N.06
Novembre/Dicembre 2013

Vita contemplativa come chiamata

Nella molteplicità dei doni e dei carismi che lo Spirito dona alla Chiesa, Corpo mistico di Cristo, la vita contemplativa ha sempre avuto il suo posto e mai ci si è pronunciati sul suo decadimento o sulla sua inutilità, anche se essa rimane un mistero suscitato dallo Spirito e nato spontaneamente, riconosciuto, ma non organizzato dalla gerarchia. Voglio subito dire che parlando di vita contemplativa so di usare un linguaggio improprio, anche se è utilizzato nel senso in cui lo utilizzerò sia dal Codice di Diritto Canonico che da molti altri atti ufficiali della Chiesa e del Magistero comune. In genere, infatti, questa espressione, ambigua e inesatta, è usata per designare i monaci e le monache nella Chiesa. Parlerò, dunque, indifferentemente di vita contemplativa o di vita monastica, di contemplativi o di monaci e di monache cristiani.

  1. Chiamati ad un rapporto relazionale con Dio

L’argomento della chiamata alla vita contemplativa si inserisce naturalmente in un altro ben più vasto che è quello della chiamata o “vocazione” che il Signore rivolge all’uomo. È nella Rivelazione ebraico-cristiana, che noi chiamiamo Sacra Scrittura o Bibbia (dal nome del libro che raccoglie le parole di Dio dette attraverso i secoli in molte e svariate maniere – cf Eb 1,1 –), che maggiormente conosciamo questo rapporto relazionale voluto da Dio e proposto all’uomo nell’attesa di una risposta.

Il libro della Genesi dice che fin dall’origine dell’uomo, creato libero e cosciente, il Creatore supera la distanza fra infinito e finito per interpellare la creatura ed avere un dialogo, una intimità, se non un’amicizia con lui. La storia che si svolge e vede la crescita dell’uomo vede anche l’approfondirsi e il chiarificarsi di questo dialogo che spesso ha la forma di una chiamata-risposta, sia che il Signore chiami l’uomo ad una sequela per giungere alla felicità, sia che nella sua povertà di creatura, che diventa sovente addirittura miseria, l’uomo e la donna chiamano Dio per avere un aiuto, una luce, una consolazione, la forza per vivere attraversando le vicissitudini drammatiche e in genere inspiegabili della vita.

La “vocazione” si inserisce dunque in questo dialogo che non può interrompersi, malgrado i rifiuti e le ribellioni dell’uomo, e le sfide dei silenzi di Dio. Per un cristiano, come per un membro del popolo di Israele, non si può pensare a tutto ciò che è trascendente senza tener conto e voler approfondire questo aspetto. Dio non lo si pensa, è cosa impossibile, lo si cerca o/e lo si incontra. Certo, l’uomo biblico si interroga su Dio, riflette ed è capace persino di imbastire veri e propri processi pieni di interrogativi, recriminazioni o lode stupita, come Giobbe e tanti profeti e salmi, ma alla fine si deve giungere all’adorazione di chi scopre che non è possibile definire Dio, conoscerne i pensieri e il segreto. Solo in una risposta attraverso la quale ci si lascia condurre, offrendo volentieri la propria libertà, si può vivere una risposta che fa entrare nell’amicizia con Dio, che fa scoprire la sua paternità e la grandezza del mistero della salvezza portata dal Figlio Unigenito e operata dallo Spirito d’amore. Il massimo del “sì” alla proposta di dialogo che il Signore rivolge all’uomo è lasciarsi attirare senza meriti, ma con piena adesione, nel cuore della Trinità, nel dialogo delle tre Persone divine, nella pura gratuità di entrambe le parti che danno all’altro tutto se stesso, che questo avvenga nel seno della Trinità stessa o fra il Creatore – che si fa Salvatore – e la creatura che si scopre bisognosa di salvezza, la implora e l’accoglie con gioia ed entusiasmo meravigliati. È ciò che ci insegna Maria nel Magnificat, cantato e danzato dopo la Rivelazione del piano di Dio che si compiva in lei e che attraverso di lei coinvolgeva la cugina e tutta l’umanità.

  1. La risposta “contemplativa” dell’uomo all’Assoluto

Lo sguardo di Dio che si rivolge all’uomo ha una carica assoluta: Egli è fedele nel darsi e non cambia decisione. Il suo dono è totale ed è rivolto al puro bene del singolo in armonia con quello di tutta l’umanità, perché in Dio non ci sono contrapposizioni. Il bene comune è il bene del singolo e il Signore lo conosce, lo vuole e lo opera. A questo assoluto risponde l’assoluto dell’uomo che vive nel cuore delle sue fragilità. C’è una inconsistenza nell’uomo che potrebbe non permettergli una vera risposta alla chiamata di Dio, ma la Grazia viene in aiuto alla debolezza umana perché l’uomo possa essere fedele e rispondere all’Assoluto. Questo fa sì che l’uomo è chiamato a rispondere all’invito con una verità e una forza che per la natura umana sono qualcosa di assoluto.

Alla proposta eterna di Dio, che è unicamente amore, l’uomo risponde con una risposta che tesse la sua vita nel tempo; una crescita verso la risposta assoluta, unica degna di poter essere rivolta all’Onnipotente. E questa risposta è un sì detto nell’abbandono e nella fiducia, nella fede che in ogni modo è il bene per noi, per ciascuno e per tutti i fratelli e sorelle del mondo intero. Questo ci fa comprendere che in ogni caso una risposta di comunione a Dio non può che essere contemplativa, cioè totalizzata dalla Persona a cui la si dà in una gratuità che sola può rispondere al Dio che ci ha amati per primo, indipendentemente dal suo operare.

Una vocazione e una risposta non possono essere principalmente orientate ad una azione, ad un fare. Dio non ci chiama per fare, anche se nel nostro cuore può suggerirci, ed in genere ci suggerisce, le modalità con cui possiamo, se lo vogliamo, rispondere al suo invito. Dio è Amore e non può che invitare ad una risposta di amore coinvolgente e personale, gratuito: perché Dio è Dio.

In ogni caso il rapporto fra Dio e l’uomo è un rapporto nuziale, di cui il sacramento del matrimonio cristiano è il segno che realizza attraverso l’amore di due persone l’unione sponsale fra Dio e l’uomo, il Verbo che sposa indissolubilmente la carne umana in una fedeltà che va fino alla risurrezione.

Non ci si sposa per un qualche progetto, ma per poter amare fino a legarsi, a dare la propria vita, la propria autonomia, la propria libertà perché la chiamata dell’“altro” è più grande, più seducente, più realizzante; per questo il matrimonio è un sacramento della salvezza, perché attualizza il mistero delle nozze di Cristo con la Chiesa avvenuto nell’Incarnazione e nella Risurrezione. La stessa vocazione religiosa è contenuta in questo mistero.

  1. La chiamata alla vita contemplativa

Ogni vocazione porta, dunque, in sé un aspetto contemplativo, cioè di sguardo assoluto verso Dio, sguardo che si lascia totalizzare, perché non è possibile mettere Dio in serie con altre cose, progetti, amori; una vocazione o ha questo aspetto contemplativo o non è una chiamata di Dio.

Nella Chiesa, però, ci sono vari ruoli, posizioni, membra di un corpo solo, che tutte insieme vivono la vita del Cristo, il Figlio del Padre, il Verbo sempre volto verso il Padre che «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito santo si è fatto uomo nel seno di Maria Vergine».

La vocazione che più particolarmente è chiamata “contemplativa” non è dunque una vocazione a parte, una vocazione speciale, anzi, è quella che testimonia e vive la vocazione di tutti dicendo che «una cosa sola è necessaria» (cf Lc 10,42) e che tutte le altre senza questa si svuotano in un fare, servire solo dei progetti non accogliendo Cristo come colui che è servito nei fratelli, nei poveri, negli assetati di vita. La vocazione alla vita contemplativa è, in caso, una vocazione cristiana senza specificità, una chiamata e una missione senza “per far questo o quello”, ma solo per rispondere all’Amore con uno slancio di amore che unifica tutte le forze dell’uomo o della donna.

«Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17,18): questo interrogativo di Gesù mostra quanto il rendere gloria a Dio, ascoltarlo, accoglierlo in casa propria e lasciarsi guarire, cioè trasformare dalla sua parola e dalla sua presenza, è qualcosa che precede in urgenza perfino l’osservanza della legge («andate a presentarvi ai sacerdoti») e che per fare questo occorre essere “stranieri”. Il cristiano, pur amando come Dio il mondo e pur dando la sua vita per la salvezza dei suoi fratelli, rimane uno straniero, qualcuno che parla un linguaggio che “il mondo” non capisce, che ha modi di fare e di relazionarsi non del tutto conformi alla buona società in mezzo alla quale lavora.Oggi lo stiamo riscoprendo, dopo secoli di illusione, che il mondo, almeno quello occidentale, fosse ormai definitivamente cristianizzato. Come è solito fare, il Signore chiama gli uomini a significare, chi in un modo, chi in un altro, la missione del Figlio Salvatore. La chiamata alla vita contemplativa, cioè ad una vita che sembra tenersi ai margini della città attiva, è un segno per tutti del fatto che Dio è Dio, che è ciò che per l’uomo è più importane e che va amato per primo, come lui ci ha amati per primo, e che senza di lui non possiamo far nulla (cf Gv 15,5).

  1. L’unico desiderio: stare con Dio e per Dio solo

Gli uomini sono chiamati ad essere tutti una sola cosa come Gesù e il Padre sono una sola cosa, e questo nella vita contemplativa è particolarmente significato dalla vita cenobitica, dal vivere insieme come fratelli e figli di un unico Padre; pur sembrando separati da tutti, i contemplativi sono strettamente uniti a tutti perché vivono con tutti la missione di ciascuno ancorandola alla fonte che è il Dio Amore trinitario. La vocazione contemplativa pone nel cuore dell’uomo e della donna questa ansia, questo desiderio di assoluto per consegnarsi interamente al Signore e trovare, nello stare con lui e semplicemente solo per lui, la possibilità di dire al Creatore, al Padre che ama e che salva: «L’uomo non è perso, eccolo, è venuto per adorarti». Per questo c’è un’urgenza di vivere i voti in modo forte, radicale, per non avere più uno spazio in cui ci sia posto per una preoccupazione di sé o per la ricerca di un interesse che distolga dal vivere per il Signore; come dice San Paolo: «Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; occuparsi delle cose che piacciono a lui» (1Cor 7,32). Neanche il bisogno di essere utile ai fratelli deve distogliere da questa attenzione, anche se il dovere della carità fraterna non diminuisce. Sempre i fratelli e le sorelle sono con noi: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8). Ma l’essenziale è stare con Dio e per Dio solo. Il resto può esserci o non esserci; tutto è vissuto a fondo perché il Signore ama e desidera essere amato, ci è presente e desidera la nostra presenza, ci guarda con benevolenza e desidera essere guardato con passione, anche se attraverso la “nube della non-conoscenza”. Il monaco e la monaca devono ben far attenzione a non cadere nella dimenticanza, nel perdere l’attenzione alla sola cosa necessaria, accettando di perdere tutto il resto, a rischio di diventare insignificanti, rami secchi o sterili nella Chiesa e nell’umanità.

  1. Il senso dell’assoluto

«Ecco l’uomo»: Pilato l’ha detto presentando Dio alla folla ostile. «Ecco l’uomo» lo dicono il monaco o la monaca stando davanti a Dio con tutti i fratelli e le sorelle in umanità, perché ormai sono spogli di ciò che è solo per sé, solo proprio, ciò che permette al singolo di vivere per ottenere lo sguardo di qualcuno che non è il Solo. Se il contemplativo non si spoglia di sé tanto da lasciar vivere in sé ogni uomo e ogni donna, ogni povero e quanti hanno perso il senso e la direzione della vita, diventa sterile. Non serve i fratelli e non sta a far nulla davanti a un Dio che non adora in spirito e verità. Non ci può essere un contemplativo mediocre: è un morto ambulante che fugge dallo sguardo di Dio e degli uomini. Certo, il suo desiderio di essere tutto fuoco, di quel fuoco che Gesù è venuto a gettare sulla terra (cf Lc 12,49), non è un punto conquistato, ma la meta desiderata. Essa però deve colorare tutta la vita. Questo è quello di cui il monaco o la monaca sono segno nella Chiesa. Nessun cristiano può pensare di poter desiderare meno, eppure nel cuore della Chiesa i contemplativi sono la profezia che il desiderio di un amore assoluto è possibile e che alla fine “saremo interrogati sull’amore”, cioè su quanto avremo saputo abbandonare noi stessi per aprirci totalmente all’amore di Dio.

Un segno non esclude gli altri percorsi, non afferma la riuscita di una vita, non dice che tutto è già conquistato, non reclama una corona di alloro. Un segno è qualcosa di silenzioso che sta in mezzo al consesso umano e non smette di dire una sola cosa, l’essenziale, quella che salva l’uomo. Come un pannello stradale dice che la direzione è quella e che passando da quella strada, adottando quel percorso si arriva. Il contemplativo è semplicemente un segno, non pretende di esser nulla di più, non vuole attirare su di sé nessuno sguardo; anzi, appena visto, lancia lo sguardo di chi lo incontra verso qualcosa di più grande e necessario, ben più bello e interessante. E quando vede che è presto dimenticato per lasciare il posto al suo Dio e che ha, in modo piccolo e umile, aiutato a incontrare il Salvatore, si sente pienamente realizzato.

Il senso dell’assoluto, della radicalità della verità della vita cristiana si riflette nella vita fraterna, nella quale con fratelli o sorelle, che non si sono scelti, ci si esercita ricominciando continuamente, senza stancarsi né scoraggiarsi, a servire Cristo nei fratelli e ad amarlo senza misura in particolare nei più piccoli e nei più difficili, abbassandosi gioiosamente per lavare i piedi di ciascuno, qualunque posizione si abbia nella comunità. È lo stesso senso dell’assoluto che fa sperare nella misericordia senza confini e senza misura del Signore. Il silenzio, la solitudine, la preghiera silenziosa e una lunga frequentazione della Parola di Dio, specialmente dei Salmi, mettono a nudo il cuore dell’uomo e provocano un istinto di fuga. Ma la forza dello Spirito che chiama a lasciarsi purificare totalmente mantiene stabili e coraggiosi nella lotta.

Lo stesso senso dell’assoluto fa sì che il contemplativo partecipi attivamente alla missione della Chiesa, pur non lasciando il suo chiostro. La carità e la forte appartenenza alla Chiesa fanno sì che non si possano tenere distanti, rimanere indifferenti o avere un senso di disprezzo per ciò che ciascun membro della Chiesa, fratello in Cristo, «ossa delle mie ossa e carne della mia carne» (cf Gen 2,23) vive e opera per l’annuncio del Vangelo e la salvezza dei fratelli.

Nessuno è estraneo a colui che si fa straniero per Cristo. La ricerca della continua presenza di Cristo rende presente in modo vivo ogni sospiro e ogni fatica di quanti si affaticano e lottano o sono in catene per il Vangelo. Con Paolo ogni monaco deve poter dire: «Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,29).

L’ideale della Chiesa, che è naturalmente l’ideale di ogni comunità cristiana, in particolare quella monastica, è quello del «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); questo non solo all’interno di una comunità particolare (ridurrebbe la comunità a una setta), ma nel cuore di tutta la Chiesa e di ciascuno dei suoi membri con cui si respira, sente, soffre e gioisce.

La costituzione conciliare Gaudium et Spes lo dice chiaramente: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1). Proprio perché la comunità monastica vuole e sa di essere una comunità cristiana, e ancor più una icona della Chiesa nella sua essenzialità, queste parole del Concilio Vaticano II un contemplativo e una contemplativa le fanno proprie e si riconoscono in esse.

La risposta alla chiamata di Dio, anche se nella stabilità e nella solitudine, nella vita silenziosa e nascosta, è sempre una risposta alla parola di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19- 20). L’immersione (battesimo) del mondo intero nella Trinità è il compito e la vita di tutta la preghiera dei contemplativi. Nella sua povertà, nella debolezza e nella fragilità di cui prendono sempre più coscienza, essi prendono la carne, cioè la debolezza e la fragilità, dell’umanità e insieme al Cristo, mite e umile di cuore, spogliato, crocifisso e risorto, la pongono nel cuore del Dio, vortice di Amore.

  1. Rispondere “volentieri” alla chiamata divina

Ogni vocazione – chiamata – richiede una risposta e quindi una relazione, un dialogo, che si fonda su una diversità, su una alterità. Questa risposta è certo una obbedienza nel Cristo obbediente fino alla morte e alla morte di croce, ma non è una vera risposta se non avviene volentieri, cioè con un atto di volontà, di amore sincero. La chiamata divina non può sopportare una obbedienza succube e passiva, di malumore. Nella Bibbia il “mormorare” (nel senso di protestare e mugugnare) è un pessimo peccato che provoca pene dolorose per il popolo. Il “sì” o è generoso e pieno di slancio gioioso, o è meglio sia procrastinato. “Volentieri” è la caratteristica dell’obbedienza cristiana, perché è l’obbedienza del Cristo, che pur gridando nell’angoscia dell’agonia: «Se è possibile allontana da me questo calice» (Mt 26,40), vuole solo fare la volontà del Padre, perché per questo è venuto, questo ha voluto nella comunione trinitaria e questa è la sua gioia, in quanto unica via per la salvezza dell’uomo. “Volentieri” comporta la capacità di iniziativa, quella che viene solo dall’amore, senza calcolo, senza mercanteggiamento. I contemplativi lo sanno bene: nella misura in cui si accetta volontariamente la mezza misura si diventa tristi. Eppure sanno bene che la loro condizione di fragilità e di peccato non permette loro di dare quanto vogliono dare. Ma anche questo è sorgente di gioia, perché insieme alla propria generosità e al proprio slancio fanno esperienza della tenerezza della misericordia divina. Amare senza misura (unica misura dell’amore) comporta questa umiltà dell’accettazione di se stessi, della pace con il proprio passato e i propri limiti, del limite dell’amore dei fratelli e delle sorelle, sapendo di non aver diritto a nulla e che l’amore è sempre e solo gratuito, e che in ogni caso quello di Dio non può mancarci.

Tutto ciò fa della risposta alla chiamata alla vita contemplativa una entrata in una vita spoglia, nuda, povera, in cui non si può pretendere nulla, ma si può avere il grande desiderio di corrispondere totalmente all’amore di Dio e di seguire, in modo non plateale, ma estremamente nascosto, Gesù. Maria, la Madre del Salvatore, è la prima discepola del Maestro vivendo nella sua vocazione totalmente nascosta e di rischio continuo della vita, di un amore pronto a dare tutto, compreso il proprio Figlio diletto, di compassione e di meravigliata esultanza, la risposta più completa e più totale alla chiamata divina. Il suo «Eccomi» ha avuto una forza così grande da poter riecheggiare nel cuore di tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi e, mentre lo diceva per loro, ha dato loro la capacità di dirlo personalmente.

  1. Da sempre nel cuore della Chiesa

In un mondo di grande relatività e di relazioni sfuggenti, rapide e presto bruciate, il fatto di prendere sul serio la doppia relazione a Dio e ai fratelli e di volersi liberamente legare è un segno della fedeltà di Dio all’umanità. Nessuno è meglio degli altri, ma qualcuno sa e vuole accogliere intensamente il dono di Dio, che è dono di fedeltà assoluta, attraverso e nonostante la croce, dono di un’amicizia che sa essere insieme paternità e sponsalità, dono di una presenza discreta e che non plagia, anzi, accresce la libertà e non tradisce né vuole possedere, che si dona semplicemente e in una gratuità assoluta.

La vocazione contemplativa nel cuore della Chiesa guidata dalla Parola di Dio, accolta in un ascolto obbediente e fedele, è sempre stata considerata essenziale alla Chiesa, anche se non è dovuta ad un sacramento, se non si fa carico di un ministero, se non ha autorità sui fedeli di Cristo, ma sempre e solo serve ad una tavola in cui il Signore «fa la Pasqua con i suoi discepoli» (cf Mc 14,14).

Nella notte vegliano le vergini sagge munite dell’olio della perseveranza e della speranza, della intensa e appassionata attesa dello sposo, pronte ad accoglierlo e ad entrare con lui nella sala delle nozze. Il Signore la trova illuminata dall’ardente attesa di chi è stato capace di vegliare nel buio, nell’oscura notte della fede. La sua presenza è la ricompensa per tante lacrime versate, ascesi sopportate, carità fraterna continuamente ripresa, preghiere sempre ricominciate; perché è lui il paradiso dei giusti, la terra promessa ai miti, l’acqua viva che disseta gli assetati nel deserto, il Padre di quanti hanno operato la pace in se stessi e intorno a sé.