagisce con il modo in cui l’accompagnato si relaziona a lui e crea quell’ambiente relazionale unico di cui si è detto.

Il primo compito della guida è quello di essere cosciente del pro­prio modo di accettare o di rifiutare determinate richieste o imposta­zioni del colloquio e stabilire quali di esse possono essere accettate e come affrontarle. Dovrebbe imparare a distinguere le proprie ten­denze da quelle dell’accompagnato, onde evitare di essere un cieco che guida altri ciechi. Aiutare l’accompagnato a stabilire relazioni più realistiche è esattamente indirizzarlo sulla via di una relazione più realistica anche con Dio, in altre parole, aiutarlo a crescere.

Alcuni esempi più concreti del modo in cui la guida influenza il colloquio di accompagnamento:

 

guida insicura: ha bisogno di affermare il proprio prestigio, quin­di fa molta fatica ad accettare il rifiuto aggressivo (passivo) dell’au­torità. La sua sicurezza è confermata se lui viene accettato subito. Quindi reagirà con aggressività svalutativa ad ogni critica, spesso sottile, dell’accompagnato. Risponderà in qualche modo in maniera accusatoria. Si sentirà sicuro solo se immediatamente approvato. Un esempio:

S.: Lei non mi capisce e non riesce ad aiutarmi!

G.: Non sono io che non la capisco, è lei che non si lascia aiutare. Nessuno sarà capace di aiutarla, se non fa quello che le dico io.

S.: È lei che non mi ascolta!

G.: (aggressivo) Mi dica, la sto ascoltando.

Se, invece che una persona aggressiva verso l’autorità, la stessa guida insicura si trovasse con una persona sottomessa e dipendente, il suo modo di condurre il colloquio tenderà ad essere sullo stesso stile, con l’impressione di un risultato più positivo, ma difatti sem­pre negativo per l’accompagnato.

S.: Ieri, finalmente, sono riuscito a fare una bella meditazione di un’ora intera. Ne sono molto soddisfatto.

G.: Molto bene, vedo che stai maturando in una spiritualità più profonda. Mi fa piacere.

S.: Cosa mi dice se da ora in avanti faccio un’ora di meditazione tutti i giorni?

G.: Credo proprio che non potresti fare nulla di meglio.

Ovviamente il colloquio condotto così non serve che a poco, an­che se dà alla guida una sensazione di soddisfazione e di successo nell’accompagnamento e quindi lo tranquillizza. Proviamo a imma­ginare un modo diverso di condurre il colloquio senza che la guida cada nel tranello della sua insicurezza che inconsciamente le è stato teso anche dall’accompagnato.

S.: Ieri, finalmente, sono riuscito a fare una bella meditazione di un’ora intera. Ne sono molto soddisfatto.

G.: Bene. Vorresti aiutarmi a capire su che cosa è consistita la tua meditazione?

S.: Ho meditato sulle celebrazioni liturgiche.

G.: (La liturgia è celebrazione del mistero di Dio e via verso una comu­nione di vita con Lui, quindi bene!). Vuoi aiutarmi a capire su quale aspetto della liturgia si è fermata la tua meditazione?

S.: Sulla bellezza come via verso Dio e come questa può trovare nelle vesti liturgiche una espressione fondamentale (può essere vero, ma se fa un’ora di meditazione tutti i giorni su questo aspetto, forse non ci siamo proprio).

Se invece la stessa guida insicura si trova in un colloquio con una persona che trasferisce su di lui un’immagine di “datore di ogni bene”, questa cercherà la sua sicurezza nel dare all’accompagnato tutti i “beni” che via via va chiedendo.

S.: Sa, padre, mi sono deciso, faccio domanda di entrare in convento.

G.: Molto bene, finalmente ci sei riuscito e mi hai ascoltato.

S.: Ma c’è una difficoltà: si tratta dei miei genitori che, sono si­curo, non accetteranno. Mi farebbe molto piacere (sottinteso: e la mia stima per lei aumenterebbe) se mi facesse il favore di parlare lei per primo ai miei genitori, visto che li conosce. Sono sicuro che lei po­trebbe convincerli.

G.: Sono molto contento che tu alla fine abbia deciso. Sicura­mente domani troverò modo di vedere i tuoi genitori e così anticipo loro la tua decisione.

S.: La ringrazio molto, padre, sapevo che posso sempre contare su di lei e sul suo aiuto.

G.: Sempre contento di aiutarti in tutto ciò di cui hai bisogno.

Mi pare ovvio il tranello in cui questa guida è caduta e sta caden­do consistentemente. In questo modo non trova né la propria sicu­rezza, né aiuta l’accompagnato a raggiungere un grado maggiore di libertà e di sicurezza nell’affrontare le proprie decisioni. Proviamo a vedere un modo diverso di condurre il colloquio, modo nel quale la guida non mette a tacere subito la sua insicurezza.

S.: Sa, padre, mi sono deciso, faccio domanda di entrare in con­vento.

G.: Molto bene, finalmente ci sei riuscito.

S.: Ma c’è una difficoltà: si tratta dei miei genitori che, sono si­curo, non accetteranno. Mi farebbe molto piacere (sottinteso: e la mia stima per lei aumenterebbe) se mi facesse il favore di parlare lei per primo ai miei genitori, visto che li conosce. Sono sicuro che lei po­trebbe convincerli.

G.: Sono molto contento che tu alla fine abbia deciso. Non pensi che forse sarebbe meglio per te se fossi tu ad affrontare i tuoi geni­tori comunicando le tue decisioni?

S.: Temo le loro reazioni.

G.: Forse, come dici tu, reagiranno male, ma mi pare che tu pos­sa avere la forza necessaria per affrontare questa (difficile) situazio­ne. Solo tu puoi decidere della tua vita.

S.: Ci proverò, se me lo dice lei, ma per favore, mi accompagni con la sua preghiera.

G.: Certamente lo farò.

Dinamiche di questo tipo entrano in tutte le relazioni. Non c’è da stupirsi. Ciò che fa la differenza è quanto esse siano rigide e quindi segno di una trasferenza (o controtrasferenza) nella relazione; al­lora possono diventare negative o per lo meno bloccare la crescita verso la maturità vocazionale della persona.

 

  1. Alcuni criteri per identificare trasferenza e controtra­sferenza

La guida non è necessariamente uno psicologo e non è tenuto ad esserlo: non è questa la sua specialità. Niente di male se lo è, ma la guida spirituale-vocazionale non è solo psicologo. Si tratta qui allora di dare qui alcuni criteri molto generali, ma credo di una qualche utilità per riconoscere la presenza di immaturità della guida nel colloquio spirituale.

Ecco alcuni criteri fondamentali:

ostinazione in alcuni modi relazionali: nonostante le opportune precisazioni, la guida, più o meno ad ogni colloquio, ritorna sempre sugli stessi stili di aggressività, di richieste. Ciò significa che le difese e lo schema relazionale sono ben radicati e in genere non consapevoli.

Esempio: S. di 27 anni va dalla guida e gli dice che sta pensando che forse è chiamato a farsi prete. Fa un discorso che parte molto da lontano e non sembra più venire al dunque. La guida allora lo incalza con ostinazione. Il risultato è maggior cautela e quasi reti­cenza da parte di S.:

G.: Mi dica, perché vuol farsi prete?

S.: Quando ero piccolo, facevo il chierichetto…

G.: Sì va bene, ma ora perché vuol farsi prete?

S.: Sa, da molto tempo ci penso e guardo al mio sacerdote…

G.: Va bene, ma vorrei che mi dicesse perché ora (calca la voce) vuol farsi prete?

S.: Vede, quando prego mi sento bene…

G.: Solo perché si sente bene?

Resistenza: si nota quando nel colloquio si lasciano cadere le sollecitazioni che vengono date onde considerare la situazione in modo diverso, ritornando a riproporre la sua modalità come se nul­la fosse stato detto.

Ecco un esempio di resistenza della guida ad affrontare la tema­tica proposta: S. vuole affrontare il tema del celibato nel percorso di discernimento vocazionale e chiede un colloquio.

G.: Vuole dirmi perché ha chiesto questo colloquio?

S.: Ieri ho letto sui giornali di don N. della nostra diocesi che ha lasciato il ministero a causa di una donna.

G.: È davvero una cosa molto spiacevole, ne siamo tutti addo­lorati.

S.: È un fatto che mi fa molto pensare…

G.: (interrompendolo) purtroppo sono cose che capitano, anche se non dovrebbe essere così.

S.: Il celibato mi pare molto impegnativo e chissà se….

G.: (interrompendolo) Con la grazia di Dio tutto è possibile, anche superare le tentazioni in questo campo.

S.: Lei che mi conosce, pensa che io possa affrontare un tale impegno?

G.: Sicuramente, anzi, leggi la Sacerdotalis coelibatus di Paolo VI e sono sicuro che tutti i tuoi dubbi saranno chiariti.

 

Ambiguità: soprattutto quando essa riguarda la risposta alle ri­chieste di aiuto che vengono introdotte. A tutti è capitato di capire

immediatamente che quello che una persona espressamente chie­deva (il motivo dell’accompagnamento) non era ciò che effettiva­mente stava cercando. Oppure qualcuno che fa ostentata profes­sione di apprezzamento e di stima, ma appare evidente una forte aggressività espressa attraverso ironia, messa in dubbio di tutto ciò che le si dice, ecc. Cosa che irrita molto la guida. Utilizzare un lin­guaggio non ambiguo aiuta la gente a crederti e a fidarsi di te.

Le ambiguità comunicano su due livelli facendo trasparire, oltre al nesso logico, un secondo senso. Certe parole, per esempio, hanno due significati in base al contesto espresso. Attraverso frasi ambigue o reticenti possono manifestarsi trasferenze improprie dell’accom­pagnatore.

Ecco un esempio di ambiguità della guida durate un colloquio. S. va dalla guida e gli chiede se può fargli il piacere di prestargli certi libri di teologia che vorrebbe leggere. La guida non presta per nulla affatto volentieri i suoi libri, ma non ha il coraggio di dirlo aperta­mente e ricorre a forme di ambiguità.

S.: Vorrei chiederle se, per favore, mi presta quel tal libro di teo­logia.

G.: Volentieri, ricordamelo alla fine del colloquio.

(alla fine del colloquio)

S.: Allora prendo quel libro che le ho chiesto?

G.: (ironico) Vuoi già fare il teologo?

S.: È che sto cercando di approfondire una questione e mi pare che quel libro potrebbe essermi utile.

G.: Sei sicuro che ti possa essere utile e che sei in grado di com­prenderlo? sai è molto difficile e teorico, è per gente che ha già studiato teologia. Non se se ti sarebbe utile.

S.: Forse posso provare.

G.: Facciamo così, pensaci se veramente sei in grado di affrontare libri così impegnativi. Casomai te lo preparo per il prossimo incontro.

 

Il successivo incontro il libro non c’è ed S. non ne parla più.

La trasferenza è tanto più forte, e tanto più difficile da superare, quanto più sono forti i tre criteri indicati (ostinazione, resistenza, ambiguità). Essa può diventare addirittura patologica e quindi ri­chiedere interventi di competenze particolari.

Se troviamo questi tratti nella nostra relazione, è quasi certo che i nostri problemi personali stanno interferendo nell’accompa­gnamento. In ciò non necessariamente c’è qualcosa di catastrofico, purché ne siamo a conoscenza e siamo decisi a controllare i tratti tran­sferenziali al fine di evitare la creazione di una “coppia affettiva” che pregiudica la funzione di mediatore portando a risultati poco significativi.

Qui sta la maturità della guida “esperta in umanità”.

 

Note

1 A. Gentili, «Guide spirituali cercansi», in «Rogate Ergo», ottobre 2008, p. 3.