Chiesa, la forza del servizio

Parlare di servizio nella Chiesa non è cosa facile; meno ancora parlare della Chiesa in chiave di servizio. Il punto di avvio della riflessione, tuttavia, è già fissato, non da qualche obbligo esteriore, ma dalla parola stessa di Gesù: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,25-28).
Il dettato di Gesù non solo è chiaro nei termini, ma è vincolato a un parametro ben definito, che è la sua stessa vita data per amore.
A lui ogni credente – a maggior ragione se assume una funzione nella Chiesa – deve conformarsi; sul suo dono deve misurare la sua disponibilità al servizio, nella logica della gratuità. Ma, al di là del discorso personale, la sfida è di cogliere la dimensione ecclesiale del servizio; di delineare, in altre parole, il profilo di una «Chiesa del grembiule», come amava dire don Tonino Bello, o, come ripete Papa Francesco, di una «Chiesa in uscita», che sa «coinvolgersi», che «si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione, se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo» (EG 24).

1. “Come Cristo, così la Chiesa”
Molti potrebbero essere gli approcci alla questione. Quello che scelgo, a cinquant’anni dalla promulgazione della costituzione Lumen Gentium, è una declinazione del tema a partire dai testi del Vaticano II.
In chiusura del capitolo I sul mistero della Chiesa, il Concilio sviluppa la prospettiva sacramentale della Chiesa, asserita nel proemio, attraverso un articolato parallelismo tra Cristo e la Chiesa. Che si tratti di un testo in chiave sacramentale, lo dimostra il testo di partenza su cui i Padri si sono confrontati in aula, lo schema de Ecclesia, che parlava della Chiesa «ut sacramentum Christi», «segno levato sopra le nazioni, alle quali, mediante la povertà, mostra anche la testimonianza di Gesù mite e umile di cuore»1. Dunque, l’intero capitolo era aperto e chiuso da un rimando alla dimensione sacramentale della Chiesa: «La Chiesa è in Cristo come segno e strumento, cioè sacramento dell’intima unione con Dio e di tutto il genere umano»2. Nella discussione in aula i Padri domandarono di sviluppare ulteriormente l’assunto che la povertà della Chiesa manifesta Cristo umile e povero agli uomini. Ne è venuto un testo di rara bellezza, che amplifica la «non debole analogia» tra il Verbo incarnato e la Chiesa3.
Dopo aver mostrato come la Chiesa sia «realtà una e complessa, formata di un duplice elemento, umano e divino», il testo spiega tale complessità, che sta al fondamento della natura misterica della Chiesa, con l’analogia tra Cristo e la Chiesa: «Per una non debole analogia essa [la Chiesa] è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta dal Verbo divino e a lui indissolubilmente unita gli serve come vivo organo di salvezza, in modo non dissimile la compagine sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo, che la vivifica in vista della crescita del corpo [di Cristo] (cf Ef 4,16)». Sul testo sono stati gettati fiumi d’inchiostro.
Poco o nulla si è detto però sul parallelismo in chiave di missione: se la natura umana assunta dal Verbo è «vivo organo di salvezza», anche la Chiesa, a condizione e nella misura in cui si lascia comporre e articolare nell’unità del corpo, è strumento della redenzione, costituita per continuare nel tempo il ministero messianico di Cristo stesso. Questo aspetto è di capitale importanza quando si voglia cogliere il senso dei tre passaggi in cui è ulteriormente declinata la non debole analogia, costruiti sulla consecuzione sicut-ita: come Cristo, così la Chiesa.
Dopo aver chiarito che non si tratta di una Chiesa ideale, ma di quella «che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che Cristo ha dato da pascere a Pietro dopo la resurrezione», il testo continua spiegando come la Chiesa, la quale «è in Cristo come un sacramento» (LG 1), trovi in Cristo il termine di confronto su cui pensare se stessa e la sua missione. «Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nella persecuzione, così la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza»: è la prima affermazione, che riguarda soprattutto la povertà. Lo stretto parallelismo tra Cristo che compie l’opus redemptionis a favore degli uomini in paupertate et persecutione, e la Chiesa, chiamata a ripetere il medesimo percorso, fissa una condizione inderogabile per la missione: se le persecuzioni sono subite – la Chiesa «avanza nel suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», dirà il Concilio in chiusura di paragrafo –, la povertà è una condizione non solo accettata, ma scelta e voluta, in ragione dell’esempio di Cristo, il quale, «da ricco che era, si fece povero» (1Cor 8,9). Perché non sembri che tale scelta sia estrinseca e ideologica – una specie di pauperismo à la page –, il Concilio ribadisce l’esempio sul versante dei mezzi da usare per compiere la missione: se «Cristo Gesù, “pur essendo di natura divina, svuotò se stesso, prendendo la forma del servo” (Fil 2,6-7) e “da ricco che era, si fece povero”(1Cor 8,9), la Chiesa è chiamata a fare altrettanto: così la Chiesa, per quanto abbia bisogno di risorse umane per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria della terra, ma per diffondere, anche con l’esempio, l’umiltà e l’abnegazione». A tali condizioni si rende possibile la missione a favore dei poveri: «Cristo è stato inviato dal Padre “a portare la lieta novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore ferito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10): similiter la Chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevare la loro miseria e in loro intende servire Cristo».
Il volto della Chiesa ricalca in modo così fedele quello di Cristo, che il testo avverte la necessità di mettere in evidenza la grande distanza tra Cristo e la Chiesa: per quanto chiamata a prolungare nel tempo la missione messianica di Cristo a favore di un’umanità assimilabile al «gregge senza pastore», di cui Gesù prova profonda compassione (cf Mt 9,36), la Chiesa non è Cristo. Mentre questi «non conobbe peccato» (cf 2Cor 5,21), ma venne per espiare i soli peccati del popolo (cf Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, al contempo santa e sempre bisognosa di purificazione, si applica di continuo alla penitenza e alla riforma [renovationem]».
Il testo conciliare stabilisce dunque un parallelismo così vincolante tra Cristo e la Chiesa, tra il ministero messianico di Cristo e la missione della Chiesa, che questa non può cercare altra strada che quella percorsa dal suo Signore. La povertà, l’umiltà, l’abnegazione non sono dimensioni addizionali e facoltative dell’agire della Chiesa, ma lo specificano e lo definiscono. Né il parallelismo vale solo nel campo dell’agire: la missione caratterizza a tal punto la Chiesa, ne definisce così profondamente l’essere, che essa non può esistere in altro modo: un profilo che non ricalchi quello di Gesù mite e umile di cuore è tradimento di sé, della sua natura più profonda.
Di qui la necessità di una costante penitenza e di un’azione di riforma esteriore e interiore, in capite et in membris, dei singoli e delle istituzioni, perché la Chiesa – come conclude LG 8 – sappia «svelare fedelmente nel mondo il mistero del Signore, per quanto sotto forma di ombre, fino al giorno in cui risplenderà finalmente nella pienezza della luce».
A partire dal parallelismo tra Cristo e la Chiesa dettato da LG 8, è possibile concludere che la dimensione del servizio è costitutiva della natura della Chiesa: come Cristo è il Figlio dell’uomo venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per i molti (cf Mc 10,45), così la Chiesa esiste non per ricercare la sua gloria, ma per servire l’umanità. Con questo è anche fissato il criterio di come la Chiesa deve servire: calibrando il suo servizio su quello di Cristo.
Per esemplificare, basta prendere l’episodio delle tentazioni: come Cristo, nella potenza dello Spirito, ha superato la prova opponendo alla proposta di un messianismo fondato sull’avere, sul potere e sull’apparire, la volontà del Padre – «Sta scritto!» (Mt 4,4.7.10) −, allo stesso modo la Chiesa è chiamata a non pensare la sua mission secondo criteri che non sono “dallo Spirito”, ma “dalla carne”, ragionando secondo Dio e non secondo gli uomini. Qui si apre tutto lo spazio della preghiera, dell’ascolto e del discernimento ecclesiale, della penitenza, della riforma indicata dal Concilio come via maestra per il rinnovamento della Chiesa nella fedeltà al suo Signore. Ogni aspetto della vita della Chiesa dovrebbe essere pensato e vagliato a partire da Gesù e dal suo servizio a favore degli uomini; servizio che ha il suo criterio ultimo di giudizio nell’amore «fino alla fine» (cf Gv 13,1) attestato nel dono di sé al Padre sul legno della croce. È questo il criterio ultimo di verifica, senza il quale è possibile trasformare il servizio in potere, come dimostra ampiamente la storia della Chiesa.

2. Una Chiesa che serve
Lo stretto parallelismo tra Cristo e la Chiesa obbliga dunque a parlare di una Chiesa che è pienamente se stessa, nella fedeltà al mandato che le ha assegnato il Signore, quando serve. In altre parole, la Chiesa è costitutivamente “serva”4. Ma cosa significa questo?
Se la Chiesa è il Popolo di Dio (cf LG II), si può parlare di una Chiesa che serve? È possibile dire che la totalità dei battezzati presti un servizio? Secoli di identificazione della Chiesa con la Chiesa gerarchica, o con il papa, hanno indotto un riflesso condizionato, per cui il servizio della Chiesa si identifica di fatto con il servizio dei suoi ministri. Il recupero dell’apostolato dei laici, sancito dal Concilio Vaticano II, permetterebbe di applicare anche a loro la categoria del servizio. In questo modo la questione sarebbe risolta affermando che tutti, secondo il proprio stato e la propria funzione nella Chiesa, sono chiamati a servire. Ma basta questo a definire la Chiesa come “serva”? Non bisogna porsi piuttosto la questione di come la Chiesa in quanto tale sia “serva”? Certo, se la Chiesa non è altro dai membri che la compongono, è sicuramente vero che il servizio di ciascuno in un certo qual modo la manifesta come colei che serve.
Ma questo è vero unicamente se la Chiesa è “serva”: se, in altre parole, quella del servizio è una sua dimensione costitutiva che si manifesta nel servizio di ciascuno dei suoi membri. Esiste, in altre parole, una mutua interiorità tra la Chiesa “serva” e la chiamata al servizio di ogni suo membro: come tutti nella Chiesa sono chiamati alla santità, perché la Chiesa è santa e la sua santità si manifesta nella santità dei suoi membri, così tutti nella Chiesa sono chiamati a servire, secondo la propria vocazione, funzione o stato di vita nel corpo di Cristo, in quanto la Chiesa, sull’esempio di Cristo servo, è, essa stessa, “serva”.
Ma esiste un momento, una situazione in cui la Chiesa si manifesta come “serva”? Esiste un servizio che la Chiesa in quanto tale – il Popolo di Dio – compie? E a favore di chi? I documenti del concilio offrono anche qui una pista per rispondere alla questione.
Basta riprendere, infatti, la dottrina del sacerdozio comune finalmente recuperata – dopo quattro secoli di silenzio, in ragione della polemica antiprotestante – nel capitolo II di Lumen Gentium.
Il testo è conosciuto: «Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini, ha fatto del nuovo Popolo di Dio “un regno e sacerdoti per Dio suo Padre” (Ap 1,6; cf 5,9-10). I battezzati, infatti vengono consacrati mediante la rigenerazione e l’unzione dello Spirito santo, per essere dimora spirituale e sacerdozio santo, e poter così offrire sacrifici spirituali attraverso tutte le opere del cristiano, e annunciare i prodigi di colui che dalle tenebre li ha chiamati alla sua luce ammirabile (cf 1Pt 2,4-10). Tutti i discepoli di Cristo, quindi, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cf At 2,42-47), offrano se stessi come oblazione vivente, santa, gradita a Dio (cf Rm 12,1), diano ovunque testimonianza a Cristo e rendano ragione, a chi lo richieda, della speranza di vita eterna che è in loro (cf 1Pt 3,15)» (LG 10/a).
Benché il testo insista sul fatto che tutti i cristiani, in forza del battesimo, siano costituiti nella capacità di offrire a Dio sacrifici spirituali, il soggetto del sacerdozio comune è con ogni evidenza il «nuovo Popolo di Dio». Non è escluso, naturalmente, che il testo intenda un esercizio personale del sacerdozio comune: è ciascun battezzato, infatti, che ha la capacità, in forza del battesimo, di offrire se stesso e le sue opere come «oblazione vivente, santa e gradita a Dio». E tuttavia, se così fosse, questo sacerdozio, come diceva il Catechismo romano5, sarebbe del tutto interiore, perché l’offerta sarebbe presentata sull’altare della propria anima. Ma esiste anche un’altra lettura: che “dimora spirituale” e “sacerdozio santo” siano formule che si riferiscono al Popolo santo di Dio, non ai singoli battezzati. In tal caso gli universi discipuli Christi corrisponderebbero alla «comunità sacerdotale» di LG 11, la quale, nella celebrazione eucaristica, «manifesta in concreto l’unità del Popolo di Dio», e alla universitas fidelium di LG 12, che «non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale». Dunque, quando si tratta di mostrare in concreto l’esercizio del sacerdozio comune, nella partecipazione alla funzione sacerdotale e a quella profetica di Cristo, il Concilio indica come soggetto di azione il Popolo di Dio.
Ma quale funzione può mai svolgere il Popolo di Dio? Se il soggetto del sacerdozio comune è ogni battezzato che offre personalmente sacrifici spirituali, l’esercizio del sacerdozio comune non può che ridursi ad un’offerta intimistica sull’altare della propria anima, di carattere individuale. In LG 10 tale esercizio consiste «nel ricevere i sacramenti, nella preghiera e nel ringraziamento, nella testimonianza di una vita santa, nell’abnegazione e nell’operosa carità»: tutto sommato, poca cosa, rispetto al «sacerdote ministeriale, [il quale,] con la potestà sacra di cui è rivestito, forma e dirige il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona Christi e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo». Ben diversa è la prospettiva quando si consideri «l’indole sacra e organicamente strutturata della comunità sacerdotale, attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù» (LG 11). In questo caso, soprattutto nell’Eucaristia, fonte e culmine di tutta la vita della Chiesa, è la comunità sacerdotale e non il singolo ad essere soggetto di una precisa funzione. Questo perché la liturgia è da intendersi come «l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, mediante la quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale» (SC 7). «In un’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima», in modo tale che «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa è azione sacra per eccellenza e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado». Dunque, la comunità cristiana raccolta in assemblea, svolge una funzione tanto efficace, che i suoi effetti non possono limitarsi ai presenti: il sacrificio che la Chiesa, comunità sacerdotale, celebra, è destinato all’umanità intera. Inlinea con Israele come popolo sacerdotale, la Chiesa è posta tra le nazioni per invocare sull’umanità intera la benedizione di Dio.
Offrire a Dio sacrifici spirituali non è un atto intimistico, teso ad ottenere una qualche grazia per sé o per le persone care, ma è l’atto sacerdotale per eccellenza del Popolo di Dio, che porta al Padre «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1), ottenendo su tutti la benedizione di Dio.
Questo equivale a dire che la Chiesa tutta, Popolo di Dio, è in stato permanente di servizio e che il primo servizio che è chiamata a rendere non è situato sul registro del fare: la comunità sacerdotale svolge una funzione a favore del mondo celebrando la liturgia che, nel momento stesso in cui rende lode a Dio, realizza la salvezza dell’uomo6. Dentro questa logica, ogni credente partecipa di questo servizio della Chiesa e la vita cristiana stessa diventa perciò stesso servizio, in quanto alimenta quel dinamismo dell’offerta a Dio di sacrifici spirituali che costituisce l’esercizio più alto della funzione sacerdotale del Popolo santo di Dio a favore dell’umanità intera.
Si può ben dire, in questa prospettiva, che “la forza della Chiesa è quella del servizio” non è soltanto uno slogan, ma una descrizione adeguata della sua identità di Popolo di Dio che partecipa della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo.

3. Un prete che serve
A partire dal servizio della Chiesa, comunità sacerdotale, a favore dell’umanità intera, va pensata anche la funzione del servizio per eccellenza nella Chiesa, quello dei ministri ordinati. In verità, il linguaggio della Chiesa ha sempre sottolineato tale aspetto: basti pensare al papa, definito servus servorum Dei, o ai riti di ordinazione, dove la tipologia cristologica formulata per descrivere il ministero sacerdotale ricorre abbondantemente alle categorie del servizio.
Troppo spesso, tuttavia, linguaggio e realtà non collimavano, anzi collidevano. La contraddizione scaturiva dal modello di Chiesa proposto, che distingueva nettamente il corpo ecclesiale in due: la Ecclesia docens, depositaria di tutte le prerogative, a fronte di una Ecclesia discens, posta in uno stato di soggezione passiva. Non a caso si parlava di societas inaequalium, per il rapporto asimmetrico postulato tra chi, in nome del servizio, aveva concentrato in sé tutta l’autorità – che poteva trasformarsi in potere anche dispotico – e chi doveva unicamente ubbidire.
Non si tratta di fare processi al passato: in una società gerarchicamente organizzata, in quanto fondata sul principio di autorità, tale rapporto asimmetrico era profondamente radicato nel vissuto non solo ecclesiale, ma anche sociale e politico. D’altronde, il modello piramidale di Chiesa è nato dallo scontro al vertice della società medioevale tra papato e impero, con il passaggio del potere sulla respublica christiana dall’imperatore al papa. La vittoria sull’impero, sottraendo la gerarchia al gioco delle investiture laiche, ha determinato la concentrazione di ogni potere nel papa e la costruzione anche ideologica della piramide, al vertice della quale stava non più il vescovo di Roma, ma il Sommo Pontefice, il quale da vicarius Petri diventerà il vicarius Christi. In tal modo il servus servorum Dei era colui che stava al vertice della scala gerarchica, il principio visibile che rendeva presente il Cristo, re invisibile in cielo, di cui ne manifestava tutto il potere. La Chiesa era così il Regnum Dei ormai compiuto sulla terra, il cui Rex era il papa, che sommava in sé il potere spirituale e temporale. In questo orizzonte, il vocabolario del servizio diventava il veicolo concettuale per rinforzare il potere universale del papa. La distinzione di potestas ordinis e potestas jurisdictionis esprimeva bene tale potere, riferito distintamente al corpo eucaristico, e quindi alla capacità di conficere Eucharistiam, uguale nel presbitero e nel vescovo – l’uno e l’altro sacerdos – e al corpo ecclesiale, sul quale si esprimeva la diversa capacità di governo – il potere di giurisdizione, appunto – del vescovo e del presbitero.
Quella concezione è stata profondamente ripensata nel Vaticano II. Il capitolo III sulla gerarchia si apre con un’annotazione inequivocabile sul carattere di servizio del ministero ordinato nella Chiesa: «Per pascere e accrescere sempre di più il Popolo di Dio, Cristo Signore ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il corpo. Dotati di sacra potestà, i ministri sono al servizio dei loro fratelli, affinché tutti coloro che fanno parte del Popolo di Dio e perciò godono della vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e giungano alla salvezza» (LG 18). La frase è stata inserita nel testo definitivo dopo la redazione del capitolo II sul Popolo di Dio, per armonizzare le affermazioni del capitolo sulla gerarchia con quelle sul sacerdozio comune. In effetti, per tutto il capitolo sulla costituzione gerarchica della Chiesa, la categoria di servizio non entra esplicitamente: come a dire che è per la stretta relazione che LG 10 istituisce tra «sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico» che si chiarisce senza equivoci la dimensione di servizio di chi agisce nella Chiesa in persona Christi.
Il paragrafo, dopo aver descritto il sacerdozio comune, stabilisce il suo rapporto con il sacerdozio ministeriale, con una frase che ha alimentato molte discussioni: «Il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano non tanto per grado, quanto per essenza, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, perché ambedue partecipano, ciascuno a suo proprio modo, all’unico sacerdozio di Cristo» (LG 10/B)7. L’attenzione di molti commentatori si è concentrata sulla differenza licet essentia et non gradu tantum, insistendo su una differenza per grado che avrebbe permesso di ripensare il ministero ordinato come una forma di partecipazione del Popolo di Dio al potere detenuto per secoli dalla gerarchia. Se potesse mai esistere una differenza di grado che possa anche essere di essenza, una concezione del genere ristabilirebbe un rapporto asimmetrico tra quanti fossero detentori di un sacerdozio “comune” e quanti, giocoforza, occuperebbero posizioni di maggior responsabilità, che finirebbero automaticamente per trasformarsi in forme di prestigio e di potere.
Piuttosto, l’elemento di novità del Concilio rispetto al passato non sta nello svuotamento e nella relativizzazione del ministero ordinato, quasi che il capitolo sul Popolo di Dio fosse una specie di manifesto in favore dei laici contro la gerarchia. L’aspetto decisamente innovativo – la sostanza della “rivoluzione copernicana” introdotta dal capitolo II − sta nell’affermazione circa la condizione di uguale dignità di tutti i battezzati prima di qualsiasi differenza nella Chiesa: di vocazione, di stato di vita, di funzione e ministero. Il capitolo fu infatti costruito scorporando il paragrafo sul sacerdozio comune dei fedeli dal capitolo sui laici e collocandolo prima di quello sulla gerarchia. In questo modo si ottennero due effetti di portata incredibile: quello di ristabilire un legame costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale e quello di ricondurre il ministero ordinato a funzione di servizio verso il Popolo di Dio. Il ristabilimento della relazione, in effetti, preclude ogni possibilità di pensare la funzione della gerarchia in assoluto, sulla misura di Cristo stesso.
Non che manchi tale riferimento: ogni ministro riceve con l’ordinazione la potestà di agere in persona Christi. Ma questo non ricade nel campo di un potere che stabilisce i sacerdoti sopra i fedeli, ma come forma radicale di servizio al Popolo di Dio. In altre parole, il ministero ordinato esiste nella Chiesa come forma radicale di servizio al Popolo di Dio. D’altronde, è del tutto evidente che senza Popolo di Dio non si darebbe necessità alcuna di ministri. Peraltro il Concilio, più che la formula potestas ordinis/ potestas jurisdictionis, preferisce parlare dell’ufficio di insegnare, santificare, governare il Popolo di Dio, ai quali è connessa, evidentemente, una sacra potestas: ma questa è la condizione necessaria per esercitare un ministero che, per sua natura, è a servizio del Popolo di Dio. Parlando del ministero dei vescovi, LG 24, dopo aver affermato che, «in quanto successori degli apostoli, i vescovi ricevono dal Signore, a cui è stata data ogni potestà in cielo e in terra, la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, tutti gli uomini ottengano la salvezza. […] Questo ufficio, che il Signore ha affidato ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che le sacre Scritture chiamano significativamente “diaconia” o ministero». Ogni ministro che ripresenta Cristo Capo e agisce in sua persona è chiamato ad essere in mezzo ai fratelli «colui che serve», alla misura e sull’esempio di Cristo, il quale è venuto «non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per i molti» (Mc 10,45). La misura è data da Cristo stesso. L’episodio sulla discussione dei discepoli è attestato da tutti i Sinottici. Nella lezione di Luca è situato dentro il racconto della Passione, immediatamente dopo l’istituzione dell’Eucaristia, seguita dal tradimento di Giuda: «E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: i re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti, chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve?
Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,24-27). Il momento solenne in cui è collocato la pericope e la vicinanza con quella sul tradimento di Giuda sembrano obbligare ad una conclusione sola: non servire è una forma di tradimento. Chi ripresenta Cristo non può che essere in mezzo agli altri come colui che serve. 

NOTE
1 Schema prior, n. 7: Acta Synodalia, II/I, 220.
2 Schema prior, n. 1: Acta Synodalia, II/I, 216. Il testo definitivo invertirà i termini della formula, parlando della Chiesa «veluti sacramentum seu signum et instrumentum».
3 Va rammentato un intervento del card. Giacomo Lercaro in aula alla fine del primo periodo, che parlava della Povertà come dimensione fondamentale della Chiesa: cf Acta Synodalia, I/IV, 327-330; traduzione italiana in Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, EDB, Bologna 1984, pp. 110-119.
4 Tra i modelli di Chiesa ipotizzati da Avery Dulles, esiste anche quella di «servant», “serva”, “servitrice”, in quanto il suo principio fondante è, appunto, il servizio: cf A. Dulles, Models of the Church, New York 1974.
5 Catechismus ad parochos, § 243.
6 Per questa concezione, cf D. Vitali, Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico: rilettura di una questione controversa, in «Rassegna di Teologia» 52 (2011) 1, pp. 39-60. Cf anche il commento a LG 10 e 11 in Id., Lumen gentium: Storia, commento, recezione, Studium, Roma 2013.
7 D. Vitali, Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico: rilettura di una questione controversa, in «Rassegna di Teologia» 52 (2011) 1, pp. 39-60.