N.05
Settembre/Ottobre 2014

Discernimento: uno sguardo che si prende cura

Quando diciamo “discernimento” (D) pensiamo subito ad una operazione piuttosto complessa, a metà strada tra lo psicologico e lo spirituale, che si mette in atto in occasione di scelte importanti, come è – ad esempio – quella vocazionale. In questa breve riflessione prenderemo in considerazione non tanto l’operazione in sé, ma quella che è assieme una sua condizione fondamentale e pure un suo frutto. Ci poniamo, almeno come punto di partenza, nella prospettiva di colui che aiuta a fare un D, dell’animatore vocazionale.

1. Oggetto
Si impone subito un chiarimento importante, che va a sfatare un equivoco molto comune, ma che potrebbe orientare in modo non proprio corretto il D stesso. Cosa ci si propone di scoprire nel D? Fondamentalmente la scelta che uno deve fare, qualsiasi essa sia, perché sia in linea con la volontà di Dio, a lui gradita, come dice Paolo.
Non è sbagliato, certamente. Ma forse possiamo e dobbiamo essere più precisi, proprio per facilitare e rendere autentica questa operazione. Se la cosa è vista così prima viene, come obiettivo, quello che io devo fare, poi, in un secondo momento, il confronto con la cosiddetta volontà di Dio. E se fosse il contrario? Non sto dicendo di invertire semplicemente l’ordine, ma di correggere l’oggetto della ricerca: nel D non si cerca immediatamente quello che ognuno è chiamato a realizzare, ma Dio, quel che Dio ha già fatto e sta facendo nella vita della persona, la sua azione di Padre e formatore, il progetto che il vasaio sta tentando di realizzare, nonostante ogni tanto debba ripartire da zero. In fondo noi siamo la creta, ma creta intelligente, chiamata, cioè, a capire il progetto o il disegno finale (= l’azione di Dio da discernere), proprio per inserirsi in questo piano e decidere di essere disponibili a lasciarci fare in modo altrettanto intelligente, cioè consapevole e responsabile, dal divino artista.
La prospettiva, allora, è diversa. Nel D cristianamente inteso uno cerca essenzialmente l’azione di Dio, quel che Dio ha compiuto e va compiendo nella sua storia, quell’idea che il Creatore ha in qualche modo lasciato trasparire nelle vicende esistenziali della creatura, quel che Dio, la cui creazione è sempre un work in progress, ancora va plasmando. Per intuire la maniera migliore e più coerente di rispondere a quest’azione e scegliere di metterla in atto.
Solo se si rispetta questa articolazione o successione di obiettivi il D è possibile e può approdare ad un risultato credibile.

2. Soggetto
Ma la cosa più sorprendente e normalmente dimenticata è che Dio non è solo l’oggetto o il primo oggetto, per così dire, da discernere, ma è anche il soggetto, o, di nuovo, il primo soggetto del D sempre considerato dal punto di vista cristiano. Di solito pensiamo al D come a qualcosa di assolutamente nostro, la cui fatica è tutta sulle nostre spalle, anche se poi andiamo a chiedere consigli a destra e sinistra.
Diciamo semmai più precisamente che il D è ben condotto quando si compie, in ogni sua fase, alla luce di questo principio: è Dio che mi ha scelto, io sono già stato scelto e continuo ad essere scelto da lui in ogni momento. Ogni mia decisione, dunque, non può che essere una risposta, implicita ed esplicita, a colui che da sempre mi ha scelto, chiamandomi alla vita, ad una particolare somiglianza con lui, alla salvezza, ad una particolare vocazione.
Scegliere, da questo punto di vista, è soprattutto lasciarsi scegliere, e comunque parte da questa consapevolezza, piena di gratitudine e sguardo contemplativo, che rispetta il primato di Dio.

3. Modalità
Al di là delle regole per fare un buon D, di cui qui non parleremo, c’è comunque un atteggiamento preciso da tenere quando si compie questo tipo di operazione, che è legato a quanto siamo venuti dicendo finora: un atteggiamento orante. Se nello scegliere l’uomo scopre primato e azione di Dio nella propria vita, infatti, allora il luogo della decisione è il rapporto orante con Dio, o più semplicemente lo stare dinanzi a lui, come se la preghiera fosse assieme uno scegliere e un lasciarsi scegliere da Dio, uno scegliere di stare dinanzi a lui che nasce dal desiderio suo di stare con me e continuare a scegliermi, mentre mi rivolge parole antiche e sempre nuove e luminose: «Tu sei il figlio mio, l’eletto e il pre-diletto, la mia gioia; sei prezioso ai miei occhi».
Pregare vuol dire sentire Dio bisbigliare queste parole, le più consolanti che un uomo possa mai sentirsi dire, quelle che dicono la scelta definitiva che l’Eterno da tutta l’eternità ha fatto di me, quelle che mi danno il coraggio ora di scegliere – senza paura – cosa fare di quella piccola cosa che Dio ha amato fino a preferirla alla non esistenza, e che è la mia vita. Pregare significa sentire quelle parole e piangere di gioia e semplicemente restare lì, davanti a Dio, senza troppo preoccuparsi di riempire l’orazione di parole e riflessioni.
Solo stare dinanzi a lui, per lasciarsi guardare da lui, per imparare a lasciarsi avvolgere dal suo sguardo.

4. Cura
Qui c’è l’esperienza della cura che il Padre ha di ciascuno di noi. Esperienza fondamentale per chi vuole accompagnare il processo decisionale di altri, sensazione-certezza che Qualcuno s’è preso cura di te, non solo ti ha preferito alla non esistenza, ma tuttora continua a indicarti la via lungo la quale costruirti e costruire la tua felicità. Cura come sentirsi protetti, accarezzati, portati in braccio… certi di un amore che è per sempre, ma anche chiamati, illuminati, anzi, pro-vocati a dare il meglio di sé, a tendere in alto, al massimo livello delle proprie possibilità, alla santità. È un’esperienza molto bella, ma che ha pure un’altra faccia, come un aspetto complementare, che è frutto della medesima benevolenza divina ed è segno ancora inequivocabile della cura con cui il Creatore “si prende cura” della creatura. In questo sguardo benevolente, che avvolge l’orante o colui che semplicemente “sta” davanti all’Eterno, non c’è solo la “visione” della propria vocazione, come un appello quotidiano e costante, positivo ed esaltante, ma anche la percezione dei propri démoni, di quanto si oppone o vorrebbe opporsi alla benevolenza vocante, o che potrebbe pro-vocarmi in senso contrario, distraendomi o rendendomi sordo alla chiamata di Dio, creandomi dentro un sacco di paure, la sensazione di non farcela, il sospetto che Dio chieda troppo, quasi sia nemico della mia felicità…; o magari il contrario, la presunzione di essere all’altezza, di non avere alcuna difficoltà, quasi di poter fare da soli… che è un altro démone molto pericoloso.
Cura è tutto ciò. Non è solo esperienza supergratificante, intimità mistica gradevole col divino, ma contatto con i propri inferi, conoscenza dei propri abissi. È sì duc in altum, ma anche descensus ad inferos. Non è solo seguire un flusso spontaneo e attraente, ma è anche lottare contro forze ben contrarie; né è semplice passività, ma chiede e prevede il massimo dell’attività, dell’intraprendenza, del superamento di ostacoli, del coraggio del rischio.

5. Anticura
Lo stare dinanzi a Dio è dolce e terribile. Ma è sempre cura, esperienza della cura divina. Di un Dio che ti svela quanto gli sei caro e prezioso e proprio perché ti ama teneramente ti provoca intensamente chiedendoti… l’impossibile, ciò di fronte a cui scatta la reazione difensiva e negativa, con tutto il suo apparato di alibi, autogiustificazioni, timori, accomodamenti, rifiuti.
Se è Dio che si prende cura di te, svelandoti la verità di quello che sei e che sei chiamato ad essere, lo spirito del male è l’anticura, l’antivocazione, l’invidioso della tua gioia, è colui che non è interessato a te, semmai ti illude e ti inganna, infatti non ti chiede granché e sembra capirti, ti accontenta ed è subito d’accordo con le tue esitazioni e le tue paure di fronte alla chiamata divina. Ma alla fine ti buggera proprio perché non sopporta che si compia in te quel che lui ha perso per sempre; e ti lascia con l’amaro in bocca, se riesce a farti rinunciare al meglio di te e della vita (cf il giovane triste in Mt 19,22).
Un animatore vocazionale deve aver fatto questo cammino e conosciuto tentazione e rischio. È un’esperienza dura e sofferta, ma comunque passaggio obbligato, poiché al di fuori di essa non può esservi autentica conoscenza di sé, non v’è alcuna verità, nessun D verace.

6. Sguardo
Ma a cosa mira un genuino D cristiano? Se è Dio l’oggetto di esso, anzi, il vero soggetto, e se esso passa attraverso l’esperienza ora descritta, con tutta la sua ambivalenza dolorosa, quando si può dire che la persona ha imparato a discernere, o sta facendo un autentico D? O quale è il passaggio davvero autenticante? Molte volte nell’animazione vocazionale si corre il rischio di identificare bontà del D con il contenuto di esso e della scelta fatta, per cui se il soggetto sceglie di essere prete si dice che ha fatto un buon D e, al contrario, se si orienta diversamente, l’animatore vocazionale conclude un po’ triste che il tipo non ha avuto il coraggio sufficiente di fare una scelta generosa.
Non sempre è così, né lo è necessariamente. Se è lo sguardo di Dio ciò che apre alla verità (in entrambe le direzioni, in alto e in basso), ciò che qualifica il D come operazione cristiana è il fatto che la persona impara a guardarsi con lo stesso sguardo di Dio, con cui Dio la vede e la sogna. Ecco il principio fondamentale del D cristiano.
Che non è semplice obbedienza a quanto Dio avrebbe da sempre deciso, come un ossequio creaturale, magari forzoso e tanto più virtuoso quanto più obbediente e “senza se né ma”, a occhi chiusi. Ma… il contrario, ad occhi ben aperti, con occhi che hanno appreso lo sguardo di Dio, con lo sguardo di chi ha imparato da Dio a scrutare la realtà, anzitutto la propria realtà. In fondo proprio questo è il senso o il frutto della preghiera.
Se pregare vuol dire stare dinanzi a Dio per lasciarsi avvolgere dal suo sguardo, chi davvero prega ed entra in questa nube luminosa apprende, per quanto lentamente, a modificare il proprio modo di osservare la realtà, a cominciare dalla propria, e si vede di fatto con occhi nuovi, quelli di Dio. Chi prega cambia radicalmente il proprio modo di leggersi, di leggere la propria storia, ciò che conta, ciò che è vero, bello e buono, ciò che è chiamato a scegliere.

7. Specchio
Ma c’è anche un altro modo di pregare, che non è vera preghiera e non porta ad alcun D o ad un D errato. È tipico di chi non entra mai in questa disponibilità umile e intelligente, non vive l’orazione come incontro con lo sguardo di Dio, o lo vive solo in astratto. Forse riempie lo spazio orante di parole, di orazioni, di richieste, magari di preghiere vocazionali («Signore, dimmi cosa devo fare, svelami la mia strada…»), ma non si lascia guardare da Dio, non impara a lasciarsi avvolgere e godere di questo sguardo, soprattutto non apprende il guardare se stesso con gli occhi di Dio. Costui non prega, dice solo preghiere.
È come se nell’orazione si trovasse dinanzi ad uno specchio e lo specchio è sempre fallace, perché ti rimanda indietro l’immagine solita di te stesso, semmai invecchiata, senza alcuna novità; quello che sei, non quello che sei chiamato ad essere; quello che appari all’esterno, non quello che sei dentro; quello che sei di fronte a te, non quel che sei di fronte a Dio. Così la parola di Dio che uno forse ha letto, o la supplica che ha rivolto al Signore, o la bella riflessione che ha fatto o che può aver sentito, hanno appena sfiorato la sua persona, senza penetrare dentro. Ha vissuto la preghiera come un chiedere a Dio, non come un entrare nel mondo di Dio e dei suoi progetti, per riconoscere quel particolare sogno che Dio si ostina a sognare per lui.
E così esce dall’orazione come vi era entrato, non è cambiato nulla nella sua vita, torna alle cose di sempre con la stessa percezione di prima, continua a vedersi sempre allo stesso modo, stesse paure, fissazioni, presunzioni, miopie e fenomeni vari di percezione distorta. E così non arriva a nessun D autentico cristiano, indipendentemente dal contenuto di ciò che sceglie.
Evidentemente costui non potrà mai fare l’animatore vocazionale.
Vediamo perché.

8. Rispetto
Anzitutto perché, se non ha mai imparato a guardarsi con gli occhi di Dio, premessa fondamentale per fare un D cristiano vocazionale, come può pretendere di insegnarlo agli altri? Ma c’è poi un altro motivo, ancora più sottile, legato sempre alla qualità della preghiera. Quando uno prega davvero riceve in dono lo sguardo di Dio, potremmo dire. Egli, dunque, impara a guardare non solo se stesso con gli occhi di chi l’ha creato e vuole il suo bene, ma anche il prossimo, anche l’altro qualsiasi, anche l’adolescente che si sta interrogando sul suo futuro e che gli chiede aiuto. Lo fa con estrema umiltà e senso del proprio limite, senza presunzione alcuna di capire subito tutto e leggere nel futuro, senza alcuna pretesa di parlare in nome di Dio e… della corte celeste, e – per l’appunto – non nel senso di avere un filo diretto con l’Altissimo, ma semmai nel senso di guardare all’altro con estrema benevolenza, con l’interesse unico di rispettare il piano di Dio su di lui, piano che nemmeno lui, la guida, conosce, ma che vuole cercare assieme a colui che gli è stato affidato proprio per questo, perché sa che in quel piano è nascosta la sua identità e la possibilità di essere felice, così come è stato per lui. E perché vuole che sia l’altro, il giovane stesso, a fare una scelta, a scegliere di aderire al piano di Dio su di lui.
Cerca, dunque, di liberarsi anche di ogni suo eventuale sguardo solo umano, magari legato a qualche suo interesse, personale o istituzionale, persino del pur comprensibilissimo desiderio – nel nostro caso – che il giovane entri in seminario; proprio perché si è impegnato a guardarlo nella prospettiva di Dio, secondo il piano che Dio ha su di lui, non secondo i progetti, desideri, aspettative, precomprensioni, sogni… dello stesso animatore vocazionale (o dei suoi superiori). È una questione di rispetto, di rispetto di Dio, anzitutto, e della sua volontà, di rispetto del giovane e della sua unicità e singolarità, di rispetto per la Chiesa e la comunità credente che hanno bisogno che ognuno scelga e poi viva la sua propria vocazione, non quella che altri si ostinano a voler leggere in lui.

9. Libertà
Il rispetto si coniuga bene con la libertà, è – infatti – il dono reciproco tra due persone libere. Nel caso della vocazione, Dio, il Chiamante, libertà perfetta, rispetta al massimo grado il chiamato, che invece è libertà imperfetta, ma che proprio grazie al cammino vocazionale può essere progressivamente libero. La libertà è condizione e assieme conseguenza di un cammino vocazionale: per scegliere occorre essere liberi, ma scegliere bene fa crescere nella libertà.
La guida, di nuovo, si ispira allo sguardo di Dio per stabilire un rapporto nella libertà con chi sta cercando la propria verità. Quello sguardo che, come abbiamo visto prima, chiede il massimo e pure provoca a guardarsi dentro, a scoprire tutte le proprie falsità. Non è facile per noi mettere insieme le due polarità: la via crucis con la via lucis, la tensione verso l’ideale con la constatazione delle proprie fragilità, la necessità della conversione dura e severa con la trascendenza dell’ideale, il limite con le aspirazioni. Sembrano due elementi inconciliabili, come se uno potesse fare una certa scelta radicale solo se è… perfetto o già quasi santo. Eppure è proprio qui che la guida manifesta quanto abbia imparato la singolare “cura” divina.
Come non è stata prima puramente confortante l’esperienza del lasciarsi guardare da Dio, così la guida non può pensare di essere solo un amico o un buon consigliere o un fratello maggiore per il giovane che sta accompagnando, sempre d’amore e d’accordo con lui. Lo ingannerebbe se fosse solo questo. E forse, proprio per questo motivo, molti accompagnamenti vocazionali non sortiscono alcun effetto (i famosi “aborti vocazionali”). Occorre invece che gli voglia così bene da fargli scoprire quanto egli stesso rischi da solo di farsi del male.
E dunque fargli scoprire, anche se con fatica, tutto quel sottobosco caotico che riempie il suo cuore e lo confonde, quelle paure che lo frenano nelle aspirazioni, quelle forme di egoismo che lo chiudono alla relazione e lo rendono bambino, quella preoccupazione esagerata per se stesso e le proprie economie che lo condanna a non crescere mai, quella depressione-disperazione che deriva dall’incertezza circa la propria identità e amabilità radicale… Il giovane ha bisogno di essere “curato” di tutto ciò. Ha bisogno di uno sguardo che faccia luce sulla sua persona, o di una relazione che se ne prenda cura.

10. Decisione
Allora il giovane può arrivare a prendere una decisione. Una decisione che sarà buona nella misura in cui sarà presa dentro quello spazio orante di cui abbiamo detto, nell’esperienza dell’essere avvolto dallo sguardo di Dio, come risposta a quelle parole consolantissime: «Tu sei mio figlio, il prediletto…», quasi indotta da esse. Una decisione che sarà possibile nella misura in cui il giovane impara a sua volta a guardare a se stesso con lo stesso sguardo divino, sguardo che ferisce e risana, che richiama ed esalta, che dona il coraggio della verità e la forza di realizzarla. Una decisione, ancora, che può essere enormemente facilitata dall’azione della guida spirituale, mediazione preziosa dello sguardo e della cura di Dio, lui stesso “curato” da questo sguardo e bisognoso di lasciarsi ancora curare, una sorta di “guaritore ferito” che, proprio in quanto tale, ora può curare e accompagnare un fratello minore a fare questa stessa straordinaria esperienza.

La guida, ovvero gli occhi di Dio!