N.03
Maggio/Giugno 2014

Io… ti do vita in abbondanza

A più di un anno dall’elezione di Papa Francesco, non manca chi traccia un bilancio del suo magistero. A me sembra che, se l’insegnamento di Benedetto XVI poteva riassumersi nelle parole fede-ragione, quello di papa Bergoglio possa racchiudersi nel binomio tenerezza-periferie.
Ovviamente questa sintesi è eccessiva. E come accade alle sin­tesi, soprattutto a quelle eccessive, può peccare di superficialità, ri­manendo in ogni caso opinabile. Sperando nella comprensione di chi legge, vorrei però adottare quelle due parole, tenerezza e periferie, come una sorta di parentesi, tra le quali collocare il dono della vita in abbondanza.
Nella tenerezza c’è non solo un modo di essere cristiani, ma in primo luogo l’esperienza dell’amore indicibile di Dio, che nella voca­zione trova il suo locus theologicus più pertinente. Nelle periferie c’è la tensione che dovrebbe animare costantemente ogni chiamata, pena l’insignificanza e la sterilità. C’è il motivo stesso per cui Dio si è fatto uomo. Tenerezza e periferie marcano il ritmo del cammino: quello di Dio verso di noi, culminato nel suo farsi carne e che ancora oggi sollecita la nostra ricerca del suo volto; e il cammino di Dio con noi, affinché il mondo continui a trovare vita e speranza nel Vangelo.

1. Un modo diverso di essere Chiesa
Se c’è un’immagine che sta a cuore a Papa Francesco, è quella della Chiesa che esce, che non si lecca le ferite né si piange addos­so; gli piace più questa Chiesa, a rischio d’incidente1, piuttosto che quella comoda e pantofolaia, che trova nelle porte chiuse il suo simbolo più eloquente (cf Evangelii Gaudium, n. 47).
Il motivo è presto detto. Lungi da ogni opportunismo, è il mondo che ha disperato bisogno di questa Chiesa. È qui il kairòs da discer­nere e decifrare, tirandone le conseguenze. Se il sospetto verso una qualsiasi grande luce, fosse anche quella della fede, ha finito per tenere accese solo quelle piccole e individuali, capaci di illuminare il breve istante, ma non più di aiutare a distinguere tra bene e male o di schiarire il senso del bene comune (Lumen Fidei, n. 3), ecco la terribile posta in gioco: accorgersi che c’è un uomo caduto nelle mani dei briganti, depredato di tutto, percosso a sangue e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (Lc 10,30). C’è la persona da recuperare, pur nella babele delle opinioni e nella penombra delle luci che restano. Non c’è alternativa a questa sfida, se non la globa­lizzazione dell’indifferenza e la cultura dello scarto, anche esse più volte denunciate da Papa Francesco.
Ecco allora uno stile di prossimità che deve innanzitutto animare dal di dentro l’operatore pastorale. E poi trasformare le nostre strut­ture. E ancora, segnare il passo della stessa Pastorale Vocazionale. Il n. 169 della Evangelii Gaudium lo dice come forse meglio non si potrebbe:
«In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stes­so, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo mondo i ministri ordinati e gli altri operatori pasto­rali possono rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacer­doti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tut­ti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana».
Già i soli verbi di questa affermazione delineano la “differenza” cristiana e la fatica di un’arte che non si smette mai di imparare: proprio perché l’altro è terra non solo sacra, ma unica, irripetibile, pur accomunata con la mia dall’humus della fraternità.
Giustamente il papa parla di “iniziazione”. L’arte dell’ascolto non si improvvisa. Non si impara mai abbastanza «che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno» (EG 172).
Quel che possiamo fare è provare a tenere accesa la luce grande del Vangelo.

2. Un Dio tenero
Ogni gesto di Gesù contiene come in filigrana la missione della Chiesa. Ogni storia di vocazione esprime questa prossimità. «Quanto bene ci fa vederlo vicino a tutti!» (EG 269).
Lo sguardo profondo che incrocia quello del giovane ricco (Mc 10,21), il “seguitemi” detto sulle rive del mare di Galilea (Mt 4,19), l’occhiata a Natanaele sotto l’albero di fichi (Gv 1,48) non vogliono dirci altro che questo: al centro della fede cristiana c’è un rapporto d’amore col Cristo, c’è ancor prima il ritrovarsi amati da lui, oggetto di interesse da parte sua, come accade a Zaccheo, che pur cerca ano­nimato tra le fronde di un albero (Lc 19,4).
Tante altre pagine del Vangelo descrivono la tenerezza di Dio in termini di abbondanza. Dal miracolo esagerato di Cana all’eccedenza della moltiplicazione dei pani, che solo il comando che «nulla vada perduto» evita che degeneri in spreco (Gv 6,12). Dalla gioia piena (Gv 15,11) che costituisce l’obiettivo finale della missione di Cristo, al dispendioso profumo che invade la casa di Betania (Gv 12,3). «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10), dirà Gesù, prendendo le distanze dai mercenari di ieri e di oggi.
Prossimità e abbondanza fanno parte non solo dello stile del Na­zareno, ma accompagnano le sue promesse. Chi lo segue «sa in chi ha posto la sua fede» (2Tim 1,12). Può anche essere distratto da quan­to accade ai bordi della strada. Eppure, se ritorna mille e mille volte a fissare lo sguardo sui piedi che lo precedono, rilegge tutto alla luce della buona notizia: e senza accorgersene si ritrova nel grembo «una misura buona, pigiata, colma e traboccante» (Lc 6,38).
C’è abbondanza e abbondanza, nel Vangelo. C’è quella che accende la nostalgia del figliol prodigo, confrontando quel che ha lasciato con la miseria delle carrube che ha davanti (Lc 15,17); c’è quella che fa strabuzzare gli occhi di cupidigia al ricco stolto (Lc 12,16ss.); c’è una messe straordinaria che purtroppo manca di ope­rai (Mt 9,37). La manodopera ci sarà, a condizione che si cerchino altri tesori, inattaccabili da tarme, ladri e ruggine (Mt 6,19).

La cassaforte ha le dimensioni di un tabernacolo. Papa Francesco non ha abbassato l’asticella della misura cristiana, quando ha detto ad alcuni catechisti:
«Come state alla presenza del Signore? Quando vai dal Signore, guardi il tabernacolo, che cosa fai? Senza parole… Ma io dico, dico, penso, medito, sento… Molto bene! Ma tu ti lasci guardare dal Signore? Lasciarci guardare dal Signore. Lui ci guarda e questa è una maniera di pregare. Ti lasci guar­dare dal Signore? Ma come si fa? Guardi il tabernacolo e ti lasci guardare… è semplice! È un po’ noioso, mi addormento… Addormentati, addormentati! Lui ti guarderà lo stesso, Lui ti guarderà lo stesso. Ma sei sicuro che Lui ti guarda! E questo è molto più importante del titolo di catechista: è parte dell’essere catechista. Questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’ami­cizia col Signore, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene 2.

E nella Evangelii Gaudium:
«La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbia­mo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più . Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in pre­ghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’im­plorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale» (n. 264).
Da questa scelta di fondo deriva una nuova gerarchia nelle no­stre agende, forse l’urgenza di fermarsi, certamente quella di rallen­tare. Non l’ansia dei grandi eventi, né l’ossessione dell’audience, ma l’attenzione alle persone, il riservare tempo per il sacramento della riconciliazione, luogo dove offrire a Dio la propria verità e celebrare la sua misericordia.

«In questo nostro tempo, costituisce senz’altro una delle priorità pastora­li quella di formare rettamente la coscienza dei credenti»3.
«È necessario tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il sacramento della riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sen­tirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della misericordia divina, accanto alla presenza reale nell’eucaristia»4.
La stessa omelia deve, per quanto possibile, sintonizzarsi con quella ricerca del volto di Dio che anima – pur se inconsciamente – l’esistenza del credente, e accendere su quella ricerca la luce del Vangelo.
E più in generale occorre insistere perché non manchino percor­si di formazione guidati dalla Parola di Dio. Tutto, per dare forma e spazio alla «pedagogia della santità, capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone» (Novo millennio ineunte, n. 31) 5.

3. Il Dio delle periferie
Il Dio di Gesù Cristo non ama troppo Gerusalemme, almeno per quanto vale il richiamo della grande città. Preferisce mescolarsi alla vita della gente semplice, perché a lui sta a cuore incrociarne lo sguardo. Ama i villaggi perché nelle loro case è più facile essere accolti, per quelle strade si rincorrono tracce di vita quotidiana, dal buon profumo della cucina alle martellate del falegname. Ama i villaggi perché lì si ha più tempo per sedersi e chiacchierare.
Anche qui lo scenario evangelico della vocazione parla da sé. Tutto parte non dalla Giudea, ma dalla Galilea delle genti, dalla ter­ra di Zàbulon e Nèftali, sulla via del mare (Mt 4,12). Cafarnao – il cui nome significa “villaggio del conforto” – è luogo di frontiera, ma soprattutto agglomerato di piccoli villaggi. Gente semplice e dispo­sta a fare attenzione, come accade ad alcuni discepoli, colti mentre rassettano le reti.
Non di meno, Cafarnao è crocevia delle nazioni, punto d’attrac­co verso il destino universale del Vangelo. E la chiamata dei primi discepoli avviene sul bordo di un lago-mare, anticipando altre peri­ferie, gli orizzonti ben più vasti di oceani e continenti.
È giusto che il Dio di Gesù Cristo parta dalle periferie, per poi morire a Gerusalemme. È giusto, perché partendo dai confini si possono davvero raccogliere tutti nella rete della salvezza. È giusto che chi da Risorto andrà prima di tutto agli inferi per riscattare gli ultimi, assuma la periferia come punto strategico.

«I grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto»6.
In quelle periferie Gesù chiama due per volta, perché l’uomo si ricomponga nella relazione. È lì che posa la prima pietra del regno (Mt 4,17), centro di gravità delle sue giornate. È lì che – di due figli di Zebedeo – fa altrettanti pescatori di uomini: l’identità carnale segna­ta dal peccato si presta come argilla nelle mani del vasaio (Is 64,7).
Marcata da questa disponibilità, la vocazione diventa innanzi­tutto presa di coscienza: Lui mi ha chiamato per nome, mi ha cioè rammentato un’identità che non sapevo di possedere. È solo il sen­tirmi chiamato da un altro, nelle periferie della mia anima, segnate dal peccato e dall’ombra della morte, che mi fa scoprire la vita in abbondanza, quella che fa capo proprio alla mia unicità. Se poi que­sto Altro merita l’iniziale maiuscola, ci si scopre davvero «arricchiti di tutti i doni» (1Cor 1,5).
La vocazione diventa così anche avventura meravigliosa, che se­gue Cristo fin nelle periferie dell’animo e del mondo. Diventa paio d’occhiali con cui leggere la realtà, paio di scarpe che non si consu­mano a furia di camminare, braccia generose che non si stancano di seminare.
Importante è non tergiversare, né volgersi indietro dopo aver messo mano all’aratro (Lc 9,62). La fiducia in chi ti ha chiamato sfaterà il rischio di stare a guardare. 

«Attraverso di voi giovani entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apa­tia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non “guardate dal balcone” la vita, mettetevi in essa. Gesù non è rimasto nel balcone, si è immerso. Non “guardate dal balcone” la vita, im­mergetevi in essa come ha fatto Gesù»7.
Ecco a questo punto l’importanza di uno spagnolismo caro a Papa Francesco: primerear, prendere l’iniziativa. Darsi da fare a ri­schio di sbagliare (e di imparare dai propri errori ovviamente), piut­tosto che rimanere con le braccia conserte per evitare brutte figure.

«Osiamo un po’ di più prendere l’iniziativa! (…) La comunità evan­gelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo» (Evangelii Gaudium 24).
Quando è il cuore ad ardere, la strada della propria vocazione diventa chiara man mano che si avanza. Si fa l’esperienza di Paolo: «Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). Si prova sulla propria pelle quel che per i santi era pane quotidiano, cioè la provvidenza. Si fa la scoperta, progressiva quanto illuminante, che in fondo ognuno è (anche) figlio dei propri impegni. Vai a visitare un povero e man­tieni il contatto con la realtà della vita. Dedichi ore al ministero dell’ascolto e ricevi più di quanto dai. Riservi un angolo fisso della tua giornata alla preghiera e scopri quanta forza ne ricevi. Fai un viaggio alle periferie del mondo e te ne ritorni con un po’ di pudore in più, al parlare di povertà.

4. La fatica di accompagnare
A mezzo secolo dal Vaticano II, forse prendono consistenza certe sue intuizioni, pur se formulate in un contesto che ci pare lontano.
Una di esse è l’ottica della fede che motiva l’azione della Chiesa. Questa può dire tutto, pronunciarsi su tutto, ma mai dando per scontato il lumen fidei. In caso contrario si rischia il moralismo, e ancor peggio il legalismo contro cui Gesù ha scagliato i suoi fulmini.
Il moralismo dice: “hai capito cosa fare, fallo”. La fede si apre alla grazia, si esprime in un grembo che accoglie, in una tenebra final­mente messa in fuga. Leggo in questo senso un passo della Evangelii Gaudium:
«Nel mondo di oggi, con la velocità delle comunicazioni e la selezione in­teressata dei contenuti operata dai media, il messaggio che annunciamo cor­re più che mai il rischio di apparire mutilato e ridotto ad alcuni suoi aspetti secondari. Ne deriva che alcune questioni che fanno parte dell’insegnamen­to morale della Chiesa rimangono fuori del contesto che dà loro senso.
Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con tali aspetti secondari che, pur essendo rilevan­ti, per sé soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo. Dun­que, conviene essere realisti e non dare per scontato che i nostri interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo o che possano collegare il nostro discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva» (n. 34).
Il problema pastorale principale, a mio avviso, oggi consiste nel mettere in sufficiente luce quello “sfondo” che si chiama fede. Su quello sfondo la massima parte dei credenti si muove oggi, con un atteggiamento di ricerca. È l’atteggiamento giusto, in un’epoca in cui il credere non coincide più con una tradizione, con la struttura, con la regola o addirittura la legge.
I problemi, pertanto, sono due. Primo, quella ricerca è disturba­ta da molte interferenze, attraversa aree dove non c’è “campo”, e comunque si è distratti da messaggi altri; secondo, moltissimi man­cano di una infrastruttura su cui appoggiarsi, mancano di chi gli insegni a pregare, a fare silenzio, a fermarsi, a riflettere sulla Parola.
Ecco dunque la fatica mista a creatività che oggi l’accompagna­mento richiede. Il promotore vocazionale la sperimenta sulla sua pelle, ma la sua sarà fatica immane e sterile se non affiancata dalla pastorale ordinaria, chiamata proprio a questa rivoluzione coperni­cana: dai numeri alle persone, anzi, alla persona che si ha davanti.
Ancora una volta è l’icona di Emmaus a ispirare questa fatica: il porsi accanto, l’ascoltare, il suscitare domande, la gradualità delle tappe, l’aprirsi degli occhi e il riscaldarsi del cuore, l’indicare la pre­senza di un Altro, il sedersi a tavola8.
In quell’icona troviamo un’altra urgenza: fede e amore si ali­mentano a vicenda. La relazione esigita nella fede è come un pro­cedere in bicicletta: si avanza e ci si mantiene in piedi solo se si pedala. Così il rapporto con Dio brucerà chilometri se l’amore farà aumentare ogni giorno lo spazio per Gesù Cristo. «Toccare con il cuo­re, questo è credere”, ha detto sant’Agostino» (Lumen Fidei 31).
Se continuiamo a parlare di nuova evangelizzazione senza vedere ancora grosse novità all’orizzonte, è perché di novità non ce ne pos­sono essere, se svicoliamo dal nodo del problema: l’unico evangeliz­zatore è il santo. Si evangelizza per attrazione e non per lo sfavillio delle idee e la bella grafica di una pagina web. Si evangelizza perché qualcuno, un giorno, ci ha fatto sentire il Vangelo non solo come buona notizia, ma come un fatto che non smette di esser attuale.
«Solo quando la verità è amata e vissuta nell’amore suscita la fede. È stata la fede di tua madre o di un insegnante o di un amico, o di qualcuno dei tuoi vicini che ha risvegliato la tua. Dapprima, senza saperlo, tu hai vis­suto con essi la loro fede; così la tua fede è sorta, si è consolidata e poi final­mente ha trovato la forza di stare in piedi da sola. Come un cero si accende alla fiamma di un altro cero, così la fede si accende alla fede»9.

5. Quel che sostiene il resto
Per un operatore pastorale animato da buona volontà il pericolo più immediato è lo scoraggiamento. Le urgenze sono tante, le risor­se poche, e a volte la stanchezza fa sragionare. Certo, riconciliarsi con i propri limiti e il saper dire di no sono arti che si apprendo­no strada facendo. Tagliare qualcosa della propria agenda serve per mettere al primo posto le cose che davvero lo meritano: pensia­mo solo alla serietà esigita dal preparare un’omelia dignitosa, se la Evangelii Gaudium vi dedica venticinque paragrafi (nn. 135-160).
Ma un ritorno all’essenziale si esprime anche nel mettere alla base della vita cristiana, e in specie di un cammino vocazionale, ciò che sostiene tutta l’impalcatura, assicurare quella “infrastruttura” di cui sopra si faceva cenno.
L’essenziale del Vangelo è l’esperienza di figli nel Figlio, che Cri­sto è venuto a incarnare e insegnare. Da questa realtà promana la vita in abbondanza, a partire da questo punto si vedono le cose in ben altra maniera, intrisa di misericordia ma anche di grintosa vo­glia di cambiare le cose stesse.
«Questa fede nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20), dirà un giorno Paolo. Con un’espressione che siamo soliti interpretare in senso soggettivo: la fede rischiarata dal Vangelo che orienta le mie giornate. Ma che possiamo e dobbiamo vivere anche in senso oggettivo: assumo la fede che aveva Gesù, quella con cui Gesù si rapportava al Padre, come la mia stessa fede, pur nella fra­gilità della mia carne esangue.
È lo Spirito Santo che rende possibile questo miracolo. È in Lui che possiamo rivolgerci al Padre con la stessa familiarità di Gesù: «Abbà» (Gal 4,6). È lo Spirito che ci preserva dal pericolo denun­ciato dal mistico fiammingo Jan van Ruusbroec: quello di lavorare tanto da non vedere più il Signore per il quale lavoriamo. È lo Spiri­to che ci sottrae al pelagianesimo, che ignora il grande capitolo della grazia, rimpiazzandolo col protagonismo. È lo Spirito che ci riscatta dal neo gnosticismo che ci fa credere che «solo per il fatto di pronun­ciare parole nuove, già ne stiamo realizzando il contenuto»10. È lo Spirito che ci fa ritrovare la strada dell’umiltà, in un mondo dove l’io è mi­sura del tutto e cresce in maniera tanto esorbitante da oscurare Dio.

NOTE
1 Francesco, Veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, Piazza San Pietro, 18 maggio 2013.
2 Francesco, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale sulla catechesi, 27 settembre 2013.
3 Benedetto XVI, Messaggio all’Em.mo Card. James Francis Stafford, Penitenziere Maggiore, e ai partecipanti alla XX edizione del corso per il foro interno, promosso dalla Penitenzieria apostolica, 12 marzo 2009.
4 Benedetto XVI, Allocuzione ai partecipanti al XXI corso sul foro interno organizzato dalla Peniten­zieria Apostolica, 11 marzo 2010.
5 Citazione ripresa da Francesco, Messaggio per la 51 Giornata Mondiale di Preghiera per le Vo­cazioni
6 J.M .Bergoglio, Nel cuore dell’uomo. Utopia e impegno, Bompiani, Milano 2013, p. 23.
7 Francesco, Veglia di preghiera a Copacabana, 27.07.2013 (XXVIII Giornata Mondiale della gioventù), 3.
8 Nuove vocazioni per una nuova Europa (1997) dedica il n. 34 a descrivere questo itinerario.
9 R. Guardini, La vita della fede, Morcelliana, Brescia 2008, p. 94.