N.05
Settembre/Ottobre 2014

Il femminile che integra

Il presente contributo si compone di due parti: la prima è di taglio sapienziale e si appoggia su un prezioso cammeo degli Atti degli Apostoli; la seconda delinea alcune questioni di carattere antropologico e socio-ecclesiale.

1. La voce, la gioia, l’annuncio
In Atti 12,1-19 Luca narra della nuova persecuzione a Gerusalemme, del martirio di Giacomo, della prigionia di Pietro e della sua meravigliosa liberazione. Ricercando prioritariamente il significato simbolico-spirituale della narrazione lucana, ci soffermiamo sull’episodio di Rode (vv. 12-17), la giovane che, udito il bussare di Pietro e riconosciutane la voce, «per la gioia non aprì la porta, ma corse ad annunciare che fuori c’era Pietro» (v. 14).
Il quadro dell’avvenimento è costituito dai giorni degli Azzimi: è di nuovo Pasqua e di nuovo sembra che la paura abbia il sopravvento. Una giovane donna1 sente battere alla porta e si avvicina. Ascolta senza aprire. Ascolta e, senza vedere, riconosce la voce. Era, dunque, Rode una di famiglia che spesso aveva ascoltato i racconti di Pietro e della sua vita con il Maestro. E, proprio come era capitato a Maria dopo la risurrezione del Maestro, riconosce la voce, è sopraffatta dalla gioia e corre, corre dagli apostoli e, come già accaduto, non è creduta (cf Gv 20,16.20)!
È un quadretto di squisita ironia questo battere di Pietro alla porta e lo scompiglio in cui la notizia getta la comunità. Tutto per colpa di Rode, una ragazzina. Se fosse stato Giovanni a udire i colpi, forse avrebbe avuto più seguito, ma era una giovane donna…
«Alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti»… raccontavano i due di Emmaus al misterioso viandante (Lc 24,22); similmente, all’annuncio trafelato di Rode «Tu vaneggi – le dissero –. Ma ella insisteva che era proprio così» (vv. 14b-15). La giovane corre, si lasciano sopraffare dall’emozione e dimentica perfino di aprire! Tuttavia ha la forte tenacia di testimoniare ciò che ha udito, anche di fronte all’incredulità dei discepoli. 

1.1 La voce
La voce di Pietro bussa alle porte della prima Chiesa. Voce da sentire, voce cui farsi vicini, voce da riconoscere e a cui aprire. Potremmo azzardare che oggi si realizzi una situazione analoga: chi guida la Chiesa bussa alle sue porte chiedendole di uscire; si fa mano degli ultimi, mano di chi abita le periferie della storia e continua a bussare. Papa Francesco ci chiede di ascoltare chi, dentro e fuori della comunità, è voce inascoltata. L’esperienza di Rode interpella anche noi ad ascoltare – nella voce di Pietro – chi bussa alle nostre porte; senza timori, senza chiavistelli; a lasciarsi affascinare dai racconti su Gesù con l’affettuosa familiarità di chi tante volte si è seduta ai piedi dei discepoli di Gesù.
Un aspetto dell’apporto femminile nel cammino di discernimento vocazionale potrebbe essere proprio l’educazione all’ascolto di chi sta fuori, di chi sta ai margini. Se l’attitudine ad uscire da sé, a vedere le esigenze del mondo e di ogni persona è un segno qualificante di apertura alla chiamata, è attitudine che va coltivata ed esige una pedagogia della fiducia. Come e chi potrebbe mediare questo aspetto dell’itinerario? Solo chi già ha intravisto Colui che ascolta il grido, sceglie e manda a suo nome (cf Es 3,9-10). In tal senso una donna consacrata può proporsi come educatrice ad un ascolto coraggioso. Ed ancora: nel cammino che il presbitero compie conla propria comunità le donne consacrate possono essere portavoce di idiomi lontani, per la vocazione che ha portato le religiose a trapiantarsi in ogni continente e marginalità; l’esperienza maturata può essere ridonata nelle proprie chiese di origine per suscitare ancora la meraviglia che ciascuno senta i cristiani parlare nella propria lingua (cf At 2,8). 

1.2 La gioia
La gioia evangelica ha una genesi pasquale che Gesù ha definito con termini squisitamente femminili: la donna nelle doglie è afflitta… ma quando ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo (cf Gv 16,21). Questa anche la gioia che Rode annuncia: Pietro è uscito dal ventre della prigione, è vivo! L’esperienza di Gesù è quella di ogni discepolo: deve attraversare una passione, un mare, un’oscurità.
Poiché ogni vocazione deve vivere la pasqua e di pasqua ogni donna adulta nella fede può accompagnarne la genesi con la luce della speranza; testimoniare che ogni dolore, nella fede, è parto. Inoltre una gioia che offre sapore di futuro al dolore si lascia sorprendere da Dio. Nell’ansiosa preghiera della comunità di Gerusalemme non c’era posto per una simile gioia al punto che l’esaudimento della richiesta getta lo scompiglio. Rode, una ragazza ai margini con un ruolo minore nella comunità, si è lasciata attrarre dal premere di una voce di cui ha conosciuto l’accento e ha costretto tutti a muoversi verso l’incontro… Potremmo intravedere nell’ascolto della voce un itinerario di formazione alla preghiera in cui l’apporto “al femminile” ha sapore di uscita, di parto e conduce all’esperienza gioiosa del Risorto. 

1.3 L’annuncio
«Corse ad annunciare che fuori c’era Pietro». Anzitutto lo stile dell’annuncio: corse. L’urgenza della notizia non ammette indugi. Corse con un’ingenua sbadataggine che conferisce un po’ di leggerezza anche a ciò che più conta. Corse con gioia.
Quale l’oggetto dell’annuncio? Fuori c’è Pietro. Fuori perché libero dalle strettoie della prigione; fuori perché le porte della comunità erano serrate per paura. In una comunità preoccupata, sopraffatta da una preghiera incessante, ma non aperta all’imprevedibile di Dio, un annuncio tale – e offerto in quel modo – ha un effetto deflagrante. Anche nella Chiesa di oggi c’è bisogno di donne che dicano che fuori c’è Pietro che chiede alla Chiesa di uscire. Una Chiesa in uscita, espressione ricorrente nei discorsi, non ancora così incisiva nella prassi pastorale. Una Chiesa capace di ricomprendersi e ridirsi.
Se «la grazia suppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (EG 115) è indubbio che la nostra riflessione debba confrontarsi con l’importanza che la cultura riveste nel modo peculiare che hanno i membri di una determinata società di relazionarsi tra loro. Quindi, anche sui rapporti uomo-donna, presbiteri laici nella Chiesa e, inevitabilmente, sull’impatto vocazionale di tali affermazioni. Porre, come fa Papa Francesco, l’ambiguità potere potestà sotto la luce dell’Eucaristia consente di rileggere l’apporto della donna alla missione della Chiesa non come un ruolo da giocare o un posto da occupare, ma un mistero in cui entrare. Un Chiesa che si accoglie come mistero. E qui «si presenta una grande sfida per i pastori e i teologi, che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al possibile ruolo della donna lì dove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa» (EG 104)2.
Concludendo, vorrei tradurre la “grande sfida” con le parole che Gesù rivolge a Maria durante l’unzione di Betania: «Lasciala fare» (Gv 12,7). Il Maestro aveva letto la profezia in quel gesto che usciva dalla logica commerciale e metteva al centro la persona e il suo mistero. Una pastorale vocazionale che accolga la sfida del “lasciala fare!” può accompagnare verso la scelta del presbiterato con percorsi di gratuità, di bellezza, di relazioni attente al mistero che è l’altra/o e al bussare della storia. 

 

lasciala fare! differenti, di fronte
Rita Torti

Formatrice e redattrice editoriale presso IN PROPRIO e settimanale «Vita Nuova», Parma.
L’immagine del lasciala fare con cui Plautilla Brizzolara conclude la sua riflessione è suggestiva e carica di implicazioni e potenzialità.
È auspicabile e possibile accoglierla, nel contesto e nel tempo che ci è dato di vivere?

1. Costruzione del genere e parzialità maschile
Quando si affronta il tema del femminile nella formazione al e nel presbiterato, ciò di cui trattiamo è innanzitutto una questione di relazioni fra uomini e donne. Pare un’ovvietà, ma interrogarne lo spessore può essere utile, perché – come hanno mostrato i men’s studies3 – nella nostra cultura la soggettività maschile si è costruita in direzione esattamente opposta al senso profondo del “lasciala fare”, che chiederebbe di mantenere la vitalità del “due” originario preservandola da gerarchie, omologazioni, definizioni, determinismi biologici e schemi di complementarità. Non è semplice per nessuno; tantomeno per gli uomini, acculturati da secoli ad auto comprendersi come un neutro-universale rispetto a cui “il femminile”4 è considerato questione, altro da controllare e circoscrivere, comunque diverso e specifico rispetto a una norma e una normalità impersonate dal maschile5. Ancora oggi, per fare solo un esempio, chi si avvia al presbiterato ha certamente ricevuto a scuola, insieme ai coetanei, una narrazione della storia e dei saperi in cui sono presenti solo gli uomini; ha acquisito e interiorizzato paradigmi e forme di selezione della memoria che fanno luce solo sul proprio sesso e creano l’illusione potente che l’altro sia stato una comparsa immobile e passiva nell’evoluzione della vicenda umana.
Da questa costruzione del genere maschile, che è funzionale all’elaborazione e al mantenimento dell’asimmetria fra uomini e donne, non sono quindi esenti i discepoli di colui che diede (e per primo attuò) l’insegnamento del lasciala fare6. Ciò significa che la pastorale vocazionale e la formazione prima e dopo l’ordinazione non possono prescindere da una riflessione sulla specifica elaborazione di maschilità di cui non solo siamo eredi, ma che in molti aspetti stiamo tuttora attivamente alimentando. Diversamente, il rischio è quello di riproporre – seppure in forme meno appariscenti e crude di quelle del passato – dinamiche di stampo patriarcale, oltretutto ormai prive di legittimazione sociale. Ne sarebbero penalizzate le donne, certamente, ma gli uomini stessi (e tra essi i presbiteri) continuerebbero a rimanere schiacciati su un’autocomprensione di genere che ha certamente dei vantaggi – il cosiddetto “dividendo patriarcale” –, ma impone un prezzo molto alto in termini di verità, perché chiede di negare la propria vulnerabilità e soprattutto la propria parzialità di persone sessuate7. Infine, ne uscirebbe ferita e limitata l’esperienza stessa del Popolo di Dio, se è vero che – come ricorda ad esempio p. Hervé Legrand – «le posizioni dottrinali cristiane si elaborano in questo quadro generale (di relazioni tra uomini e donne) che condiziona la comprensione della scrittura, l’inculturazione della vita cristiana, i discernimenti dottrinali e pastorali del magistero, l’ecclesiologia vissuta»8.

2. Di quali donne c’è bisogno?
Il quadro così configurato richiede dunque in primo luogo una riflessione condivisa degli uomini su di sé, resa anche più complessa, nella Chiesa, dalla facilità con cui la riserva maschile del presbiterato ancora scivola indebitamente nell’identificazione fra maschilità da una parte e sacro, autorità, potere, imago Dei dall’altra. In tutto questo, come entrano o possono entrare le donne?

  1. La presenza concreta – come formatrici, guide spirituali e insegnanti, ma anche come compagne e amiche in esperienze comuni di pastorale e di servizio, di aggiornamento, di studio – è una prima condizione favorevole: non esiste “la donna”, “il femminile”; esistono invece le donne, diverse fra loro per storie, cultura e consapevolezza di sé. Se oggi, come si afferma da più parti, uno dei problemi maggiori è la paura degli uomini nei confronti delle soggettività femminili, il miglior antidoto può essere costituito da una condivisione di vita che dia concretezza all’alterità, che abitui al confronto e decostruisca giorno per giorno la retorica sulla “donna” come depositaria naturale e specifica di attitudini e valori che sono invece semplicemente umani – la cura, la tenerezza, il sacrificio di sé, la sensibilità… –: valori da cui i maschi si tengono magari lontani, ma che non per questo non sono pienamente alla loro portata.

Una condivisione di vita, anche, che mostri la piena attitudine delle donne alla pratica intellettuale, all’autorevolezza e autorità, alla competenza sulle cose del pubblico e non solo del privato.

  1. Tuttavia l’esperienza mostra che questo non basta: nelle relazioni fra presbiteri e donne si ricade facilmente in dinamiche asimmetriche, in cui le seconde sono valorizzate per il servizio che fanno, ma non sono legittimate ad esprimere una soggettività non omologata al pensiero e alle strutture costruiti e abitati dagli uomini.

Specularmente, poi, la secolare esclusione delle donne dai luoghi in cui si decidono e si definiscono gli elementi portanti della vita ecclesiale è terreno fertile per la ricerca, da parte di alcune, di un potere surrettizio. Si tratta di una via che può in effetti offrire riconoscimento e visibilità, ma si configura di solito come accesso individuale a spazi di potere (peraltro un potere concesso e perciò anche facilmente “ritirabile”), che implica l’esclusione delle altre donne, percepite come potenziali “concorrenti”. Inoltre ha il significativo limite di lasciare tendenzialmente invariati i paradigmi pastorali, teologici e spirituali del maschile mascherato da neutro a cui di fatto occorre adeguarsi per “mantenere la posizione”.

  1. Più opportuna e più fruttuosa potrebbe essere invece un’altra strada: quella di far incontrare gli uomini che si avviano al presbiterato e quelli già ordinati con donne che non rinunciano al partire da e con ciò che l’esperienza di vita, la fede e la ricerca teologica nate in questa prospettiva portano di diverso, di dissonante, di nuovo nella relazione con Dio, nell’esegesi, nella teologia9, nelle forme di chiesa, nella conoscenza del proprio tempo e nelle vie dell’annuncio del Vangelo10.

In questo caso l’orizzonte sarebbe quello di formare presbiteri che non vogliono sentirsi dire dalle donne cose che hanno già pensato da sé, ma invece desiderosi di una reale alterità/asperità che li aiuti a passare dal credere se stessi e i saperi elaborati dai propri simili come oggettivi e universali al riconoscerli – quali realmente sono – sessuati e parziali. Uomini – presbiteri – che nell’incontro dialogante e paritario con un’alterità irriducibile e non omologabile sentono non di perdere potere, ma di guadagnare in libertà e verità, e di far guadagnare qualcosa a tutta la Chiesa. Lasciala fare.

NOTE
1 Non si coglie la necessità di tradurre “serva” ciò che il testo greco descrive come παιδίσκη, la Nova vulgata traduce “puella”; la versione Cei 1974 “fanciulla” e il Testo Interconfessionale rende con “ragazza”. Preferiamo pertanto evidenziare l’accezione di giovane donna, anche se nulla vieta che abbia anche svolto un ruolo di servizio nella ricca casa di Giovanni Marco.
2 In base all’esperienza, proprio il fatto che alle donne non sia riconosciuto il ruolo istituzionale conferisce debolezza e forza insieme. Debolezza, perché un ruolo costituisce una corazza che offre sicurezze condivise; forza, perché consente di entrare nella realtà con un grimaldello che inizia a scalfire inveterate abitudini, accogliendo l’invito rivolto a tutti: «Ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (EG 33).
3 Per un’introduzione sintetica si veda il contributo di C. Vedovati in E. Dell’Agnese – E. Ruspini (a cura di), Mascolinità all’italiana. Costruzioni, narrazioni, mutamenti, Utet, Torino 2007. Si veda anche www.maschileplurale.it
4 Segnalo con le virgolette la cautela con cui ritengo vada impiegata questa categoria astratta che accorpa a priori tutte le donne sotto un unico ombrello di caratteristiche che sarebbero native, comuni e specifiche dell’appartenenza al sesso biologico.
5 Non escono da questa logica nemmeno le mistiche della femminilità – vale a dire le visioni del “femminile” come portatore di valori anche altissimi – presenti ad esempio nella riflessione soprattutto maschile di ambito cattolico.
6 Si può notare qui l’utilità di distinguere tra sex (sesso biologico) e gender (genere, cioè il complesso di significati che una società attribuisce all’uno e altro corpo sessuato, e le conseguenze materiali e simboliche che ne derivano per gli individui e la collettività): l’alternativa sarebbe quella di considerare “naturale”, e quindi immutabile, la maschilità patriarcale con il suo portato di ingiustizia e di violenza.
7 Si veda a questo proposito la consapevole testimonianza di don Marco Uriati nella Prefazione a R. Torti, Mamma, perché Dio è maschio?, cit.
8 “Uomini e donne nella chiesa occidentale. Il retroterra culturale e teologico“, in M. Perroni – H. Legrand, Avendo qualcosa da dire. Teologhe e teologi rileggono il Vaticano II, Paoline, Milano 2014,p. 15.
9 Per uno sguardo sintetico su una produzione ormai molto vasta e articolata si possono vedere inizialmente il contributo del Coordinamento teologhe italiane, “Teologia e prospettive di genere“, in P. Ciardella – A. Montan (a cura di), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Storia, impostazioni metodologiche, prospettive, Elledici, Torino 2011, e E. Green, Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista, Claudiana, Torino 2011.
10 Questo tipo di interlocuzione reale con il pensiero, il sapere, la narrazione di vita e gli orizzonti di fede delle donne sarebbe di grande aiuto anche nei cammini di accompagnamento nei casi in cui il presbitero (uomo) è guida di una sua sorella credente, e in ogni caso nella celebrazione del Sacramento della Penitenza-Riconciliazione.