N.05
Settembre/Ottobre 2015

Nazaret, “un tesoro nascosto nel campo”

«Ho perso la testa per questo Gesù di Nazaret, crocifisso 1900 anni fa, e ora passo la mia vita cercando di imitarlo per quanto la mia fragilità me lo permette»1.
Con queste parole, in una lettera ad un amico, Charles de Foucauld2 riassume la storia della sua vita: una storia di un “cuore donato e perso”, di amicizia reale e forte con Qualcuno, Vivente e vicino, il cui sguardo lo ha affascinato: Gesù di Nazaret. Per tutta la sua vita ha cercato il modo migliore di «abbracciare l’umile ed oscura esistenza del divino operaio di Nazaret», come dirà altrove. Tale ricerca lo condurrà sempre più avanti nella prossimità con la gente, passando dalla ricerca di una separazione dietro le mura di una Trappa, all’inserzione tra gli abitanti del Sahara algerino, scelti perché erano «i più abbandonati». In questo lungo cammino, lascerà gradualmente l’immagine della “Sacra Famiglia” come la pietà popolare del suo tempo la presentava, per adottare un linguaggio – ed una attitudine – di una fratellanza con tutti, fraternità fatta di relazioni di amicizia, di reciprocità, di stima dell’altro, di tenerezza.
Già dai primi membri dell’Associazione da lui stesso fondata fino ad oggi, la sua Famiglia spirituale raccoglie e “rumina” incessantemente questa intuizione di Nazaret. Ciascun gruppo della Famiglia ha le sue caratteristiche proprie, ma Nazaret resta l’elemento-chiave, che si traduce a volte attraverso un impegno di vita tra i poveri o coloro che oggi chiamiamo, con papa Francesco, «le periferie esistenziali».
Le pagine che seguono sono una specie di rilettura piena di stupore, di anni di vita condivisa con la gente di un quartiere popolare, la grande gioia di scoprirvi il tesoro di Nazaret: Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo (Mt 13,44).

1. Nazaret: il luogo dove Dio si umanizza
Qualche volta si dice: «Il Vangelo non parla degli anni di Gesù a Nazaret. Come potete prendere Nazaret ad esempio di vita?». È vero, i Vangeli sono più che discreti, ma il poco che si dice è molto significativo e non è detto per caso. Ragione in più, dunque, per esaminarlo da vicino.
Nazaret e la Galilea sono disprezzate come luoghi insignificanti nella storia della salvezza: «Da Nazaret, può mai venire qualche cosa di buono?», domanda Natanaele (Gv 1,46); «Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!«, rispondono i Farisei (Gv 7,52). Per i vari gruppi religiosi, la cerchia del potere, i dottori e i letterati, Gesù è un uomo di questa provincia marginale e di cui nessuno si può fidare. Certamente non hanno di lui un’opinione migliore di quella che nutrono per coloro che gli vanno dietro: «Questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!» (Gv 7,49).
È un uomo esposto, senza speciale protezione, agli occhi dei notabili imbarazzante pedina da giocare sulla scacchiera politica: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50). Egli, però, assume per intero questa situazione di uomo ordinario e ciò lo porterà alla morte. Il Vangelo, tuttavia, indica chiaramente che in tutto questo siamo davanti al vero “volto di Dio” e del suo modo di agire: «Credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26,53; Gv 11,51).
È, dunque, assai sorprendente pensare che tutto ciò che Gesù ci dice su Dio, sull’uomo e sul rapporto tra Dio e l’uomo, è stato meditato e vissuto da qualcuno di questa “massa”, di questa folla ordinaria disprezzata e sospettata dagli esperti e dai “grandi”. La sua parola è dunque una parola di un “piccolo”, di uno che ha integrato nella sua personalità questo disprezzo rivolto ai suoi.
Per altro verso, l’offerta di Maria e Giuseppe alla presentazione di Gesù al Tempio è propria di coloro che non hanno mezzi sufficienti per offrire un capo di bestiame anche piccolo (cf Lev 12,6-8). Una famiglia modesta, dunque, benché ci siano certamente delle famiglie anche più povere (cf Lev 5,11). Più avanti non si potrà cancellare questa memoria. Gesù rimane un uomo ordinario di Nazaret, senza particolare rilevanza. Ma qui sorge il motivo dello scandalo. Quando ha cominciato ad insegnare e a compiere guarigioni, gli stessi compaesani ne restano scandalizzati: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,54). Del resto, la gente di Gerusalemme non è da meno: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?» (Gv 7,15).
La risposta a queste domande è data dallo stesso Vangelo ed è una risposta luminosa: «Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,39-40).
Questa ultima formula la troviamo pressoché identica due volte, in Lc 2,39ss, dopo la presentazione di Gesù al Tempio, e in Lc 2,51, dopo il ritrovamento nel Tempio a discutere con i dottori della Legge. Si tratta di un aspetto da non dimenticare. Per due volte, dunque, sempre dopo una scena che si svolge nel Tempio, ci viene presentato Nazaret come il luogo della crescita e della grazia, una scuola di saggezza. Questi fatti sono ancora più stupefacenti se pensiamo che Luca, con ogni probabilità, rimanda alla storia del bambino Samuele3. Del giovane profeta viene sottolineato diverse volte che il suo luogo di crescita nel servizio di Dio è il Tempio (cf 1Sam 2,11.18.21.26 e 1Sam 3). Curiosamente l’evangelista riprende le stesse espressioni per evidenziare, però, la radicale differenza e novità della condizione di Gesù: il suo luogo di crescita, sia fisica che in sapienza e grazia, è proprio Nazaret! Luca vi insiste: una volta ritrovato nel Tempio, Gesù si meraviglia: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma il Vangelo chiude dicendo che i genitori non capivano e che, pertanto, tornò con loro a Nazaret: «Stava loro sottomesso, crescendo in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». Gesù deve, dunque, restare con il Padre, ma di fronte agli occhi attoniti dei suoi genitori, scopre che essere con il Padre vuol dire stare con loro a Nazaret; essere il Figlio dell’Altissimo vuol dire stare loro sottomesso.
«Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname?». Certamente attraverso quest’interrogativo il Vangelo vuol dirci che la sua saggezza viene da “altrove”, dalla sua filiazione divina. Tuttavia, se l’Incarnazione ha un senso, è necessario che prendiamo sul serio anche l’altra dimensione che il Vangelo sottolinea con forza: questa saggezza che desta meraviglia, Gesù l’ha acquisita alla scuola della gente semplice e della vita ordinaria, attraverso le relazioni familiari nel villaggio, alla sinagoga, sul lavoro, osservando la vita, la gente, la natura, ascoltando. Potremmo dire che è qui, a Nazaret, che Dio si umanizza. Ci parla del Padre con le parole e le disposizioni di un abitante della Galilea, apprese dalla sua esperienza di Nazaret, e queste parole e queste disposizioni sono atti di rivelazione.
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza… Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,25-27). Se un giorno Gesù può gridare questo, è perché lui stesso ha sperimentato questa saggezza dei piccoli. Non bisogna dimenticare troppo in fretta che il Figlio che rivela è «l’umile e povero operaio di Nazaret», per usare l’espressione di Charles de Foucauld. Misterioso atteggiamento di Dio che assume non un’umanità “in generale”, ma questa umanità specifica e particolare, senz’altro perché la giudica più adeguata ad esprimere in modo corretto di chi sia Dio e quale sia il suo volere!
È, dunque, importante scrutare nei Vangeli ciò che Gesù ha imparato a Nazaret e il tipo di personalità umana che è diventato. E se questo contesto di vita con la gente semplice di Nazaret è stato il terreno fertile dove Dio si è “umanizzato”, anche noi siamo autorizzati a pensare che, malgrado tutti i nostri limiti e fragilità, nello stesso contesto e con lo stesso Spirito che ha animato Gesù (Spirito che ci è stato promesso e donato!), il “Nazaret” della vita ordinaria condivisa con i “piccoli” potrà essere anche per noi il luogo della nostra crescita «in sapienza e grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini».

2. La vita quotidiana come “rivelazione dell’immagine di Dio”
Noi viviamo a duemila anni di distanza dal tempo di Gesù, in un contesto ben diverso da quello che lui ha conosciuto e, tuttavia, condividendo la vita di un quartiere popolare, gomito a gomito con la gente la cui vita è dura a tanti livelli, si resta sconcertati e pieni di stupore nel constatare l’attualità del Vangelo. Quella donna che mette a soqquadro tutta la casa per ritrovare la moneta perduta (o un biglietto di 5 € che le restano per finire il mese), abita proprio nel nostro palazzo e ci ricorda che Dio è alla nostra ricerca con la stessa angoscia. L’uomo svegliato dall’amico in piena notte che, alla fine, si scomoda per donare del pane (o compilare un documento amministrativo!…), non necessariamente per amicizia, quanto per essere lasciato in pace, lo vediamo tutte le mattine come in uno specchio nella nostra vita quotidiana. Anche lui ci ricorda che il Padre non rifiuta il suo Spirito se lo chiediamo con insistenza. E l’uomo buono che riesce a “trar fuori il meglio” dal tesoro della sua religione (cf Mt 13,52), è il vicino dello stesso pianerottolo4.
Percepire l’umiliazione del povero che non può ricambiare, fare attenzione all’offerta insignificante della vedova che dà tutto quello che possiede, toccare concretamente colui che viene scartato perché malato, lasciarsi abbracciare da una persona additata da tutti come “poco di buono”…: bisogna aver frequentato per tanto tempo il mondo dei piccoli e degli esclusi per avere una tale delicatezza. «I poveri non sono dei “piccoli santi», si dice spesso; tuttavia almeno essi non nascondono le loro imperfezioni quando si sta con loro. Da qui deriva quella sensibilità immediata contro l’ipocrisia di coloro che dicono ma non fanno niente o che agiscono per mettersi in mostra. Senza parlare del buon senso quotidiano che dona alla gente semplice la percezione dell’assurdità di una legge che non è più al servizio della vita: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?» (Lc 14,5). Possiamo riconoscere altri atteggiamenti di Gesù che incontriamo ogni giorno attorno a noi, se solo apriamo bene gli occhi!
Eccoci, allora, ad una scoperta sensazionale: il Vangelo è stato scritto proprio per “oggi”, proprio perché stilato a partire dalla vita ordinaria della gente! Contiene un invito ad un duplice atteggiamento: leggere la vita quotidiana alla luce del Vangelo, certo, ma anche, in secondo luogo, leggere il Vangelo alla luce del quotidiano, vale a dire, ritrovare tutta l’umanità nascosta nei piccoli (…e grandi) gesti d’amore fatti da chi ci sta intorno, nelle loro riflessioni sulla vita. Significa ritrovare oggi ciò che ha sconvolto Gesù, ciò che ha amato e mostrato quale segno evidente del Regno di Dio. In un certo senso si tratta di bere alla sorgente del Vangelo, partecipare alla lode e ammirazione di Gesù stesso: «Donna, la tua fede è grande!» (Mc 15,28); «Neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9); «Non sei lontano dal Regno di Dio» (Mc 12,33).
È un impegno, questo, che ci occupa a tempo pieno, non solo nei momenti di preghiera, ma nel mantenere un cuore sempre “vigile”. Ogni incontro, ogni evento dovrebbe trovarci così attenti e coscienti, per riconoscere i segni del Regno, sotto gli umilissimi gesti della vita quotidiana (cf Gv 21,7-12).

3. L’attitudine fondamentale di Nazaret: “Essere fratelli”
Quanto abbiamo appena condiviso suppone da parte nostra uno sguardo fraterno sul mondo e sulle persone. «Soprattutto, vedere in ogni persona un fratello», insisteva Charles de Foucauld.
Che cosa significa questo? Spesso dimentichiamo un aspetto assai importante. Facciamo la prova: chiedete a un gruppo di cristiani qual è il passo che esprime meglio il fatto che tutti siamo fratelli. Vi si citerà quasi certamente il versetto: «Voi non avete che un Padre solo e voi siete tutti fratelli». Il problema è che questa citazione, così evangelica, non esiste nel Vangelo! Durante la polemica tra scribi e farisei, il Vangelo di Matteo dice: «Amano essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,8-9).
È abbastanza significativo che la parola “fratello” sia associata in questo testo di Matteo non alla figura del Padre, ma a quella di “Rabbì” (Maestro), colui che insegna. Ciò significa puntare il dito su una delle più grandi tentazioni, quella di voler sempre insegnare agli altri, dimenticando di imparare da loro! Diversamente, voler vivere tra la gente come dei fratelli ci invita ad entrare in un altro atteggiamento: siamo fratelli dei “piccoli”, se camminiamo insieme condividendo la luce che ciascuno porta in sé.
Qui si manifesta l’attesa e la realizzazione della nuova alleanza promessa: «Porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro» (Eb 8,10-11, citando Ger 31,33ss).
Per vivere una relazione di vera fraternità, non basta, anche se è la prima disposizione necessaria, farsi “prossimo”, essere abbordabile, “farsi piccolo” in modo che l’altro possa osare chiedermi qualsiasi cosa. Che l’altro possa considerarmi come un fratello non basta, se non cambio il mio sguardo su di lui. Come persona e come figlio di Dio anche in lui/lei c’è l’azione dello Spirito e ciascuno cerca di rispondere a ciò che gli sembra bene, con la luce di cui dispone, giorno per giorno. Dalla sua fedeltà – fragile come la mia – posso imparare e, grazie alla sua vita, anch’io posso crescere se accetto di mettermi alla sua scuola: solo allora cammineremmo veramente insieme come fratelli5.
Ancora un atteggiamento riscontriamo in Gesù: lo vediamo sempre disposto ad imparare, a lasciarsi mettere in questione, ogni volta che si trova di fronte alla rettitudine e alla fede, da qualsiasi parte esse vengano, da uno straniero come il centurione (Lc 7,1-10) e la Cananea (Mt 15,21-28), da sua madre (Gv 2,1-11; Lc 2,48-52), o da uno scriba (Mc 12,34).
Può darsi che abbiamo assimilato troppo bene la frase di San Paolo attribuita a Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Ci soddisfa donare, ma non ci piace lasciar trapelare i nostri bisogni, in altre parole, noi non accettiamo facilmente di ricevere. Ciò che noi desideriamo fare agli altri (mostrandoci loro fratelli nell’aiutarli, accogliendoli, valorizzandoli e facendoci loro “prossimo”), non permettiamo che essi facciano altrettanto per noi! Camminare con loro in verità, senza nascondere i nostri limiti e le nostre necessità, con tutte le nostre piccolezze e grandezze, è, può darsi, il modo migliore di dar loro l’opportunità di considerarci come fratelli, proprio lasciandoci aiutare da loro! Anche questo è Nazaret, essere così piccoli da permettere all’altro di dare il meglio di sé. «Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41 e Mt 10,42).

4. Se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto! (Es 32,32)

La parola “fratello” è appropriata per designare l’attitudine di Gesù verso gli esclusi del suo tempo. Un rimprovero che gli si fa sovente, per esempio, è quello di fraternizzare con i pubblicani e i peccatori (cf Lc 5,30; 7,34; 15,2). Curiosamente uno dei testi che più utilizza la parola “fratello” nel Nuovo Testamento è la Lettera agli Ebrei, facendo di questa fraternità radicale la condizione stessa del sacerdozio di Gesù: «Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Come interpretare questo?
Veniamo ai meravigliosi capitoli 32 e 34 dell’Esodo. Mosè è con Dio sulla montagna e ha appena ricevuto le Tavole della legge. Il Signore lo previene: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito… Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,7-10).
Ma prima di scendere Mosè cerca di calmare Dio. Si tratta di un meraviglioso dialogo nel quale, in ragione dell’amicizia, Mosè si permette quasi di correggere Dio stesso a riguardo della curiosa espressione che si è sentito rivolgere: «Il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto» (Es 32,7). Infatti, Mosè risponde: quel popolo è «il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente» (Es 32,11). In tal modo Mosè fa appello all’onore di Dio ed Egli rinuncia a distruggere il popolo. Ma una volta sceso dal monte, Mosè si rende conto della gravità del peccato ed è preso dalla stessa collera di Dio: frantuma le Tavole della Legge e fa bere al popolo le ceneri del vitello d’oro polverizzato. Poi sale di nuovo sulla montagna e il dialogo con Dio riprende: sì, essi hanno peccato, ma «se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32). E poiché Dio aveva mostrato il suo grande attaccamento a Mosè proponendogli di distinguerlo dal popolo(«Lascia che la mia ira li divori. Di te invece farò una grande nazione»), Mosè gioca la stessa carta al contrario e rifiuta di essere separato dal suo popolo: «O tu perdoni il loro peccato (e li mantieni scritti nel libro della vita) o tu cancella anche me dal libro (…ma so bene che Tu non lo farai…)».
Segue, poi, un’altra intercessione perché Dio ritorni con il suo popolo, e Dio cede ancora una volta: «Anche quanto hai detto io farò, perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome» (Es 33,17). Che bella definizione dell’amicizia! E Mosè, «col quale Dio parlava faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11) trova l’ardore per chiedere di vedere la Gloria di Dio, e anche questo gli viene accordato. In seguito trascorreranno ancora quaranta giorni insieme, il Signore con Mosè (Es 34,5) e Mosè con il Signore (Es 34,28).
Queste pagine intense ci mostrano chiaramente che l’intercessore non è semplicemente un mediatore. Il mediatore, infatti, si tiene a giusta distanza dalle due parti, è neutrale, senza interesse, se non il proprio tornaconto. L’intercessore, invece, è completamente coinvolto e solidarizza con le due parti. Egli prova interiormente i sentimenti di ciascuno ed è questo amore “coinvolto” che fa sì che, attraverso lui, le due parti si incontrino. L’intercessore, quindi, non è uno tra i due, egli è invece profondamente “uno” con tutt’e due, totalmente radicato nell’amicizia con Dio e nell’amore per il popolo.
È straordinario constatare come la condivisione della vita dei “piccoli” ci faccia entrare nella preghiera di intercessione con Gesù. Non semplicemente nel senso che la conoscenza “dal di dentro” delle situazioni concrete ci assegna “intenzioni di preghiera” davanti a Dio, ma soprattutto in quanto noi avremmo di fatto messo le nostre radici nella vita della gente ed accettato realmente di fare nostre le loro attese, le loro ricerche e le loro miserie, portandole nel nostro cuore, perché amiamo quel popolo che ci è stato affidato e che ci accoglie. A questo punto siamo veramente “accreditati”, perché nel nostro cuore si realizzi il dialogo tra le attese di Dio e quelle degli uomini. Certo, a condizione di essere profondamente radicati nell’amore di Dio.
Volendo vivere tra i Tuareg del deserto algerino, Charles de Foucauld si chiese un giorno dove più opportunamente stabilirsi: se in un posto molto frequentato (con il rischio di perdere il raccoglimento e l’intimità con il Signore), oppure in un luogo isolato e raccolto (ma sacrificando, in tal modo, la vicinanza fraterna con la gente). Egli annota le sue perplessità e poi mette nella bocca di Gesù ciò che gli sembra la condotta migliore da tenere: «Per quanto riguarda il raccoglimento, è l’amore che deve tenerti interiormente raccolto in me e non la lontananza dei miei figli. Vedi me in loro; e come me a Nazaret, vivi vicino a loro, assorto in Dio»6.
È l’amore che ci mantiene “raccolti” in Dio: se amiamo veramente, possiamo darci agli altri senza alcuna paura: non abbandoniamo Dio per questo.
Magnifica e sobria definizione di Nazaret: «Vedi me in loro; e come me a Nazaret, vivi vicino a loro, assorto in Dio!».

NOTE
¹ Lettera a Gabriel Tourdes, 7/03/1902, in C. de Foucauld, Lettres à un ami de lycée, Edition Nouvelle Cité, Bruyères-le-Châtel 2010, p. 161.
² Tra le numerose opere su Charles de Foucauld (1858-1916), si può consultare Annie de Jesus, Charles de Foucauld, sulle tracce di Gesù di Nazaret, Qiqajon, Magnano 1998; A. Chatelard,Charles de Foucauld. Verso Tamanrasset, Qiqajon, Magnano 2002.
³ Si legga Lc 2,52 in parallelo a 1Sam 2,26.
4 Curiosamente, ieri mattina ero nella metropolitana e, davanti a me, sul marciapiede c’era un uomo che camminava con difficoltà. L’ho visto e ho pensato tra me: «Poveraccio, è proprio malconcio!». Ho aggiunto anche una preghiera interiore per lui. Ma una donna, dietro di me, si è avvicinata a lui, l’ha preso per un braccio e lo ha aiutato a sedersi su una panchina. Poi si è allontanata per aspettare l’arrivo del suo Metrò; ma, subito, è tornata indietro, togliendo dalla sua borsetta due yogurt che certamente erano per la sua pausa di mezzogiorno. Li ha dati a quell’uomo, che li ha divorati in un baleno. Ho capito di aver incontrato in quella donna il “Buon Samaritano”. Il suo gesto mi ha associato al levita e al prete che, immersi nella loro vita consacrata, sono passati semplicemente accanto al loro “prossimo”…
5 Permettetemi qui un esempio personale: sono andato per anni nella prigione a visitare un mio grande amico, Sandro. Un giorno mi ha raccontato che uno dei detenuti gli ha promesso: «Io esco fra poco e ti giuro che organizzerò la tua evasione». Sandro, molto pacato gli dice: «Non fare tali giuramenti, sai bene ciò che accade tra di noi a chi manca di parola!» L’altro però ha giurato su ciò che gli era più caro. È uscito dalla prigione, e naturalmente… non si è mai più rivisto. Durante una successiva visita, trovo il mio amico arrabbiato e deluso. Cerco di calmarlo spiegandogli: «Beh, tu sai bene, quando sei dentro fai delle promesse perché non ti rendi conto delle difficoltà, ma una volta fuori, ti rendi conto che tutto è più complicato; bisogna cercare di capire». Allora Sandro mi ha detto: «Sì, tu mi stai parlando di perdono – io però non avevo parlato di questo – ma, vedi, se gli perdono veramente devo cambiare tutte le mie regole interiori»!». Mai, nessun maestro di noviziato o responsabile della formazione mi aveva spiegato cos’è il perdono, con tale chiarezza e profondità!
6 C. de Foucauld, Carnet de Béni Abbès, 26/05/1904, in, Carnet de Béni-Abbès (1901-1905), Edition Nouvelle Cité, Bruyères-le-Châtel 1993, p. 110.