N.04
Luglio/ Agosto 2013
Studi /

Pedagogia cristocentrica e gioia di credere

Dichiaro il limite della mia riflessione, sperando che in essa vi sia anche il suo pregio. Avrei potuto fare un’esposizione ar­gomentata dei tratti teorici di una pedagogia cristocentrica, ma mi sarebbe parso di perdere e far perdere tempo, dal momento che molti di noi sentono pesare, più sul cuore che sulla mente, lo smarrimento di generazioni giovanili che, come si legge negli Atti, «vanno cercando Dio come a tentoni» (At 17,27) talvolta non sa­pendo nemmeno che nei loro disorientamenti vi è proprio una ri­cerca di Dio; e al tempo stesso ci pesa sul cuore la nostra incapacità – come educatori cristiani e come comunità cristiane – di far breccia nella loro ricerca, perché le nostre parole sono diventate vuote, in­capaci di tradursi in gesto eloquente e di trasmettere il fascino che la persona del Signore ha avuto e ha nella nostra vita di credenti.

I pensieri che andrò proponendo nascono soprattutto dall’ascol­to e dall’osservazione del mondo giovanile e dall’esperienza edu­cativa diretta, più che dallo studio. Per questo vanno più per intui­zioni che per ragionare concatenato, e sono ispirate più da passione che da rigore.

Introduzione

Divenuto arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini de­dicò a Gesù Cristo la sua prima lettera pastorale, in occasione della Quaresima del 1955: Omnia nobis est Christus ne era il titolo quanto mai significativo: «Cristo è essenziale, Cristo è necessario, Cristo è indi­spensabile per le nostre relazioni con Dio»1. E quasi rispondendo ad una possibile obiezione, proseguiva: «Non si dica consueto il tema; esso è sempre nuovo; non lo si dica già conosciuto; esso è inesauribile. (…). Non è superfluo richiamare la spiritualità dei fedeli a migliore coscienza della posizione centrale che Gesù Cristo deve in essa occupare». Parole necessa­rie anche oggi, per la vita personale dei cristiani, delle comunità e ancor più per gli educatori alla fede.

  1. Pedagogia dell’incontro

Apro questa riflessione, cercando di assumere lo stile e il “meto­do educativo” di Gesù. Di cui vorrei cogliere innanzitutto il cuore, il segreto del modo con cui egli guarda alle persone: è l’amore pie­no di fiducia nelle possibilità di bene degli uomini e che prende la forma della dolcezza, della parola mite, accogliente, misericordiosa. Il suo rapporto con le persone sembra essere improntato alla do­manda: come svegliare in chi mi sta davanti le energie migliori del suo cuore? Come aiutarlo a trovare dentro di sé le domande vere, che possono metterlo sulla strada della verità? Come ridargli il de­siderio del bene? Il suo contatto con le persone – siano esse povere o ricche; sane o malate; gente per bene o malcapitati… – sembra essere un gesto per risvegliare in esse la vita, lo sguardo limpido del bambino di un tempo, l’innocenza del primo giorno.

Non vi è in Gesù l’irruenza di chi si scaglia contro il male; ed è come se fosse convinto che il male può essere sconfitto solo dalla libertà della coscienza di ciascuno, dentro ciascuno: per questo oc­corre risvegliare il cuore, restituendolo al gusto del bene.

Con questa chiave si possono leggere le più intense narrazioni evangeliche anche come modello di ogni relazione volta a promuo­vere l’altro e ad accrescerne l’umanità. Sulla base del Vangelo, si può riflettere sulle strutture di fondo dell’educazione: la relazione, l’incontro, la proposta, l’autorità, la correzione, il dialogo… e impa­rare alla scuola del Signore il suo modo di declinarle.

Prendo come riferimento il dialogo di Gesù con la donna di Sa­maria, icona efficacissima di una pedagogia dell’incontro.

Il Vangelo di Giovanni dice che Gesù, in viaggio dalla Giudea alla Galilea, deve passare dalla Samaria e si ferma presso un pozzo, a riposare, mentre i discepoli vanno in cerca di cibo.

Occorre lasciarsi trovare, nei luoghi della solitudine e della stan­chezza. Lasciarsi trovare, in modo apparentemente casuale, con i segni deboli della stanchezza e del bisogno: «Gesù, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo» (Gv 4,6). È un messaggio di grande provocazione, questo, per la comunità cristiana e per noi educa­tori, che pensiamo che l’efficacia della nostra azione sia maggiore se ci presentiamo come persone senza dubbi e senza inquietudini, forti dell’autorità di un sapere certo; pensiamo che la nostra auto­revolezza aumenti, se siamo in una posizione di vantaggio, di forza. Gesù non teme di mostrarsi così com’è, nella verità della sua vita, che è quella di un uomo affaticato e bisognoso.

«Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”» (v. 7). Gesù si mette sulla stessa lunghezza d’onda della donna: lei va ad attingere acqua e lui le chiede da bere. Bisogna parlare lo stesso linguaggio, per farsi ascoltare, per ricevere attenzione.

E si apre il dialogo. L’amore – e che cos’è l’educazione se non un atto di amore? – chiede relazione, legame; non sopporta l’estranei­tà e l’indifferenza. Ma vi sono molti modi per entrare in relazione: Gesù sceglie quello umile, di chi presenta una richiesta. E la rela­zione è avviata. Andrà avanti su registri diversi, ma è avviata, in un reciproco continuo inseguimento, in cui le provocazioni talvolta ironiche della donna – «Come, tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono Samaritana…? Come fai a darmi da bere che non hai con che cosa at­tingere acqua…?» – si intrecciano con i cambi di tono di Gesù, che non teme di coinvolgerla in discorsi di alta teologia: la mette a parte dei misteri del Regno, della sua natura di Messia… Dialogo che è ascolto e parola, silenzio e provocazione; Gesù non esita a spiazzare la donna con un discorso che va al di là dei temi che lei gli propone: lei parla dell’acqua da bere, Gesù le parla di un’altra acqua e porta il dialogo su un piano diverso. E quando il dialogo è giunto ad un punto di ma­turazione adeguato, Gesù la mette di fronte alla verità della sua vita: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,17-18). Non subito, non all’inizio del loro conversare: all’inizio diremmo che parlano del più e del meno, come due estranei; ma a poco a poco la relazione genera la possibilità di andare in profondità, e di rivelare e rivelarsi.

Sappiamo come termina l’episodio: la donna è talmente presa dall’emozione che questo incontro ha generato in lei che corre in città a raccontare quello che le è successo e dimentica la brocca al pozzo. Era andata per attingere acqua, ma quello che le è accaduto l’ha così coinvolta che se ne va dimenticando proprio la brocca (cf Gv 4,28-30).

L’incontro con il Signore concentra tutte le energie dell’anima, della vita, del cuore in un punto, che diventa il baricentro della vita della persona. E si dimentica il resto, come chi è tutto concentrato su ciò che ha cambiato il punto di vista sulla vita, che ha riempito il suo orizzonte esistenziale, ha dato una svolta all’esistenza.

E la svolta sta nel diventare missionaria, da parte della donna: non può più trattenersi, va a raccontare, e non già i discorsi che Gesù le ha fatto sui misteri del Regno – chissà che cosa sarà rimasto dentro di lei! – ma la straordinarietà di questo personaggio, la sor­presa di aver trovato uno che le ha detto ciò che ha fatto. Racconta la gioia di un incontro, la sorpresa di aver conosciuto un uomo stra­ordinario, diverso dai suoi cinque mariti.

E il Vangelo tace su tanti aspetti che ci piacerebbe conoscere: come sarà andata avanti la vita di questa donna? Quali cambia­menti avrà prodotto in lei l’incontro con Gesù? E che cosa avranno detto di lei i suoi concittadini, che la conoscevano e sapevano della sua esistenza non proprio irreprensibile? E di quel Messia che si fermava a fare questi discorsi con una donna come lei? Ma sono domande che interessano noi, abituati a fare considerazioni e cal­coli più di quanto il Vangelo sia abituato a fare. Ciò che conta non è ciò che succede dopo: ciò che conta è la verità di un incontro che fa intravedere un nuovo orizzonte per la vita e genera una gioia così incontenibile da rendere distratti verso tutto il resto.

  1. I rischi dell’educazione alla fede oggi

L’icona del dialogo tra Gesù e la donna di Samaria ci invita a pensare l’educazione come una relazione cercata e voluta, sapen­dosi mettere sulla lunghezza d’onda dell’altro.

Ci interroghiamo allora su chi sono le persone con le quali oggi vorremmo entrare in relazione.

Il contesto in cui viviamo è caratterizzato non dall’ostilità nei confronti della fede, ma da un profondo senso di estraneità. Sui volti di giovani e di adulti sembra di leggere la domanda: «Ma que­sto che cosa c’entra con la mia vita di tutti i giorni? Con la fatica del lavoro, con l’incertezza del futuro, con il disorientamento di fronte ad una pluralità di proposte che incantano ma non lasciano ascol­tare le voci vere, quelle che parlano della vita reale e non delle sue illusioni?».

Ricentrare la proposta di fede sull’essenziale può costituire il percorso per considerare la questione della fede dalla sua genesi, dai suoi elementi costitutivi e generativi, e può tornare ad avere un interesse per tutti, per chi cerca, per chi sembra essersi adattato a pensare la vita nell’orizzonte delle piccole cose di ogni giorno, ma anche per chi già vive un’esperienza di fede adulta e convinta.

Il punto di vista dell’educazione non può non includere nella sua considerazione l’attenzione ai destinatari della proposta: i gio­vani in primo luogo, ma ormai anche larga parte del mondo adul­to, che soprattutto nelle sue fasce più giovani – proprio quelle che hanno influenza sull’educazione dei più piccoli – guarda alla fede in modo problematico, o distratto, o indifferente. Nell’orizzonte della nostra attenzione vogliamo includere non i giovani che frequen­tano la Chiesa, ma tutti! I giovani comuni, la prima generazione incredula2; oltre quelli che frequentano la parrocchia, gli oratori o qualche gruppo, ma quelli che si incontrano a scuola e in universi­tà, nei luoghi del divertimento, e – ahimé sempre meno – nei luoghi di lavoro.

Ci chiediamo: quale formazione ricevono le nuove generazioni, oggi? Quali proposte, quali luoghi, quali educatori per il loro aprirsi alla fede? Quale accompagnamento?

La maggior parte dei bambini e dei ragazzi ricevono una pro­posta di vita cristiana organica e sempre più curata, nei percor­si di iniziazione che si sono andati strutturando e che hanno so­stituito le tradizionali proposte di catechesi e di preparazione ai sacramenti. Percorsi che nella generalità dei casi hanno termine verso i 12-13 anni, quando termina la fanciullezza e hanno inizio i turbamenti dell’adolescenza. Si tratta di percorsi che sono in gra­do di accendere in tanti ragazzi l’entusiasmo di un’esperienza che li coinvolge. Ma quando comincia l’età delle domande personali, questo percorso è terminato. Non che la comunità cristiana non abbia anche altre opportunità, ma sono occasioni che per le loro caratteristiche coinvolgono pochi: per la maggior parte dei ragazzi con la celebrazione dei sacramenti cessa anche il contatto educa­tivo con la comunità cristiana; forse rimane quello liturgico, ma non ha la stessa forza di una proposta che possa interagire con le domande di vita di un giovane che cresce, in un contesto secolare e plurale come l’attuale.

Quando inizia l’età della consapevolezza più profonda e interio­re, un giovane è sostanzialmente solo, a meno che non gli capiti la fortuna di avere un insegnante di religione che non teme di farsi punto di riferimento, educatore vero, disponibile ad accompagnare i giovani nel loro personale incontro con la vita.

I giovani che sono rimasti nell’orbita della comunità cristiana e delle sue proposte formative ricevono in genere proposte fram­mentarie, legate a grandi eventi, dal forte impatto, ma quasi sempre senza continuità. Ricevono proposte uguali per tutti, soprattutto proposte che non riescono a tener conto nel linguaggio, nel tipo di approccio alla fede, negli obiettivi… del livello di estraneità dell’at­tuale mondo giovanile rispetto ai temi della fede e della Chiesa.

Estraneità, lontananza, ma non ostilità. Dunque un mondo che ha bisogno semplicemente di essere preso per mano, aiutato a capi­re che cosa c’entrano Gesù Cristo, il Vangelo e la Chiesa con il pro­prio desiderio di vita, di realizzazione, di futuro. Anzi, un mondo che ha bisogno di leggere in profondità il proprio desiderio di vita e di riconoscere nella proprie domande le esigenze esistenziali più profonde. Ma questo non si può fare in presenza di proposte già confezionate, molto strutturate e tali che in esse le domande trova­no poco spazio; che non riescono a far fare alle persone il percorso che va dalla loro vita e dai loro interrogativi alla fede strutturata e codificata della comunità cristiana.

Ricevono una proposta che riflette l’attuale cultura pastorale delle comunità, fatta di molte iniziative, molti impegni, molte atti­vità, e comunque proposte che possono coinvolgere solo i frequen­tatori della parrocchia e dei gruppi giovanili3.

  1. Attualità di una pedagogia cristocentrica

A fronte di questa situazione, formuliamo un’ipotesi: non sarà che il modo per far incontrare i giovani di oggi con Gesù non sia proprio quello di una pedagogia cristocentrica?

La prima e più ovvia considerazione è che non si possono avere molti centri; quando questo accade, una persona perde il suo equi­librio e la sua armonia.

Dunque una pedagogia cristocentrica ha un unico centro, un unico punto di gravitazione: Gesù Cristo. E già qui si aprono molte domande che riguardano la nostra vita di cristiani e quella della nostre comunità. Abbiamo veramente un unico centro? E questo centro è Gesù Cristo? O pensiamo che siano le nostre attività, le nostre tradizioni, le nostre iniziative, i nostri linguaggi…

È una pedagogia dell’essenziale, del cuore della fede, concen­trata sul suo nucleo incandescente. Del resto, se abbiamo in mente il magistero del Concilio, ci rendiamo conto che già 50 anni fa la Chiesa e i cristiani sono stati richiamati alla necessità che la vita del­la Chiesa e quella dei cristiani fossero centrate su Gesù: è lui la luce delle genti e la missione della Chiesa è quella di creare il contatto.

Il Concilio ci ha aiutato a riscoprire ciò che appartiene profon­damente alla tradizione cristiana e che forse nel tempo ha visto accumulare su di sé elementi ridondanti, inessenziali, che hanno rischiato di far perdere di vista il centro.

Penso si possa affermare che il Concilio è stato il momento in cui la Chiesa è stata condotta dallo Spirito a ricentrarsi sul mistero del Signore, sua vita, unico contenuto e senso della sua missione. Il percorso verso il cuore della propria vita è, per la Chiesa e per i cristiani, un processo di revisione in cui si distingue l’essenziale dall’accessorio; in cui si compie un viaggio verso la sorgente, che è il Signore Gesù e la sua Parola; ci si interroga su come far in­contrare le persone di oggi con il mistero del Signore Gesù, come affermò Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio: «Oc­corre che la dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi»4. È la questione del rapporto tra il mistero e le forme culturali di cui esso si riveste per vivere nel tempo; è la relazione tra il tempo e l’eterno, tra il contingente e l’assoluto, tra ciò che permane e ciò che, essendo legato al tempo, muta con esso; tra Dio e le parole che usiamo per svelarne in qualche modo il miste­ro. Voler conservare immutate le forme storiche di cui il mistero si riveste, finisce con lo scambiare il mistero con le sue forme, e innalzare ad assoluto ciò che invece appartiene alle forme espres­sive di esso, opera dell’uomo e del suo vivere nel tempo. E quando questo accade, ha riflessi molto gravi sul piano educativo, finendo con il pregiudicarne il valore e l’efficacia. Questo è particolarmen­te evidente quando accade di incontrare giovani cui la formazione cristiana sembra aver fatto perdere i connotati di giovani di oggi. E allora l’interrogativo: sappiamo vigilare sul rischio che l’educa­zione prenda in carico dei giovani di oggi per trasformarli di fatto in giovani di 30 o 20 anni fa?

Una pedagogia cristocentrica pone una serie di questioni che rin­viano proprio al rapporto tra il cuore della fede e le forme per dirla, per celebrarla, per renderla comunicabile alle persone di oggi. Le parole – i riti, i comportamenti, le abitudini, le tradizioni, gli stili di vita… – possono contribuire a rendere leggibile il mistero, ma an­che a velarlo, a nasconderlo, a farlo percepire lontano ed estraneo.

Solo Gesù Cristo parla all’uomo del mistero di Dio; parla all’uo­mo del mistero dell’uomo. Quando le parole della fede distraggono da lui, finiscono con il rendere Dio estraneo alle persone.

Si apre qui tutta una serie di interrogativi particolarmente at­tuali e stringenti, che riguardano soprattutto la proposta di fede alle nuove generazioni, che appaiono sempre più impermeabili alla vita cristiana, eppure non indifferenti, in profondità, al desiderio di Dio nella forma della ricerca di un senso. Molti si chiedono se si possa ancora porre ai giovani attuali la questione di Dio: generazioni che hanno imparato a cavarsela senza Dio; che sembrano non avere an­tenne per Dio. Ma quanto il modo di educare alla fede contribuisce

a generare la lontananza delle nuove generazioni dalla fede? Que­sto è il tempo in cui occorre interrogarsi sui percorsi generativi della fede, se non si vuole che le parole e le esperienze più importanti della vita cristiana restino senza eco nella coscienza dei giovani e, nel caso di giovani che li accolgono con disponibilità, restino avulsi dalla loro esistenza, un capitolo a parte della loro vita. Forse inve­ce questo è il tempo in cui la fede si trasmette non consegnandola come un patrimonio consolidato, ma ponendo il germe di essa nel cuore delle persone, perché sbocci, e cresca a modo loro e maturi a suo tempo. È la logica del generare, diversa da quella del semplice consegnare o trasmettere.

Anche San Paolo usa questo termine: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore…» scrive ai Galati (Gal 4,19).

La proposta di fede non può consegnare una dottrina senza aver fatto incontrare la persona del Signore; non può partire dalla cate­chesi senza aver evangelizzato; non può aprire una prospettiva di impegno senza aver prima affascinato; non può presentare la fede come una serie di no, senza aver saputo mostrare quanti e quali sì la scelta del Vangelo dice alla vita5: è la logica del tesoro per il quale si vende tutto, consapevoli e lieti per averlo trovato (cf Mt 13,44-46). È una fede che apre alle dimensioni più belle della vita, che genera gioia, pienezza, senso della realizzazione di sé.

Più la riflessione procede e meglio si comprende che una peda­gogia cristocentrica non solo costituisce un percorso verso una fede profonda e radicata nei suoi elementi più qualificanti, ma sembra costituire anche la strada per affrontare la questione della proposta di fede alle nuove generazioni nell’attuale contesto.

Conosco l’obiezione che qualcuno potrebbe opporre a questo punto: torniamo alla posizione in voga soprattutto tra i giovani qualche decennio fa: Cristo sì, Chiesa no? Le riflessioni che stiamo facendo si colloca nel ricordo di Paolo VI che ha aperto il suo mi­nistero milanese con una lettera pastorale dedicata a Cristo e che, al tempo stesso, è stato il cantore appassionato del mistero della Chiesa. Dunque un percorso corretto di presentazione del Signore Gesù non porta lontano dalla Chiesa, ma, casomai colloca nel cuore di essa.

  1. Cristo: fine e criterio dell’educazione

Una pedagogia cristocentrica ha in Cristo la sua meta e il suo “metodo”. Essa si propone di far incontrare le persone con il Si­gnore Gesù, fino a fare di lui il cuore della propria esistenza, e al tempo stesso è una pedagogia che assume lo stesso stile del Signore: dialogico, autorevole, capace di attenzione alle persone considerate come uniche…

4.1 Gesù, meta del percorso verso e dentro la fede

L’educazione alla fede ha il compito di accompagnare le persone ad incontrarsi con il Signore, cioè con una persona viva, non con un’idea, con una dottrina, con una formula, come scrisse Giovanni Paolo II6. Ed è superfluo evidenziare la distanza che vi è tra l’incon­tro con un’idea e quello con una persona, il fascino dell’incontro, sguardi che si compenetrano, l’entusiasmo per l’essere coinvolti nella stessa missione, il camminare con lei, sapendo che l’anima di questo incontro sono l’amore, la tenerezza, la sollecitudine.

E si tratta dell’incontro con il Gesù del Vangelo, con la sua uma­nità intensa, sensibile, calda e aperta ad ogni domanda, ad ogni povertà, ad ogni incontro; il Gesù del Vangelo, e non quello di una «certa predicazione che lo rende asettico, confinato in regioni ete­ree che lui non ha mai frequentato, il Gesù dolciastro di tante im­maginette…»7.

L’umanità di Gesù ci parla di Dio, della sua attenzione a donne e uomini reali, del suo amore per l’umanità nei suoi aspetti più sem­plici, concreti, quotidiani; ci parla della sua misericordia attraverso i gesti con cui ha rigenerato la vita di tante persone, cui ha ridato un futuro. L’umanità di Gesù ci parla della sua libertà e di un Dio che difende la nostra libertà: la difende dalle tradizioni, dalle abitudini religiose, di ciò che mortifica la vita, e tocca i lebbrosi, parla con le donne, mangia con gente di dubbia reputazione, si lascia profumare da una peccatrice…

4.2 Gesù, modello di uno stile educativo efficace

Il modo con cui Gesù si intrattiene con le persone ha in ogni oc­casione i caratteri di un’intensa umanità. Vorrei metterne in risalto soprattutto alcuni, quelli che appaiono, agli educatori di oggi – con le loro abitudini e la loro cultura – i più provocatori e significativi.

  • Gesù fa sentire le persone che incontra come uniche. I suoi in­contri avvengono spesso in situazioni confuse, nell’assedio della folla, eppure l’incontro è fatto di sguardi che si incontrano, di ve­rità che si manifestano, quella della propria vita malata, o detur­pata dal peccato, di parole dette proprio a chi sta davanti a Gesù, di dialoghi che salvano per annientare parole che condannano, come nel caso della donna adultera (cf Gv 8,1-11). Gli incontri di Gesù tolgono le persone dall’anonimato, restituiscono loro una dignità, un futuro, il senso del loro valore.
  • Sono incontri che si intessono di dialoghi: chiunque, rivolgen­dosi a lui, può dirgli ciò che pensa, può gridargli i suoi bisogni, può raccontargli la propria pena, può manifestargli i suoi dubbi. E così la parola di Gesù diviene sempre una parola personale. E anche quando il Vangelo riporta i discorsi di Gesù rivolti ad una folla, dice quasi sempre anche di spiegazioni fatte in privato ai discepoli, di parole che continuano a intrecciarsi… (cf Mc 9,29). Persino con i suoi oppositori, che spesso lo interrogano solo per metterlo in difficoltà, Gesù si ferma quasi sempre a spiegare, a mostrare un altro punto di vista sulle cose: con pazienza, senza nulla concedere all’imbroglio, alla falsità, all’accomodamento.
  • Le sue parole hanno l’autorevolezza dell’umiltà: quella che non teme di ascoltare, di lasciarsi contestare, di spiegare ripartendo dall’inizio, come nel caso dei due «stolti e tardi di cuore» che se ne vanno sulla strada per Emmaus (cf Lc 24,13-35). Parole che si impongono non con arroganza, o con un’autorità violenta e in­discutibile, ma l’atteggiamento di chi non ha paura del dialogo, della discussione, del confronto.
  • Gesù parla di Dio con il linguaggio della vita quotidiana. Gli at­tuali linguaggi della fede sono totalmente irrilevanti per la ge­nerazione giovanile, abituata al linguaggio aspro legato alle tec­nologie, o quello sempre un po’ eccessivo delle emozioni. Potrà interagire con loro il linguaggio ecclesiale così preciso e tuttavia così astratto; così deduttivo e lontano dalla vita di ogni giorno? Gesù con i contadini ha parlato di semina, di grano, di zizzania; con i pastori ha parlato di pecore, di agnelli e di pastori; con le donne ha parlato di farina, di lievito, di acqua… parole sempli­ci e intense, capaci di racchiudere al tempo stesso la grandezza semplice della vita e il mistero di Dio. E allora, anziché cerca­re ostinatamente di accostare i giovani con i linguaggi codificati della dottrina, perché non mettersi in ascolto del loro modo di esprimersi? Perché non accontentarsi di metterli in contatto con il cuore della fede, che è il Signore Gesù, e affidare loro il compi­to di esprimere il mistero esistenziale del loro incontro con Lui? E affidare loro il compito di raccontare la vita, la loro vita, nella forma che prende dopo l’incontro con il Signore Gesù?

Molti altri sono gli aspetti dello stile educativo di Gesù che sareb­be utile sviluppare.

Come si può vedere, si tratta di uno stile da cui hanno da impa­rare gli educatori alla fede, ma da cui ha da imparare ogni educatore che voglia essere immagine trasparente del Signore di cui è testimo­ne in famiglia o nella scuola; ogni educatore che voglia semplice­mente essere efficace.

  1. Essere educatori cristiani

Gesù ci dice che l’educazione non può che portare a Lui ma al tempo stesso ci si propone come il punto di riferimento per ogni educazione alla fede e per ogni educazione cristianamente ispirata, modello per ogni educatore. La sua azione, il suo stile educativo, il suo rapporto con le persone costituisce il paradigma di un modo di educare in cui i cristiani dovrebbero essere maestri, perché hanno il Maestro dal quale apprendere.

Gli educatori oggi vivono un momento di difficoltà grave. Non è questo il luogo per affrontare questa questione, tuttavia non si può trascurare di trarre una conseguenza da ciò che è stato detto sino a questo punto. E lo faccio a partire da un interrogativo: è possibile che gli adulti di oggi, culturalmente così lontani dalla generazione giovanile, possano essere dei maestri per il percorso di fede dei gio­vani? La fede che essi insegnano o propongono non può rischiare di avere forme – linguaggi, comportamenti, stili, interessi… – troppo lontani dalla sensibilità o dalle culture dei giovani di oggi?

Vengono alla mente, allora, parole divenute celebri di Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volen­tieri i testimoni che i maestri» (EN 41). La testimonianza è la parole più efficace che gli educatori di oggi, e in primo luogo gli educatori alla fede, hanno a disposizione per il loro compito o la loro missio­ne. Il testimone fa vedere e il suo insegnamento assume la forza plastica del gesto. Naturalmente ciò che il testimone fa vedere deve avere il fascino di un’umanità intensa, bella, realizzata, piena. Deve mostrare che l’incontro con il Vangelo trasforma la sua umanità e le fa assumere l’armonia con cui essa è uscita dalle mani di Dio. Edu­catori che fanno vedere il Vangelo; che ne mostrano il fascino; che attivano energie interiori che rendono capaci di interpretare oggi, in modo creativo, in profili culturali forse inediti la forma della vita cristiana.

Gesù ha attratto le persone a sé con le sue parole e soprattutto con i suoi gesti, molto più efficaci di ogni discorso: ha fatto vedere il volto di misericordia del Padre, con la sua misericordia verso le per­sone; ha detto che Dio è amore, mostrando i tratti di una vita fatta tutta amore, fino al dono totale di sé; ha mostrato il suo interesse per le persone accogliendo senza giudicare, ascoltando, facendosi vicino a tutti.

Sono i pensieri che ci accade di fare in questi giorni davanti allo stile di Papa Francesco, che ci fa vedere pagine di Vangelo trasfor­mate in gesti di oggi, gesti nei quali resta intatta la fragranza del Vangelo e al tempo stesso si manifesta l’intensa umanità di cui le persone di oggi hanno desiderio e da cui si lasciano convincere. È lo stile di una paternità calda e accogliente, che sa esprimersi con parole calde ed essenziali, intense e vere e sa fare intuire la tene­rezza di Dio.

Oggi forse non possono più esservi maestri, nel senso tradiziona­le cui siamo abituati, ma solo compagni di viaggio che, con grande capacità di ascolto e a partire dalla loro esperienza umana e reli­giosa, sanno mettersi in ascolto di tutti e in ricerca con i giovani, nell’umiltà di un’incessante ricerca di Dio. Dunque testimoni!

 

Note

1 G.B. Montini, Omnia nobis est Christus, Lettera pastorale all’arcidiocesi di Milano per la Quaresima 1955.

2 Cf A. Matteo, La prima generazione incredula, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2010.

3 Cf A. Castegnaro (ed.), C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Marcianum Press, Venezia 2010.

4 Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, n. 6.5.

5 Cf Discorso di Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona.

6 «Non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!», in NMI 29.

7 A. Casati, Incontrare Gesù, in http://www.domenicanipistoia.it/commenti.htm; Ib., Incontri con Gesù, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI), 2010.