N.06
Novembre/Dicembre 2013

La dimensione contemplativa della vita

  1. Alla radice del termine contemplazione: essere insieme nel tempio

Dei primi discepoli Luca dice che «erano perseveranti insieme nel Tempio» (At 2,46). È questa la collocazione ideale da cui muoveva la vita della Comunità di Gerusalemme, il loro agire, il loro pregare, la fraternità che cresceva e si faceva promotrice della “via nuova” e strumento fervente dell’annunzio della Buona Novella1. Da qui sono partiti i primi con l’evento della Pentecoste e qui è il richiamo costante a tornare. Perché, come dice il Salmo, «chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente» (Sal 90,1). Da questa posizione, commenta E. Bossuet, «dall’alto di questo rifugio incrollabile il mondo sembra piccolo, esso è visto ormai in ben altra maniera di quanto lo veda la maggior parte degli uomini»2.

L’“essere nel tempio” rimanda al tempio che fin da epoche remote “raccoglieva” i fedeli, sia pagani che ebrei, per atti cultuali; evoca anche la colonna di nube che invase il Tempio di Gerusalemme dimorando in esso. La contemplazione ha dunque un prezioso riferimento al tempio e questo è un dato importante, da trattenere, perché getta luce sulla fede, la quale, come scrive il Papa nella Lumen Fidei3, «non si configura solo come cammino, ma anche come l’edificazione, la preparazione di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri» (LF 50), una casa, che è il luogo dell’intimità e dell’amore scambievole, luogo dove la famiglia mangia e vive insieme: «Così mettiamoci insieme sulla via della carità alla ricerca di Colui del quale è detto: cercate sempre il suo volto»4.

  1. Contemplazione: desiderio di reciproca in-abitazione tra Dio e l’uomo
  • Dalla creazione: il vedere di Dio suscita alla comunione ed è corrisposto dall’uomo…

Il tempio esprime il desiderio dell’uomo di avere un suo dio e insieme manifesta il desiderio di Dio di dimorare con l’uomo (cf Sap 6,12ss.) ed è meraviglioso scoprire la conferma di quanto il desiderio di Dio sia innato nell’uomo e quanto Dio stesso se ne faccia carico fino al compimento pieno. È un dialogo, “un appellarsi reciproco” che affonda le sue radici nei millenni, che risale agli albori della creazione quando Dio, chiamando all’esistenza cose e uomini, disse:

«“Sia la luce” e la luce fu. E Dio vide che era cosa buona…

E fece l’uomo a sua immagine e somiglianza: E vide che era cosa molto buona» (Gen 1,1-31).

Il contemplare di Dio è il suo creare per suscitare un interlocutore che partecipi al suo stesso sguardo e col quale intessere una relazione di comunione. In questi albori felici Dio camminava con l’uomo e quando l’uomo infranse violentemente e drammaticamente l’ordinamento che regge l’universo e il peccato si insediò accovacciato alla sua porta, Dio pose l’arcobaleno quale segno dell’Alleanza stabilita tra Lui e ogni carne che è sulla terra (cf Gen 9,17). E ad essa resta fedele.

  • …all’iniziativa del Figlio che si incarna per guarire la cecità dell’uomo.

La compiacenza di Dio che “vede” la bontà insita nelle cose da lui create e ne gioisce, cerca sempre il tu, l’immagine, la risposta e nel consesso dei Tre decide l’Incarnazione. «La fedeltà di Dio si iscrive fra la caduta e il riscatto dell’uomo, tra la domanda accorata di Dio ai suoi figli: Dove sei…. Che hai fatto” e la risposta del Figlio unigenito al suo entrare nel mondo: “Ecco Io vengo!”»5. Il Figlio assume la carne creata per “intercettare” l’uomo caduto nella rete di morte del peccato che ha offuscato la sua vista e ottenebrato il suo cuore, rendendolo diffidente nei confronti di Dio: così «il movimento di amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito percorre la nostra storia: Cristo ci attira a Sé per condurci al Padre» (LF 59).

Luca ci racconta questo dramma con la cosiddetta parabola del figliol prodigo, che potremmo rinominare “la parabola dello sguardo smarrito e ritrovato”. L’esperienza della lontananza acuisce la nostalgia della casa paterna e il giovane deluso e sconfortato decide di tornare alla sua vecchia situazione di benessere. Ma il padre lo precede e lui che sa cosa c’è nel cuore del figlio si afferma protagonista principale della vicenda e muta la situazione di fallimento del figlio in possibilità di recupero del suo stato originario nella casa paterna.

C’è qui l’incontro tra la libertà perfetta di Dio e la libertà defettibile dell’uomo, la cui condizione creaturale lo pone sempre nel bisogno di un sostegno, di un supplemento di luce, di una strada su cui camminare, di una vita di cui vivere e di un amore vero a cui donarsi. L’incontro riuscito di queste due libertà sana il valico presente, accende la scintilla dello stupore, della contemplazione, che “coglie” il Bene che lo attende e accetta la possibilità di raggiungerlo. In questo lampo di immedesimazione che scalda il cuore e illumina di conoscenza nuova, è racchiuso tutto quanto possiamo intuire di Cristo, Via, Verità e Vita, e della gratitudine che ne fiorisce. Lo sguardo di Dio che segue da lontano penetra l’abisso che è in noi e in Gesù ci chiama a partecipare al suo sguardo, al suo operare per recuperare lo splendore da cui siamo caduti e ristabilirci in esso.

Entrare, guardare attraverso lo sguardo di Dio è quell’atto che chiamiamo contemplazione ed estendere questo sguardo a tutta la vita è liberarsi dalle schiavitù del passato, acquisire la contemplazione come dimensione di vita e fare dell’esistenza un vivere secondo il Progetto di Dio, percependo l’intera realtà cosmica secondo le coordinate d’amore iscritte in essa dal Creatore. Questo sguardo si affina nella misura in cui ci avviciniamo e facciamo nostro il pensiero di Cristo ad immagine del quale tutto è stato creato in cielo e sotto terra (cf Col 1,12-19). COME ci si allena a questo sguardo? DOVE avviene questa Verità?

2.1 Un atteggiamento previo: dietro all’Umile Gesù

Vorrei restare nella memoria che Gesù ci ha lasciato di sé e seguire questo solco. Gesù ci dice che la comprensione della via da seguire per stare con lui è possibile soltanto a chi retrocede dietro a lui col desiderio di seguirlo per imitarlo e somigliargli più strettamente (Gv 5,44). Questa è la prima conversione, il primo passo: convertirsi all’amore del Regno come lo vede Gesù, mite ed umile di cuore (Mt 11,29), e mettersi all’ultimo posto per sapere come Dio è (1Gv 3,2) e divenire simile a quel Dio che egli vede nell’umiltà del Figlio (Gv 17,3).

E i primi, come hanno vissuto nella memoria?

2.2 Concordi nella frazione del Pane e nell’ascolto della Parola

Gli Atti ci dicono che «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti avevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. (…) Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore» (4,32-33; 2,42-43).

La vita di Gesù, la buona notizia di ciò che ha detto e fatto, «quell’atto di amore che ha generato nel mondo una vita nuova, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni. È conservato vivo nella Chiesa» (cf LF 38) e ci è trasmesso per tutto l’arco della vita attraverso i Sacramenti e quotidianamente nella vita liturgica. Qui vive Gesù e qui si avvicina a noi in modo sicuro e “vedere” la realtà che si compie, vederla alla sua sorgente, è la seconda conversione a cui ci conduce l’ascolto della Parola. «Credere e vedere s’intrecciano, dice Papa Francesco, e grazie a quest’unione con l’ascolto, il vedere diventa sequela di Cristo e la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità. Come si arriva a questa sintesi tra l’udire e il vedere? Gesù si vede e si ascolta se si penetra, come gli apostoli, nelle profondità di quello che si vede e ascolta. Toccati nel cuore nasce la luce dell’amore, ricevendo così la presenza interiore dell’amato, che ci permette di riconoscere il suo mistero (…). Contemplando l’unione di Cristo con il Padre, anche nel momento della sofferenza più grande sulla croce (cf Mc 15,34), il cristiano impara a partecipare allo sguardo stesso di Gesù» (cf  LF 30-31.56).

  1. La vita liturgica: il vedere e l’udire aprono a Dio e ai fratelli

Il Papa nella sua prima Enciclica ci offre alcune tappe per vivere nello Spirito di Gesù. La prima è l’invito ad entrare nel mistero che professiamo col Credo e a lasciarci trasformare da esso «perché Dio comunione, scambio di amore tra Padre e Figlio nello Spirito abbraccia la storia dell’uomo per introdurlo nel suo dinamismo di comunione, che ha nel Padre la sua origine e la sua meta finale» (LF 45). Coinvolto nella verità che confessa, l’uomo è reso parte di una comunione più grande e qui – ecco la seconda tappa – Gesù stesso ci dà un mezzo per sanare la nostra vista dicendoci esplicitamente: quando vuoi pregare di’ così:

Padre nostro. In questa preghiera, modello di ogni preghiera secondo i Padri della Chiesa, «il cristiano impara a condividere la stessa esperienza spirituale di Cristo e incomincia a vedere con gli occhi di Cristo e a vivere un modello nuovo di vita che aiuta ad uscire dal deserto dell’“io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portarla agli altri» (cf LF 46). «È necessario contemplare incessantemente la bellezza del Padre e impregnarne l’anima»6 per riprodurne l’effige. Per questo Agostino prega: «Che io conosca Te, che io conosca me!»7.

Queste due tappe le troviamo nella Liturgia, dove, all’uomo che chiama, Dio risponde: «ECCOMI!». Qui cessa la povera parola umana e Dio è pregato con parole e gesti dettati da lui. Qui avviene ciò che non ci si aspetta: la ripetitività dei gesti e delle formule porta all’unità del cuore umano la molteplicità delle sue esperienze fino a cogliere, a “vedere” la Realtà Vera che sottostà a tutto. In essa avviene lo scavo del desiderio, l’intelletto è purificato dalla curiosità che cerca novità e il cuore trova la verità cui anela l’incompiutezza dell’immagine.

Nella Liturgia inoltre si ascolta la Parola che nutre, che fa crescere e converte.

A questa mensa, approfondita nella lectio personale e nella preghiera, l’uomo sperimenta la bella verità semplice delle cose, impara a scoprire la sapienza delle cose nuove e antiche, l’inganno dell’ansia di vivere in proprio e la fretta di possedere e godere dei beni donati, l’illusione di essere autosufficiente che sprofonda nella carestia più nera, e al fondo di tutto l’uomo scopre che lontano da Dio perde se stesso, la bellezza del suo essere figlio e sperimenta l’amarezza più totale perché la strategia del piacere ad ogni costo tradisce un’angoscia mortale (Lc 15,11-32).

Alla mensa della Parola e dell’Eucaristia inoltre «si trova l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile. Nell’Eucaristia impariamo a vedere la profondità del reale e nella trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo, ci introduce, corpo e anima, nel movimento di tutto il creato verso la pienezza in Dio» (LF 44); e pian piano giungiamo a cambiare il nostro modo di vedere Dio stesso, a spostare il nostro centro di azione per misurarci con le modalità di Dio se non vogliamo restare nel non amore, lontani dal Padre a sperperare i beni nella regione della bruttezza e dell’ignoranza.

Essere figli è la perla preziosa nascosta nel campo del cuore dell’uomo, è il talento che Dio ci ha dato e il riconoscerlo come il bene da far fruttificare, il tesoro da custodire, è raccogliersi dallo sperpero e liberarsi dalla prigionia del non senso. Agostino e tanti altri ci raccontano dell’amarezza per l’essersi invaghiti di sé e impossessati dei doni ricevuti gonfiandosi di morte!

E domandiamoci ancora: c’è una via per restaurare e restare nella figliolanza?

  1. La via dell’interiorità
  2. Agostino nella sua Regola ammonisce: «Quando cantate Inni o Salmi, meditate nel cuore quanto proferite con le labbra» (n. 12). È sicuramente necessario superare la soglia della sensibilità e della sensualità per portarsi interiormente alla soglia dell’azione di Dio, lasciarsi penetrare, portare dallo Spirito e affidarsi. Incontrarsi ed incontrare in quel punto interno che attinge la Risurrezione e da cui scorre lo Spirito in noi, in quel centro in cui Dio ci attende perché invada tutto e tutti.

La via è il cuore e l’amore che vede. «Il cuore è il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. È il luogo della decisione e della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’alleanza»8. Per questo S. Agostino, che ha conosciuto il lungo vagare fuori dal suo cuore, esclama: «Rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi Colui che ti ha creato? Rientra nel cuore: lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo, nella tua interiorità vieni rinnovato secondo l’immagine di Dio: nell’immagine di Lui riconosci il tuo Creatore»9.

Riusciremo a passare la porta del cuore?

«Dio è la casa paterna dell’anima perché da lui creata»10 e qui l’uomo deve tornare se non vuole restare nel suo dramma, preda di una insanabile inquietudine. «Caduto da Dio, cadi anche da te stesso», ammonisce ancora Agostino. «In Lui c’è il tuo appoggio, a Lui avresti dovuto aderire e in Lui trovare il tuo rifugio e la tua fortezza. Invece hai allentato o peggio rotto il vincolo dell’amore che ti legava a Lui e così non stai fermo neanche in te stesso»11.

Il cammino della vita interiore da cui scaturisce la dimensione contemplativa della vita, è un cammino di ritorno ad essere figli, di recupero graduale dell’innocenza originaria. Lo dice Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli». Vita interiore quindi significa Gesù Cristo, significa uomo totalmente rifatto dal Vangelo, restituito alla sovranità su se stesso, al dominio di sé secondo l’immagine del Figlio, che ha superato il dualismo tra interiore ed esteriore, fede e vita, l’opposizione tra escatologia e storia.

«L’uomo in Cristo vive dalla fede la sua vita e l’escatologia è in realtà misura e criterio d’esistenza» (M. Alessandra Macajone OSA). «Nella casa del Signore non si celebra una festa che passa, il volto di Dio Presente dona una letizia che mai viene meno»12. E non è forse questa letizia della celebrazione eterna che rese ebbri gli Apostoli nel Cenacolo? Da quella esperienza di fuoco vennero trasformati in testimoni del Risorto e da allora, insieme con gli altri – come già detto – vivevano della Parola, frequentavano il Tempio, spezzavano il pane insieme e la carità fraterna faceva di loro un cuore solo e un’anima sola.

  1. COR UNUM et ANIMA UNA in Deum: la novità dello Spirito del Risorto

L’esperienza del Cor Unum ha marcato l’esperienza della Chiesa degli inizi ed è rimasta sua misura ideale perché, come dice il Cardinal Ratzinger, «la tensione dei molti soggetti entro un unico soggetto appartiene per natura sua al dramma mai compiuto dell’incarnazione del Figlio»13. Questa tensione inizia con la chiamata di Abramo ad uscire dal suo paese per andare verso «il paese che io ti mostrerò!» (Gen 12,1-3) ed ha il suo culmine nel nuovo centro di attrazione che è la croce (cf Gv 12,31).

Precedentemente abbiamo parlato della Liturgia e visto che ciò che in essa comincia – immetterci nella “memoria” lasciataci da Gesù – si sviluppa oltre di essa: oltre verso l’Altro e oltre verso gli altri.

La celebrazione eucaristica e la Liturgia delle Ore modellano così il Cor Unum et Anima una in Deum quale spazio aperto in cui tutti possono reciprocamente incontrarsi, insegnano a coniugare il cantico della lode e del servizio, sostengono nel cuore la fede ardente, la carità sincera e la speranza certa che inducono ad imparare da lui che è mite ed umile di cuore e a riconoscerlo nei poveri e nei piccoli in cui si nasconde e ci attende.

«È l’amore che distingue i santi dal mondo, e unanimi li fa abitare in quella casa dove fissano la loro dimora il Padre e il Figlio, che effondono il loro amore su coloro ai quali alla fine si manifestano. Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, vengono a noi quando noi andiamo a loro: vengono a noi soccorrendoci, noi andiamo a loro obbedendo; vengono a noi illuminandoci, noi andiamo a loro contemplandoli; vengono a noi riempiendoci della loro presenza, noi andiamo a loro accogliendoli. Essi non si mostrano a noi in modo esteriore, ma interiore, e la loro dimora in noi non è transitoria, ma permanente»14.

Il Cor Unum et Anima una in Deum – altro nome di Chiesa – è il Bene comune a cui contribuiamo nella misura in cui vi partecipiamo. L’atteggiamento di progressiva espropriazione è indispensabile: abbandonare il privato per entrare nello spazio dello Spirito che tutti ci attraversa e attrae verso il Padre nel ritmo di morte-risurrezione del Cristo. Dio entra nel mondo tanto quanto entra nei cuori, investe le relazioni, trasforma le Comunità dal di dentro: «Manteniamoci fedeli al comandamento del Signore di amarci gli uni gli altri, e osserveremo tutti gli altri comandamenti compresi in questo. Il Signore aggiunge: Come io ho amato voi. E perché ci ama Cristo se non perché possiamo regnare con lui? A questo fine dunque noi dobbiamo amarci, al fine di possedere Dio. Coloro che si amano al fine di possedere Dio, si amano davvero: per amarsi, amano Dio. Questo amore non esiste in tutti gli uomini: sono pochi, anzi, quelli che si amano affinché Dio sia tutto in tutti»15.

  1. La dimensione contemplativa della vita: compito e profezia della comunità cristiana

Il discepolo vede perché crede e ascolta, e alla fede che cerca il suo Signore, Gesù stesso risponde: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete e ascoltate!» (cf Lc 10,23-24). E il profeta dice: «Coraggio, popolo mio, tu memoria di Israele» (Bar 4,5). «Furono dunque gli Apostoli i primi ad ascoltare le parole: Ecco quanto è buono e giocondo che i fratelli vivano nell’unità! Ma non restarono soli. Si propagarono anche tra i posteri tanto la gioia frutto della carità quanto il voto fatto a Dio»16.

È questa la funzione dei Monasteri, delle Comunità religiose e, a sempre più vasto raggio, di ogni Comunità, ogni gruppo che si riconosce nel nome di Gesù nella sua Chiesa. A noi Comunità agostiniane il Beato Giovanni Paolo II disse: «Siate ciò che la Chiesa è». Credo che ad ogni Comunità incomba questa missione, come dice il professor R. Mancini: «Le Comunità cristiane, assumendo la loro originalità come responsabilità e tesoro da condividere, hanno da offrire al mondo un’illuminante energia di fiducia, la forza senza la quale nessun cammino può compiersi e neppure essere intrapreso. È la fiducia che, nel suo riguardare insieme Dio e l’umanità, nasce dalla promessa di salvezza di Dio stesso e dall’incarnarsi di questa promessa in Cristo. Da parte sua il monachesimo, se vissuto con piena responsabilità creaturale, rappresenta una profezia della dignità e della qualità proprie dell’intera comunità umana»17. Da qui scaturisce la loro vocazione a luoghi in cui la vita vista, sperimentata circola, si fa visibile, spazi che offrono il bonum, emanano il buon profumo di Cristo, perché animati da uomini e donne che, innamorati della bellezza spirituale vivono liberi nella Grazia18. «Uniti nella carità fraterna, rendono reciprocamente il loro onore a Dio, del quale sono divenuti tempio»19.

 

NOTE

1 Cf G. Ravasi, Ritratti di Chiese. Splendori e miserie delle comunità del Nuovo Testamento, Ancora, Milano 2000, p. 30.

2 G. Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. II, EDB, Bologna 2008, p. 901.

3 Da ora in avanti sarà indicata con LF.

4 S. Agostino, La Trinità, I, 3,5.

5 Catechismo della Chiesa Cattolica, LEV, Città del Vaticano 1993, n. 2568.

6 Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., n. 2783.

7 S. Agostino, Soliloqui, 2, 1.1.

8 Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., n. 2563.

9 S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, XVIII, 10,11.

10 S. Agostino, La grandezza dell’anima, 1,2.

11 S. Agostino, Discorsi, Wilmart, MA, p. 676.

12 S. Agostino, Commento ai Salmi, 41, 9.

13 Benedetto XVI (J. Ratzinger), Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli Edizione, Siena 2003, p. 74.

14 S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 76, 2.4-5.

15 Ivi, 83,3.

16 S. Agostino, Commento ai Salmi, 132, 2.

17 R. Mancini, La comunicazione come responsabilità creaturale, in «Vita Monastica», LVII (2003), 1.

18 Cf S. Agostino, Regola, n. 48.

19 Ivi, n. 9; cf Confessioni: «O se gli uomini vedessero l’interno eterno!».