N.05
Settembre/Ottobre 2014

Per un “presbiterio vocazionale”

1. “Racconti di vocazione”: una smentita?
Ai seminaristi, i novizi, le novizie è spesso richiesto da coloro che li accompagnano, dai coetanei che si sorprendono della loro scelta, dai giornalisti, dai frequentatori dei social media di raccontare la “storia della loro vocazione”. Questi racconti hanno una funzione retorica e talora si modificano nel tempo o cambiano a secondo degli interlocutori e dell’effetto che si vorrebbe ottenere.
La storia di una vocazione, se si può usare questa espressione in modo così disinvolto, è una vicenda molto più complessa e per molti aspetti indecifrabile: solo quando verranno aperti i libri della vita e si compirà il giudizio di Dio la storia apparirà in tutta la sua luce e in tutte le sue ombre.
Ad ogni modo, nei racconti di vocazione ci sono alcune costanti che, per semplificare, riduco a due. La prima costante è che si riconosce la presenza determinante di una persona: spesso si tratta di un prete, un prete santo, ma anche un prete mediocre, un prete che con il suo esempio, con una sua parola, con una esplicita provocazione è stato “lo strumento di Dio” per orientare un cammino. La seconda costante è che si riconosce un evento come una svolta decisiva: un evento lieto, un entusiasmo contagioso, ma anche un evento personale, un momento di preghiera intensa o un pellegrinaggio e persino un evento doloroso, una dura prova che ha toccato gli affetti più cari o i sogni più intensamente coltivati, un evento in cui si è percepita una particolare presenza di Dio e l’appello ad una decisione.
Dunque una persona, spesso un prete, e un’esperienza spirituale.
Non mi è mai capitato di sentir raccontare che l’intuizione vocazionale sia stata propiziata da “un presbiterio”, cioè da quella forma di appartenenza al clero che si esprime visibilmente nella relazione con il vescovo e nella condivisione della vita e della missione con gli altri preti.
Questa considerazione è dunque una smentita della tesi proposta nel titolo? Il fatto che a partire dal Concilio Vaticano II si insista sull’appartenenza al presbiterio e il fatto che la riduzione numerica dei preti convinca ad una pastorale condotta insieme, renderà meno incisiva la proposta vocazionale, essendo meno diretto il rapporto del giovane in ricerca con il singolo prete? Può essere una “istituzione” una attrattiva che favorisca una scelta di consacrazione?
Le domande che sorgono non sono banali, tanto più che nel nostro tempo il presbiterio appare piuttosto screditato, spesso oggetto di critiche e di luoghi comuni sprezzanti. Mentre si continua ad apprezzare il prete che si conosce, ad ammirarne la dedizione, il clero nel suo insieme è piuttosto bersaglio di insulti e circondato da un sospetto pregiudiziale.

2. La testimonianza apostolica: anacronismo o esemplarità autorevole?
Da epoche lontane, contesti diversi, sensibilità così contrastanti con quelle attuali, giunge a noi la testimonianza apostolica come rivelazione della benedizione di Dio nella vicenda storica di Gesù e nella missione che i discepoli di Gesù hanno iniziato per obbedienza alla sua Parola, rivestiti di potenza dall’alto con il dono dello Spirito Santo.
Nella letteratura canonica i racconti di vocazione sono molto diversi da quelli di seminaristi, novizi e novizie. Viene il sospetto che quei racconti siano anacronistici rispetto alle vicende personali del nostro tempo, in cui l’enfasi sulla libertà e il protagonismo, per lo più illusorio, dell’individuo interpreta e attraversa le vicende in un modo tanto diverso.
Non sembra però del tutto infondato ritornare alle vicende del Nuovo Testamento per cercarvi una esemplarità autorevole, con la saggezza di evitare un letteralismo ingenuo e una trasposizione materiale.
L’impressione complessiva che se ne ricava è che Gesù, presto abbandonato dall’entusiasmo popolare, abbia attuato la sua missione costituendo un gruppo (i Dodici, i discepoli, le donne che lo seguivano dalla Galilea). La vicenda post pasquale fa indubbiamente emergere il protagonismo di alcune personalità, ma la chiamata a partecipare alla missione apostolica è frutto di un discernimento comunitario e si configura come inserimento in un gruppo, pur nella varietà dei diversi contesti (i Dodici a Gerusalemme, la comunità di Antiochia, i collaboratori di Paolo, ecc.). Persino la vicenda personalissima di Saulo/Paolo e il suo protagonismo missionario hanno un punto di riferimento decisivo nella comunità di Antiochia e nel gruppo dei Dodici.
Anche se il riferimento qui proposto è troppo sommario per essere un vero e proprio argomento, credo che possa motivare la riflessione sul presbiterio come contesto vocazionale. Date le premesse, la riflessione si svolge come immaginazione di un compito da svolgere e di un cammino da inventare, più che come una dottrina da recepire o di una esperienza da condividere.

3. Il presbiterio come contesto vocazionale: un cammino da inventare
La vita delle persone è una cosa seria e il Signore se ne fa carico perché desidera che ciascuno giunga a vivere in pienezza e a partecipare della sua gioia: cioè, il Signore chiama alla vita e fa della vita una vocazione.
La vita delle persone è una cosa seria, anche se molti non lo sanno e si sprecano senza chiedersi come valga la pena di vivere e quale sia la speranza che apra orizzonti di vita eterna.
La vita delle persone è una cosa seria e nessuno è autorizzato a trattarla con superficialità: il tema “vocazione” è uno dei temi maggiori della vita, una delle categorie più necessarie per prendere sul serio la vita. Perciò i pastori che il Signore ha posto a guida del suo popolo hanno la responsabilità di insistere perché ciascuno sia raggiunto da un annuncio che aiuti a comprendere la vita e il suo significato. Per prendere sul serio una cosa seria come la vita e la sua dinamica vocazionale, il presbiterio nel suo insieme e le sue concrete attuazioni locali possono offrire un servizio prezioso e devono vigilare per evitare la tentazione di essere essi stessi un ostacolo e un motivo di scoraggiamento e disorientamento. Possiamo arrischiare qualche suggestione per un cammino da inventare. 

3.1 La sincerità della testimonianza e la doverosa sintesi nella riconoscenza
La grazia di essere preti, di appartenere al presbiterio diocesano, di essere a servizio della missione del Signore è un dono incomparabile.
Quindi l’espressione di rito che si pronuncia in occasione delle fin troppo ripetute feste per i preti: «Sono felice di essere prete, sono un prete felice» è del tutto giustificata. Risulta però incomprensibile che mentre si proclama nel contesto celebrativo la propria gioia di essere preti, alcuni preti siano inclini a lamentarsi del parroco, del vescovo, del giovane confratello, della suora e persino del sacrista.
Non si vede come possa essere proponibile a un giovane in ricerca vocazionale di entrare a far parte di un gruppo di persone e di assumere un ruolo che mette a contatto con persone così insopportabili.
In verità la tendenza al lamento generalizzato, più che la rilevazione di difficoltà, è un’ingiustizia che si commette verso gli altri e verso se stessi, esasperandosi per le comprensibili imperfezioni e inadeguatezze invece che apprezzando la dedizione e le intenzioni.
I membri di un presbiterio dovrebbero piuttosto testimoniare con sincerità che se devono proporre una sintesi della loro vita devono solo essere grati: in pubblico e in privato. La consuetudine a vivere come linguaggio quotidiano la riconoscenza, per altro abituale nella liturgia di ogni giorno, è il primo tratto che rende promettente, anche dal punto di vista vocazionale, la vita del prete. 

3.2 La consapevolezza della sproporzione
La dinamica vocazionale è animata dallo Spirito di Dio che suscita la libera risposta dei figli di Dio perché credano e credendo siano salvati. Il ministero ordinato è strumento perché il Vangelo della vita come vocazione raggiunga ogni destinatario e lo incoraggi a rispondere con la sua scelta personale. Si tratta però solo di uno strumento: non può presumere di produrre un risultato con l’automatismo di un programma o con l’artificiosa esecuzione di un progetto. La consapevolezza dell’inadeguatezza di iniziative e proclami, di impegno personale e programmi diocesani al fine di «far nascere vocazioni per il ministero ordinato (o in genere per la vita consacrata)» sembra un’ovvietà, ma deve essere anche una esperienza spirituale. La sproporzione non può significare la rassegnazione o una sorta di delega perché il Signore “ci pensi Lui, visto che la Chiesa è sua”. Piuttosto, dovrebbe motivare un confronto, una ricerca e una preghiera insistente, non solo e non tanto perché il padrone della messe mandi operai per la sua messe, quanto per interrogarsi sulla fede delle comunità, sulla loro fiducia in Dio, sulla fede dei ministri ordinati, sulle forme che il ministero ordinato deve assumere, provocato dal contesto in cui la riduzione numerica e l’ambiguità di una società, confusa tra secolarizzazione e ricerca di esperienze rassicuranti nelle forme più varie di sacro, mettono a disagio la comunità cristiana con sfide inedite e indifferenze ostinate e incomprensibili. 

3.3 La cura per la fede della comunità cristiana
Non è difficile condividere la tesi che la “crisi delle vocazioni di speciale consacrazione” è in radice una crisi di fede. Sembra infatti che la gran parte della gente delle nostre terre, in questa vecchia Europa, possa vivere senza un riferimento significativo a Dio e possa passare molto tempo senza pregare e possa affrontare i problemi fondamentali della vita senza coinvolgere Dio o percepire la presenza di Dio. Questo tema generalissimo interroga in modo specifico il presbiterio e il clero di una diocesi: infatti la missione che Gesù ha affidato ai suoi discepoli e che continua nel nostro tempo intende suscitare la fede per potenza di Spirito Santo. Tale missione sembra imporre, nel nostro tempo, un ripensamento della vita del clero, perché la missione non è, se mai lo è stata, impresa personale di qualche eroe solitario né incarico di gestire una istituzione affidata a un funzionario competente. La missione è un frutto della comunione ecclesiale che deve trovare nella comunione nel clero un punto di riferimento simbolico convincente.
Se il presbiterio trova la lucidità e la determinazione per riformarsi e rendere così esplicito che per edificare la fede della gente, cioè per continuare la missione di Gesù, è necessario edificare una fraternità visibile, vivere una comunione di intenti con il vescovo e con tutta la Chiesa, esibire come segno della presenza del Regno la carità fraterna e l’unione dei credenti, allora, promuovendo la fede in questa forma specifica della comunione ecclesiale, promuove anche le vocazioni per l’edificazione di questa comunità.
Quello che si vuol dire è che la decisione di una persona per una vocazione di speciale consacrazione è frutto della fede che è il principio e il fondamento della vocazione cristiana. Non si può escludere che ci siano (e ci siano state) vocazioni che si sono sviluppate a prescindere dalla fede, come aspirazione a un ruolo o come ambizione personale o come desiderio di esprimere le proprie attitudini o anche solo di cercare una sistemazione rassicurante, ma credo che si debba constatare che l’esito di queste storie sia stata o la conversione ad una fede ritrovata o una vita rovinata e rovinosa. 

3.4 La franchezza di una proposta di vita attraente e praticabile
Il presbiterio diocesano è chiamato a definire se stesso in modo più chiaro. Forse si tratta di una fantasticheria, ma sembra auspicabile che si viva questo periodo storico che per molti aspetti è tempo di prova e di fatica, come una occasione per decidere una sorta di ridefinizione della figura del prete e del suo ruolo nella comunità.
L’alternativa sarebbe lasciarsi andare sulla superficie scivolosa del declino, tentando aggiustamenti e interventi di emergenza che hanno come esito una insoddisfazione generale e un accumularsi di incarichi fino ad esaurire le forze e ingenerare un senso di frustrazione deprimente. Perciò si può sperare che lo Spirito di Dio infonda coraggio e lucidità per definire il ministero ordinato per la sua appartenenza al clero, e in particolare al presbiterio, e per indicare, tra le prestazioni richieste, le priorità tradizionali: «Noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della parola». Se l’insistenza sull’appartenenza al presbiterio potesse ottenere una migliore identificazione del ministero del prete e una disciplina di vita che sia più riconoscibile come “vita da prete” perché più evidentemente dedicata all’essenziale, si può anche immaginare che si possa fare alle persone, in cui si riconosce un’attitudine, la proposta esplicita:
«Vieni! Vedi! Entra anche tu in questa comunione per la missione a servizio della Chiesa!».
L’esplicita e franca proposta ad una persona concreta di una scelta di vita consacrata è troppo rara. Le ragioni sono molteplici: il timore di condizionare una giovane libertà; la percezione che la proposta possa essere interpretata come un interessato reclutamento funzionale all’istituzione; la persuasione che i genitori intendano la proposta come indebita ingerenza e reagiscano con risentimento; il fatto che il prete stesso può essere scontento della sua scelta e quindi incline più a dissuadere che ad accompagnare in una verifica.
Alcune di queste ragioni sono plausibili. I presbiteri devono però essere convinti che il loro compito non è di essere popolari e generici promotori di buoni sentimenti, ma coraggiosi annunciatori del Vangelo che si rivolge sempre ad ogni singola persona e chiede di decidersi per una scelta di vita che introduca a quella gioia che il mondo non può dare e che è il segreto di Dio.
Perciò l’esplicito invito rivolto a persone che rivelano attitudini per il ministero, la possibilità di proporre una scelta di vita esigente, determinata in modo riconoscibile, una precisa appartenenza al presbiterio e una perspicua definizione di ruolo si devono considerare un aiuto per la libertà di una persona che cerca la sua verità e una manifestazione della premura del buon pastore che conosce le sue pecore e le chiama per nome. 

3.5 L’accompagnamento come introduzione al ministero nel presbiterio
Le esercitazioni pastorali che sono proposte durante il cammino di formazione seminaristica non vanno sopravvalutate. Sono infatti vissute in condizioni che rendono necessariamente tutto un po’ artificioso.
Questo non toglie che possano essere significative per mettere in evidenza attitudini e limiti, disponibilità e resistenze, capacità di adattamento e libertà nei distacchi, senso del limite e spirito di fede.
Se diventa più evidente che l’ambito di esercizio del ministero è l’inserimento nel presbiterio e in un gruppo di operatori pastorali e che il ministero è un esercizio di comunione per la missione, prima che un insieme di iniziative e di prestazioni di cui essere incaricato, anche le esercitazioni pastorali devono plausibilmente essere una introduzione nel presbiterio e, più precisamente, in un senso di appartenenza al presbiterio diocesano che si determina in concreto nel presbiterio locale al quale il seminarista è affidato. L’accompagnamento delle esercitazioni pastorali deve pertanto sostenere, verificare, correggere anche questo aspetto nel candidato.
In primo luogo si tratta di accompagnare nell’assunzione di un atteggiamento spirituale che viva questo inserimento come una grazia, come una rivelazione della presenza del Signore là dove due o tre sono riuniti nel suo nome. Si deve infatti imparare uno sguardo, una benevolenza, una disponibilità all’obbedienza e al confronto che danno anche alle relazioni più ordinarie la qualità alta dell’amore fraterno. Si deve anche fare esercizio di realismo: l’introduzione nel presbiterio non è l’ingresso in una terra promessa dove tutto è esemplare e perfetto; è piuttosto stabilire relazioni con uomini che sono santi per vocazione e peccatori per condizione, con persone che nell’esercizio del loro ministero e nella vita privata esprimono tutte le loro virtù e anche le loro fragilità e inadeguatezze.
Lo sguardo che lo Spirito suggerisce non è quello che indulge alla complicità o si abbandona al pettegolezzo e alla mormorazione o si permette il giudizio sbrigativo; è piuttosto quello che sa apprezzare e perdonare, sostenere e correggere, imparare e ammirare e rendere grazie.
In secondo luogo si tratta di accompagnare nell’apprendere una grammatica della relazione entro il presbiterio e entro il gruppo degli operatori pastorali con i quali si è chiamati a collaborare. La grammatica della relazione comprende diversi capitoli che si possono qui solo alludere: la condivisione delle intenzioni circa le priorità da perseguire e i modi concreti per perseguirle; le modalità della condivisione, del confronto, della verifica; le forme di esercizio dell’obbedienza e della libertà; l’esercizio dell’autocritica e della correzione fraterna, la pratica della buona educazione e dell’attenzione alle diverse sensibilità ed esigenze.
Il presbiterio che accoglie e accompagna le esercitazioni pastorali può offrire una preziosa collaborazione ai formatori e un contributo significativo alla storia di una vocazione.
È evidente che qualche cosa di analogo vale per le esercitazioni proposte a novizi e novizie orientati alla vita consacrata. 

Conclusione
Il presbiterio ha una storia che comincia con i tempi apostolici e conosce forme molto diversificate nelle diverse epoche e situazioni. Forse nel nostro tempo è necessaria una presa di coscienza più esplicita che qualifichi l’appartenenza al presbiterio come elemento determinante per il ministero ordinato, non solo a livello di riflessione teologica, ma anche nella vita spirituale e nel servizio pastorale concreto. Questa più avvertita consapevolezza può essere, come qui si è cercato di immaginare, anche una risorsa vocazionale.