N.02
Marzo/Aprile 2016

Voc-azioni di misericordia

Dal buio alla luce

Testo biblico (Mt 25,31-46)
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?
Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.

L’artista
Michelangelo Merisi da Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610). È impossibile riassumere la sua vita (per la sua biografia rimandiamo a «Vocazioni» nn. 4-5 del 2015) in poche righe tanto è inquieta, piena di avventure a causa del suo carattere irascibile e passionale. Caravaggio, nonostante i suoi misfatti e le conseguenze drammatiche, poteva contare quasi sempre sui suoi protettori; gente di Chiesa, cardinali, nobili e potenti. Era consapevole del proprio talento, della fama e del fatto che in molti se lo contendessero. Caravaggio è stato il fautore di un nuovo modo di raffigurare la realtà. Un uomo, un pittore che sapeva osservarla, fotografarla e immedesimarsi nelle situazioni con uno sguardo che andava in profondità, con una sensibilità non comune che immortalava lineamenti, volti, sguardi e gesti. Le opere di Caravaggio trasmettono e comunicano emozioni, turbamenti, ci fanno prendere coscienza del nostro agire, ci danno la capacità di fare i conti con la nostra fede, di presentarci davanti a Dio come lui, consapevole delle sue povertà e del suo peccato. 

L’opera
La tela Sette opere di Misericordia o Nostra Signora della Misericordia fu commissionata a Caravaggio nel 1606,dal Pio Monte della Misericordia, una delle confraternite1 che provvedevano all’assistenza dei poveri nella città di Napoli. Non so se avete mai passeggiato per le vie del centro di Napoli vecchia; vicoli molto stretti, case a più piani dove, anche in pieno giorno, la luce fa fatica a entrare. Di queste strade Caravaggio, nella sua tela intrisa di colori scuri, ha saputo far risaltare il buio e forse questa oscurità reale riflette la sua più profonda interiorità, l’abisso buio in cui è sprofondato. È appena giunto a Napoli, in fuga da Roma dove ha ucciso un uomo.
Caravaggio si confronta con la realtà cruda, povera, dei vicoli.
Papa Francesco direbbe una “periferia esistenziale” dove l’uomo soffre, si lamenta e le sue grida sono accolte solo da Dio-Padre. A Caravaggio interessa la realtà così com’è, senza fronzoli, tutta la miseria e la povertà di questa città. L’artista, con la luce e dalla luce, fa emergere i volti, dà risalto alle figure, donando alle immagini grande spiritualità; si può dire che questa tela respira della misericordia del Padre, è manifestazione della sua presenza, anche se non viene raffigurato.

Maria e il bambino
Maria è affacciata alla finestra di una delle tante case che danno su questo vicolo buio, il frastuono proveniente dalla strada, che amplifica ogni minimo rumore, ha attirato la sua attenzione. Si sporge per guardare meglio, ha il bambino in braccio e, alla vista dello spettacolo che si svolge sotto, cerca con la mano di proteggerlo e di distogliere lo sguardo del bimbo, istintivamente attratto dalla scena. Da quella finestra Maria trasmette drammaticamente la compassione, la tristezza, si immedesima in quella realtà e, come ogni mamma, cerca di stringere a sé il bambino come per raccogliersi, fargli sentire, in uno stretto abbraccio, tutto il suo calore.
Maria vive tutta la misericordia di Dio, la vive a ogni incontro, in ogni sguardo. Lei che ha sperimentato i misteri dell’amore divino è il volto della misericordia del Padre. Il volto di Gesù è illuminato da una luce soprannaturale che lo fa emergere dal buio, dal nulla (come sempre nelle opere di Caravaggio la luce proviene dall’alto, fuori dal quadro). Il volto di Maria è illuminato per metà, ha i lineamenti di una giovane donna napoletana, molto bella (Caravaggio prendeva i suoi modelli dalla strada, in questo caso dalla realtà della Napoli popolare, e questa donna rappresenta certamente una bellezza tutta partenopea).

L’abbraccio dei due angeli
Gli angeli sono abbracciati e cercano di proteggere Maria e il suo bambino facendo scudo con le loro grandi ali. Per un attimo sembra di sentire una vibrazione, un fremito, poi il rumore è sospeso; il dramma che si consuma nel vicolo buio si interrompe, qualcosa sta avvenendo là in fondo, qualcosa che trasforma queste azioni drammatiche in situazione di vita; c’è qualcuno che vive su di sé la misericordia del Padre.
Gli angeli che si sfiorano, che si abbracciano, si sostengono con forza e tenerezza, annunciano agli uomini e alle donne del vicolo la novità e la sorpresa di un Dio che ama le sue creature. Partendo da destra andando verso sinistra analizziamo le sette azioni2 di misericordia:

Seppellire i morti
Caravaggio in questa scena rappresenta il trasporto del corpo di un defunto per dargli una degna sepoltura. Vediamo due persone che si prendono cura di un morto di cui si scorgono solo i piedi, il resto del corpo lo possiamo immaginare dietro l’angolo del vicolo buio. È la parte più illuminata del quadro: c’è un uomo che innalza una torcia per far luce, quasi per dare calore alla morte, a questo momento freddo e oscuro della vita. Sul volto del personaggio con la torcia leggiamo pietà, compassione, rispetto; forse è un diacono, un prete, la sua veste è bianca quasi a voler simboleggiare e an nunciare, già da questo momento, la risurrezione. Dell’altro uomo che afferra i piedi del defunto non riusciamo a vedere il volto, ma notiamo lo sforzo che compie nel trasportare il corpo inerme; il suo gesto è testimonianza di profonda umanità e esprime bene tutta la misericordia dell’azione.
Questa scena fa memoria del destino dell’uomo, della fine della sua esistenza terrena; è un invito a non perdere tempo, a dare un senso alla propria vita. La torcia accesa ci dice che anche questo momento inevitabile è avvolto di luce e speranza.

Dar da mangiare agli affamati e visitare i carcerati
Nella rappresentazione di Caravaggio le due azioni di misericordia – visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati – sono unite. Il riferimento è alla mitologia classica: il vecchio che vediamo tra le grate del carcere è il romano Cimone, condannato a morire di fame e di stenti.
La donna che lo nutre, offrendogli il proprio seno, è la figlia Pero. La giovane si avvicina al padre coprendosi con le spalle per non farsi vedere, ma c’è qualcuno che la nota; dalla bocca aperta e dallo sguardo impaurito possiamo cogliere il suo stupore, la sua sorpresa. Di solito vediamo i neonati attaccati al seno della propria madre e sono momenti di tenerezza, affetto, intimità. Questa è, invece, una scena “scabrosa”, “mai vista”: un padre anziano che si nutre dal seno della figlia e in questo modo riesce a tenersi in vita. Questa azione ci fa comprendere che la misericordia è creativa, raggiunge tutti, trova tutte le strade, e che non vi è limite all’amore quando c’è la necessità di nutrire il corpo e lo spirito.

 Vestire gli ignudi e visitare gli infermi
Anche qui l’artista ha unito due azioni, vestire chi è nudo, visitare l’infermo. C’è un uomo di spalle (all’osservatore) quasi accasciato, a terra, per mancanza di forze. La sua mano sinistra sostiene il corpo curvo; chi è nudo e malato sperimenta il suo modo di essere creatura, la sua fragilità. La sua origine è la terra (rimando al gesto del Dio Creatore che prende la terra per plasmare l’uomo) e nell’accoglienza di quest’azione di misericordia l’uomo, nudo e malato, riacquista la sua dignità perduta, viene ri-sollevato, ri-creato.
Caravaggio l’ha ritratto di spalle, non possiamo vedere il suo volto. L’osservatore è chiamato a immedesimarsi nella sua nudità, nella sua fragilità; ognuno di noi può assumere il suo volto perché solo nella sofferenza e nell’indigenza riscopriamo la nostra più profonda identità.
L’altro personaggio che interagisce, forse un cavaliere ben vestito, è raffigurato con la gamba in avanti, in un movimento del corpo, una torsione, come se volesse chinarsi davanti al misero, all’ammalato.
Ha sulla spalla un mantello e lo taglia con la spada per donarlo; ci ricorda il gesto di San Martino di Tours, che divide il suo mantello con un povero che incontra sulla strada; un gesto emblematico che poi porterà il giovane Martino alla conversione. Sulla sinistra uno storpio in ginocchio, difficile da individuare perché immerso nell’oscurità, che implora i passanti a mani giunte.
Quando viviamo la sofferenza e l’indigenza ci scopriamo nudi, desideriamo che qualcuno ci venga incontro, che si chini su di noi, condivida il nostro dolore, gli affanni; solo così il loro peso non è più insopportabile!

Accogliere i pellegrini
Nel Medioevo erano molti quelli che facevano pellegrinaggi, gente di ogni ceto che si spogliava di tutto per assumere le vesti del pellegrino. A quel tempo era sacro accogliere i pellegrini, c’era la convinzione che chi accoglieva un pellegrino ospitava Dio stesso e questa azione di misericordia è la piena, chiara identificazione: nel pellegrino con la barba ci sembra di scorgere il profilo di Gesù Cristo. è interessante confrontare il volto di Gesù che compare in altre opere di Caravaggio soprattutto nella Chiamata di Matteo.
Il bastone, che serviva da sostegno nel camminare, per proteggersi dagli animali e dai malintenzionati, il cappello, chiuso con un laccio sotto al collo, il mantello: tutti segni che svelano l’identità di un pellegrino. Qui sta compiendo il pellegrinaggio a Santiago de Compostela; il segno identificativo è la conchiglia che è cucita sulla balza del cappello.
Al limite della cornice del quadro, sulla sinistra, osserviamo un uomo che accoglie: il suo sguardo è aperto, rivolto al suo interlocutore, è cosciente di ciò che deve fare, lo guarda attentamente come se fosse consapevole della dignità di chi gli sta davanti, lo ha ri-conosciuto. Qui mi piace pensare alla risposta che dà Matteo nel suo Vangelo: «Lo avete fatto a me». Quest’uomo non ha bisogno di parlare, parla il suo sguardo, il linguaggio dell’amore non ha bisogno di parole. Significativo il gesto della sua mano che indica un luogo, un posto in cui sostare, dove riprendere le forze, per poi ripartire.
Quest’uomo che indica è un invito alla chiamata. Quel luogo fuori del quadro forse è casa nostra, la nostra comunità, il luogo dell’accoglienza. Sicuramente è il posto da cui ripartire per il pellegrinaggio dell’esistenza. Come sempre Caravaggio non è nuovo al linguaggio dei gesti delle mani e questa mano parla, ci interpella, ci invita ad accogliere la misericordia, a creare uno spazio di accoglienza soprattutto nel nostro cuore.

Dar da bere agli assetati
É l’unica scena che non ha un interlocutore, un personaggio a cui riferirsi. C’è un uomo che si sta dissetando e sembra avere una gran sete. Il Caravaggio si è ispirato a un episodio biblico dell’Antico Testamento: Sansone che combatte con i filistei. Sansone, prigioniero dei filistei, viene miracolosamente liberato dalle funi che lo legavano. Trova accanto a sé una “mascella d’asino”, la usa come arma e uccide mille uomini. Subito dopo, stanco e assetato, chiede al Signore il conforto dell’acqua che sgorga miracolosamente da un avvallamento.
Che cosa ci fa comprendere questo prodigio? L’acqua è una risorsa indispensabile per l’uomo, però non sempre è disponibile. Senz’acqua non c’è vita e la sua mancanza porta alla morte. Nel quadro notiamo che dar da bere agli assetati è l’unica scena che non comprende la partecipazione di un altro personaggio. Questo per dire che l’acqua viene da Dio, è un dono, è un bene comune; l’uomo non può appropriarsene e solo l’intervento di Dio può spegnere la sete dell’uomo. L’acqua è così importante che nel Vangelo Gesù dice: «Chi avrà dato un bicchiere d’acqua fresca non perderà la sua ricompensa». Il segreto della vita è racchiuso in un bicchiere d’acqua; lì si decide la salvezza di ognuno di noi. L’aggettivo “fresca” dice tutto l’amore, allora porgiamola con delicatezza e premura, così non perderemo la nostra ricompensa.

Approccio vocazionale
Vivere esperienze di misericordia per un’autentica ricerca vocazionale
Nelle azioni di misericordia, la realizzazione della chiamata
Questa grande tela di Caravaggio, unica nel suo genere, esprime in modo autentico e sintetico esperienza dell’artista a Napoli.
Questa nuova stagione pittorica è il risultato del suo coinvolgimento nella realtà della Napoli popolare, è la risposta al disagio, alle povertà incontrate nei vicoli, ma anche alla sua relazione con la nobiltà del luogo, il Pio Monte, da cui i ricchi hanno commissionato il dipinto. Caravaggio, intercettando i desideri e le attese dei suoi committenti, mette in evidenza la concretezza delle azioni dei personaggi, che testimoniano l’importanza della relazione con gli altri, del coinvolgimento, della condivisione.
Il dipinto ci offre lo spunto per alcune considerazioni e riflessioni che rimandano al Vangelo di Matteo, quando Gesù, il figlio dell’uomo, fra lo stupore e la sorpresa dei giusti dice: «Tutto quello che avete fatto agli ultimi fratelli più piccoli lo avete fatto a me».
È vero, è proprio così: incontriamo Gesù nella quotidianità, nei fatti concreti della vita; lui, Dio che si è incarnato, si è fatto uomo, nostro fratello con i nostri stessi bisogni, che si è identificato con ognuno di noi povero, malato, straniero. Noi lo incontriamo, lo riconosciamo nell’altro e comprendiamo che è solo questo il modo di amarlo.
Per me è l’occasione di approfondire l’importanza dell’esperienza nell’ambito della pastorale vocazionale.
L’autenticità di una vocazione riguarda la realizzazione di sé stessi e si verifica nella relazione con gli altri; a volte si avvia un cammino di discernimento vocazionale dopo aver vissuto un’esperienza forte che è in grado di minare tutte le proprie sicurezze e certezze, ma, allo stesso tempo, anche di far emergere con forza potenzialità e capacità fino a quel momento inespresse. Perché è importante l’esperienza più che tante parole?
Dopo un cammino formativo e di studio è opportuno invitare il giovane a vivere esperienze che danno la possibilità di conoscersi.
Mi piace ricordare il significato etimologico della parola esperienza, dal latino experire = passare attraverso, perché è solo passando attraverso esperienze nel rapporto con gli altri che un giovane può comprendere la sua più profonda identità, che cosa desidera nella vita e così rispondere alla chiamata del Signore, alla sua vocazione.
È allora importante vivere occasioni che si trasformino in esperienza, cioè in evento decisivo in quel determinato momento che ha la forza di suggerire una nuova impostazione di vita e nuovi contenuti. Esperienze che siano opportunità concrete di carità, di servizio gratuito, in particolare verso i bisognosi, perché dal solo “fare” si giunga alla comprensione delle motivazioni più profonde e autentiche dell’agire.
Vivere opportunità che si trasformino in esperienze forti, capaci di sollecitare a “salti di qualità” nel proprio cammino spirituale.

 

NOTE
1 Associazioni religiose con fini di pietà, di carità, di culto rivolte ai poveri, ai derelitti secondo le opere di misericordia corporali a cui provvedevano ognuna con una particolare attività.
2 Le chiameremo azioni di misericordia perché la parola esprime “azione” rispetto a “opera”; è meno moraleggiante e più dinamica.

 Michelangelo Merisi da Caravaggio
Sette opere di Misericordia
(Nostra Signora della Misericordia), 1606-1607, olio su tela 390×260,
Pio Monte della Misericordia – Napol