N.02
Marzo/Aprile 2016

Sentieri di gratitudine

Preludio
La gratitudine coincide con lo stupore: la bocca spalancata del bambino, che all’adulto sovente non appartiene più, dice della rivoluzione intellettuale che l’esperienza dell’essere grato genera.
La gratitudine richiede, è così, una fondamentale precondizione: l’ignoranza.
La riconoscenza più profonda esplode dal “non sapevo”, “non immaginavo”, “non me lo aspettavo”: ecco perché Dio abita il mistero.
Non gioca a nascondino perché irride il nostro bisogno di sapere.
Lui sta negli interstizi della conoscenza per abilitarci alla grazia del“non sapere”.
Non sapere quel che accadrà: il futuro senza assicurazioni e r-assicurazioni è quel che spaventa ogni uomo e ogni donna. Che per questo spesso rincorre oroscopi o scienza: per sapere, prevedere, controllare.
Non sapere quel che accadrà: tutta la storia umana ci racconta che è questa la Grande Paura. Eppure questa vertigine non è lo spazio dell’abbandono.
È lo spazio sacro nel quale Dio ci consente di fare esperienza – sebbene possa sembrare un paradosso! – della sua stessa divinità: poiché è quando finalmente accetto di “non sapere” e “non potere” che… la Grazia mi spalanca. Mi rivoluziona.
Ed è allora, da lì in poi, nello spazio vertiginoso della mia vita accolta come onda, che posso finalmente vedere ogni singolo attimo – lento o burrascoso, delicato o portentoso – come motivo di Grazia e dunque di grazie.
La riconoscenza è – anche dal punto di vista delle neuroscienze – l’identità precipua dell’uomo-ricercatore.
La riconoscenza, allora, coincide con lo spazio psicologico che corrisponde alla poesia: perché sì, sono profonde le connessioni tra gratitudine e creatività, ricerca e misericordia, poesia e conoscenza, bellezza e morte. Sì, morte: non luogo oscuro della perdita di Dio, sua momentanea dimenticanza di me, ma… tempo e spazio preciso in cui, come alchimia, la mia umanità si unisce alla sua natura.
E morire mi risuscita. Questo il senso della poesia: sto al cospetto della Divinità che non coincide con quello che io posso sapere… e mi ammutolisco.
Sicché abbiamo da prenderci cura tanto delle conoscenze quanto delle nostre competenze poetiche: no, non corrispondono alla fuga dal reale. Ma esattamente al suo contrario: l’incarnazione.
Miracolo e (è) realtà.

 

La fiera dei miracoli

Un miracolo comune:
l’accadere di molti miracoli comuni.
Un miracolo normale:
l’abbaiare di cani invisibili
nel silenzio della notte.
Un miracolo fra tanti:
una piccola nuvola svolazzante,
che riesce a nascondere una grande pesante luna.
(…)
Un miracolo all’ordine del giorno:
venti abbastanza deboli e moderati,
impetuosi durante le tempeste.
(…)
Un altro non peggiore:
proprio questo frutteto
proprio da questo nocciolo.
Un miracolo senza frac nero e cilindro:
bianchi colombi che si alzano in volo.
Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3,14
e tramonterà alle 20.01
Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.
Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.
Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l’inimmaginabile
è immaginabile.
(W. Szymborska)

1. Leggera è la misericordia
Gratitudine e misericordia richiedono l’eroismo del saper stare nudi. Il lasciare andare le scorze faticosamente e in mille modi costruite e stare al cospetto di Dio con la decisione di sentire – non per follia, ma per coraggio – tutte le – persino più disonorevoli – nostre “voci di dentro”.
Riconoscerle. Chiamarle per nome. Guardarle una per una muoversi nella nostra storia, tutta intera.
Per esempio: ascoltare tutte le volte in cui abbiamo avuto paura.
E tutte quelle in cui, manifesta o ammutolita, la rabbia ci ha preso.
Nudi, guardarci mentre come Caino urlavamo o urliamo: «Dio mio, Dio mio perché non mi guardi? Perché guardi il fratello e non me?».
In mille modi questa voce bambina ha attraversato e ancora varca le storie di tutti.
Abbiamo speso, a volte, vite intere a metterla a tacere.
Eppure è proprio lì: in quella sensazione di morte che viene dal non-esistere-se-chi-ci-ama-non-ci-vede… proprio lì la scorza si spacca e fiorisce il deserto.
Dio non gioca ad abbandonarci per divertirsi. E neppure per metterci alla prova. Non appartiene il sadismo al suo amore.
Tutte le volte in cui sono stato o sono Caino sono tutte le volte in cui mi scopro uomo. E donna. Ovvero: bisognoso di sguardo.
Perché non esisto da me e non posso darmi senso né vita da solo.
Tutte le volte in cui sono stato o sono Caino sono tutte le volte in cui sperimento una ferita che sì, mi squarcia e così mi offre lo specchio più autentico per vedere chi sono.
Chi sono io?
Sono Esodo, sempre-in-ricerca, la mia natura è errare per imparare a guardare. Vedere di non vedere. Essere visto. Vedere.
Chi sono io? Sono una storia. Impastata di carne ed eterno. Una storia in cui ho conosciuto e conosco paura e rabbia, dolore e strazio e la morte persino: mentre sono vivo io già la conosco. L’ho conosciuta.
E in quella morte in cui sperimento di non bastare a me stesso, in quella precisa mia biografia in cui ricordo ogni notte dove ti ho chiesto di riprenderti il tuo calice, è lì, proprio lì dentro, nel sepolcro che ho già visitato, che Tu hai stabilito di imbandire una tomba a tavola in festa: tu, Signore delle bare che fioriscono, delle ferite che partoriscono; tu, Signore, che lasci che io guardi Abele non per indurmi al peccato, ma… affinché io guardi nudo me stesso.
Chi sono io?
Sono uno sguardo. Sono il mio sguardo. Sono dove guardo.

2. Anestesie e resurrezioni
(Oltre non so più dire con parole lontane dalla mia storia di carne. Così chiedo al lettore la pazienza di accettare che io muti registro e passi al racconto dell’esodo mio).
Al centro del mio esodo trovo sempre La leggenda del pianista sull’oceano, film di Tornatore ispirato al romanzo Novecento di Baricco.
La storia narra di un orfano, nato e vissuto per tutta la sua vita su una nave, senza esserne mai sceso neanche per un giorno. Tanto che, quando quella nave deve essere demolita, lui preferisce restare dentro – e morire – pur di non scendere e immergersi in ciò che, oltre quell’“utero”, non conosce: la vita fuori. Non potendo sopportare neppure l’idea del travaglio che accompagna il mettersi in gioco, Novecento sceglie di morire. Perché? Per lui scendere dalla nave equivale a cessare di vivere. Cambiare come morire.
Il terrore di scendere dalla nave neanche per un secondo in Novecento sfiora la curiosità o il desiderio di conoscere ciò che è nuovo, di buttarsi-lanciarsi-uscire da sé, senza certezze, è vero, ma con l’ardore e l’ardire per quel che verrà, di tutto quel che può essere anche se non può essere ancora neppure immaginato. Al cospetto dell’essere buttato fuori dalla sua nave, sente solo l’impotenza: non si sente più Dio, non può più essere signore e sovrano dei suoi confini. Non può prevedere quel che accadrà. Non tutto resta sotto la sua vista. Quante volte anche io sono stata così, Novecento che vede solo quel che può controllare? Penso spesso a quella nave: grembo di rassicurazione e certezze.
Ognuno ne ha una. O anche più.
La mia era fatta di Teorie. Saperi. Risposte.
Parole.
E non avevo mai conosciuto libri, discorsi, circostanze o lezioni che mi avessero convinto, persuaso, instillato desiderio e coraggio per… scendere dalla mia nave.
Conoscevo bene, però, la paura di cambiare. Anche quando è doloroso, persino il noto è assolutamente familiare, rassicurante e stabile. A volte stiamo dentro un utero per paura di chi vedere veramente. Pensiamo di stare nel mondo, ma stiamo solo dentro la nostra testa.
Talvolta cerchiamo la calma… più della felicità.
La mia nave, l’utero che mi ero costruita come bozzolo pensando di essere vista e farmi finalmente vedere – mentre, invece, così mi nascondevo – era fatta di parole e saperi: la mia vita, di bambina prima e di donna poi, era stata salvata dalle parole.
Le parole sono state per me riscatto e spada, scudo e coperta. Le parole sono state la mia nave. Parole per spiegare, ordinare, proteggermi, insegnare.
Eppure, al cospetto del non-senso e del dolore, un giorno lunghissimo, durato un anno, io le ho perse. Ammutolita, colpita, privata delle fondamenta su cui poggiava l’intera mia vita.
Grave per chi, come me, viveva di esse. E non solo metaforicamente, giacché il mio stesso lavoro è intriso di parole soltanto.
Le ho perse. Ne ho sperimentato la sterilità, il vuoto, la dolorosa inutilità.
Come è successo che crollassero le mie coriacee, e adorate, palafitte?
Al cospetto di quella che in fisica si chiamerebbe una pertur bazione, l’avvento del caos, l’irruzione, sconvolgente, di un assolutamente imprevedibile disordine: l’essere diventata madre di una bambina che non parla.
Un paradosso. Un ossimoro, persino. Una rivoluzione.
E una benedizione.
Ho conosciuto e conosco un solo modo per imparare, adesso: passare attraverso il travaglio dello scendere dalla mia nave, e benedetta sia la circostanza che non mi ha dato la possibilità di scegliere poiché, senza che io mi esprimessi in merito, da quella nave mi ha scaraventato giù.
E inaspettatamente: non sono morta.
Non è finito il mondo, solo perché io non potevo più spiegarlo.
È finita l’anestesia.
Il dolore atterrisce oppure rivoluziona: perché conferisce, o distrugge, la misura. E argina il delirio di onnipotenza di chi, come me, pensava che sapere equivalesse ad essere felici.

3. Giocare, il segno dei salvati
Non è così lieve né immediata l’equazione: la felicità evoca altra formazione, altro apprendimento, altro habitus. Il sapere è necessario. Ma non sufficiente (si può conoscere a memoria un manuale di scuola guida e rispondere esattamente a tutti i test per la patente, eppure… non saper guidare).
È così che ho imparato, in quella perdita, qualcosa che prima non sapevo fare, non avendola studiata a scuola e non avendola appresa da bambina: ho imparato a giocare.
Giocare: gravida via per sciogliere l’inflessibilità di Novecento ed ogni coazione a ripetere la vita come un copione sempre uguale; giocare: esercizio di fecondità, in cui nessun esito è predefinito e dove ogni dato può sempre essere riprogettato. Giocare come creare.
Giocare è il segno di Dio: il modo della libertà che implica caduta e perdita, eppure salvezza nel mistero dall’abbandono del mio delirio di onnipotenza.
Giocare è il regno di Dio. E così, perdendole, ho trovato parole altre.
Ho trovato parole diverse: che non de-finiscono, ma restano sospese, non si mettono in mostra, ma in gioco. Ho lasciato parole diafane, scheletriche, di cartone, come i palazzi delle scenografie a Cinecittà: le cui facciate, splendide, scopri che sono di cartone quando, guardandoci dietro, non trovi case, ma solo impalcature. Ho trovato parole di carne. Parole eloquenti seppure, talvolta, assolutamente mute. E così, l’anima ha accolto la ricerca: laboratorio, fucina, palestra, sperimentando parole balbettate, saperi claudicanti.
E questo ha implicato per me un salto fondamentale, giù dalla mia nave: l’appagarmi di una conoscenza parziale1.
Novecento-che-resta e Novecento-che-scende sono icone di paradigmi.
L’uno della rassicurazione e l’altro della rivoluzione, l’uno dell’ordine e l’altro del caos, l’uno della necessità e l’altro della possibilità.
La gratitudine, quella vera, che scrive la carne e riscrive il destino, richiede il secondo: non è retorica stagnante, ma esperienza di movimento, mobilitazione, risurrezione. Possibilità di mobilitare i confini della propria cristallizzata e rassicurante – seppur spesso, ahimé, autosabotante – nave.
E in questo scompenso, in questo capitombolo dalla necessità alla libertà, tra ricerca e inerzia, tra intenzionalità ed abulia, traspare un isomorfismo particolare: quello tra saltimbanchi e innamorati di Dio, tra ricercatori e cristiani, tra coraggiosi e grati. E tra gratitudine e poesia.
Il mio Signore Gesù è onnisciente e insieme poeta.
Tra “Logica e Fantastica”2 mi chiede di stare sospesa e sospendere il mio delirio di dire-grazie-solo-a-quel-che-io-so-spiegare.
Tra misericordia e poesia, spesso senza parole, il mio Signore Poeta mi getta. Per scendere da quella nave. E perdere le parole.
Ma non per questo diventare muti. Anzi.
Ma non per questo diventare sordi. Anzi.
È perdendo le parole che s’imparano quelle degli altri. Sicché, è dalla capacità di ammutolimento che discende la possibilità di diventare poliglotti.
È perdendo il bisogno di sapere-tutto che si schiude il mistero: quello che non si può dire parlando. Quello che non si può dire se non… ringraziando. Come a dire (o, meglio, come qualcuno ci ha già detto): è soltanto morendo che si risuscita.

“Tendono alla chiarità
le cose oscure”
(E. Montale) 

Epilogo
Ascolta il tuo Dio: significa anche ascolta le voci che parlano in te. Anche quelle che non sono lui. Poiché, in fondo, il Dio Risorto che ha capovolto gli Inferi quelle voci le ha conosciute tutte. E sa che hanno il potere di farci morire… solo se non le riconosciamo. Se invece le guardo e le chiamo per nome posso discernere le voci. E da quella morte trarre capovolgimento e danza di tombe.
È per questo che la ricerca, come la gratitudine, richiede coraggio.
Ecco perché per tanti anni quel vecchio invito di Edoardo De Filippo ad ascoltare “le voci di dentro” a me aveva sempre fatto un po’ tremare. Gli preferivo una bibliografia ragionata, o qualche conferenza, formalmente ineccepibile e pur capace solo di scivolare sul velo che, con molta cura, protegge la mia mente dalla mia anima e la separa da tutto ciò che possa così arditamente scandalizzarla.
Scandalizzarla: inquietarla, scardinarla, privarla di sacre certezze e devote inviolabilità.
L’invito a riconoscere di quelle voci la “biografia” mi sembrava poi, ancor più, oltremodo ardito ed irrispettoso. Irrispettoso di tanta formazione spesa per sedare i “pensieri tumultuosi”, irriverente verso tanti anni di scuola spesi ad imparare con premura come separare cielo e terra, teorie e pratiche, parole e carne.
Eppure, caduta giù dalla mia nave, viste e ad ascoltare tempeste e tumulti che vengono da dentro e da lontano, di quell’ardire irrispettoso oggi ringrazio.
Per il coraggio. E l’esperienza della nudità.
La formazione vocazionale ne reclama in abbondanza. Per ascoltare/esprimere quelle voci: valoroso scoperchiare tutta l’autenticità che ogni autobiografia serba.
È solo concedendoci di riascoltarle tutte, anche paura e rabbia e abbandono, che potremo ritrovare la forma dei salvati… con una parola che sembra blasfema ed invece è consacrata: “leggerezza”.
Leggerezza è uno dei nomi della Misericordia.
Lievità è il suo più potente effetto, non è forse vero?
Calvino la elogia e la tratteggia come il volo di Perseo quando salta leggero per sfuggire alla pietrificazione causata dagli sguardi di Medusa. Allora la immagino come le acrobazie dei saltimbanchi e degli acrobati quando guardano il mondo come di norma non si fa: sottosopra, alla rovescia, viceversa.
Leggerezza intrepida che stranisce, che procura quel «balenare improvviso dell’aspetto» che Wittgenstein richiama per dipingere con le parole il sopraggiungere di uno sguardo nuovo – rimasto fino a un attimo prima atipico, inaspettato, insolito – alla realtà, ai problemi, agli altri, a noi stessi.
Leggerezza spericolata che non ha più paura della fragilità: perché le nostre narrazioni autobiografiche ci espongono. Ci spogliano, svelano, denudano e, per questo, rivelano la nostra vulnerabilità.
Da quel bambino o bambina che siamo stati, dalla sua storia intrisa di sogni così come di tradimenti, possiamo però imparare a non avere paura di avere paura. Non illudendoci di essere forti – perché sappiamo e parliamo e, qualche volta, facciamo – ma abbracciando la nostra debolezza come la nostra sola possibilità di leggerezza: imprescindibile risorsa per giocare, sognare, creare. Così, diciamo con Rorty, «diventiamo la specie poetica»3: poiché, quando osiamo scendere (dalle nostre confortanti navi o siamo da esse meravigliosamente scaraventati), allora lì, in quella povertà estrema, si manifesta la nostra natura autopoietica, creatrice, fertile.
Leggerezza, allora, che non coincide con la fine del dolore, ma col suo cambio di versione: da prosa in poesia.
Dove poesia non è fuga o disincarnazione! Poesia è lo stato grato di chi si sente salvato e coglie che è stata proprio quell’ora in cui non si è sentito guardato che ha generato quella salvezza. Proprio il mio non sentirmi visto ha generato la mia capacità di poter, finalmente, vedere: vedere e vedermi. E capovolgere costantemente gli sguardi.
Danzare per moltiplicare la vista. Ecco il metodo della Redenzione: ciò che ci ha ucciso ci salva. Questo il mistero antropologico straordinario che Dio ha pensato per la nostra specie. Specie poetica, sì.

Che un giorno, uscendo dalla terribile visione,
io canti gloria con gioia ad angeli accoglienti.
Che nessuno dei netti, martellanti battiti del cuore
cada su corde deboli, incerte o sul punto di spezzarsi.
Che il mio viso inondato
mi renda più splendente;
che la banalità del pianto
fiorisca.
Come mi sarete care, allora,
notti angosciose. Vi avessi sopportato più in ginocchio,
sorelle
sconsolate, mi fossi abbandonato di più
nei vostri capelli disciolti.
Noi, scialacquatori di sofferenze.
Impegnati come siamo a indovinarne, nella triste durata,
la possibile fine. Eppure
sono il nostro fogliame invernale,
il nostro sempreverde più buio
(…)
(R.M. Rilke)

  

NOTE
1 J. Keats, Critical Theory Since plato, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1971, p. 474.
2 Cf G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1974.
3 R. Rorty, La mente ineffabile, in E. Carli (a cura di), Cervelli che parlano, Mondadori, Milano 2003, p. 164.