N.04
Luglio/agosto 2016

Accompagnare nella verità di se stessi

Il linguaggio che Dio parla per comunicare con noi è quello della nostra umanità. Le dinamiche spirituali avvengono nella nostra vita, con le sue strutture fisiologiche, l’insieme dei pensieri e dei sentimenti, il nostro modo di elaborare le informazioni, di leggere la realtà…

1. Prospettiva evolutiva
Ci sono buone ragioni per sostenere che chi si occupa di accompagnamento, o più in generale sceglie una “professione di aiuto”, molto spesso ha una ferita dentro di sé, ha una vulnerabilità che lo porta ad essere particolarmente attento agli altri. Esploriamo il tema da più prospettive.

2. Attaccamento
La teoria dell’attaccamento1 sta avendo grande diffusione e molto spesso diventa quasi un linguaggio comune che permette a professionisti di diversi orientamenti di potersi parlare e comunicare. L’idea di base è che una delle spinte motivazionali più forti che guidano lo sviluppo, e che rimangono attive per tutto il corso della vita soprattutto nei momenti di difficoltà e di stress, è il bisogno di cercare qualcuno che possa offrire sicurezza e protezione davanti al pericolo. Questa forza motivazionale si vede in modo molto chiaro nei bambini fin dalla nascita (o forse perfino dal grembo materno): i neonati cercano il contatto con la madre o con qualcosa che sia morbido e caldo, soprattutto nei momenti di difficoltà. La ricerca di attaccamento si vede anche nei bambini un po’ più grandi quando cominciano ad esplorare il mondo: avere qualcuno che possa fare da base sicura per l’esplorazione, che possa essere un porto sicuro a cui tornare in caso di pericolo, è molto importante per poter avere il giusto contatto con la realtà.
Gli studi hanno individuato diversi tipi di attaccamento a seconda del modo di tenere insieme il bisogno di esplorare il mondo e la necessità di avere una base affettiva a cui rimanere attaccati.  Chi ha un legame di attaccamento sicuro in genere ha un buon rapporto con la madre che è sensibile ai bisogni del figlio ed è capace di dare una risposta adeguata ai suoi bisogni. Questa condizione permette al bambino di essere disponibile ad esplorare l’ambiente attorno a sé e, in caso di pericolo, può ritornare alla madre che offre protezione e rifornimento affettivo. Chi ha un legame di attaccamento insicuro, invece, ha una madre che non è sempre sensibile ai bisogni del bambino o che non sa dare una risposta a questi bisogni. L’attenzione del bambino, pertanto, non si muoverà con flessibilità dall’ambiente al proprio rifornimento affettivo, ma sarà più concentrata su uno dei due.
Paradossalmente, proprio una dose “adeguata” di insicurezza nel legame di attaccamento permette il formarsi dell’attitudine a prendersi cura dell’altro, a farsi carico anche della carenza dell’altro. In genere chi si impegna in una relazione di aiuto ha fatto esperienza di alcuni legami di attaccamento insicuri che hanno predisposto il soggetto a spostare l’attenzione dai propri bisogni e dalle proprie esigenze ai bisogni e alle esigenze di qualcun altro. Se compensata poi anche da altri legami in cui si sono potute sperimentare la gioia e la bellezza di un attaccamento sicuro, l’esperienza di insicurezza predispone alcune persone ad essere molto sensibili agli altri, capaci di comprendere il vissuto dell’altro, attente a cogliere anche i minimi segnali di disagio che possono provenire dall’altro.

3. Modello della Psicologia del Sé

Nella grande famiglia delle teorie che nascono nell’ambito psicoanalitico c’è anche una corrente chiamata “psicologia del Sé” che vede in Heinz Kohut2 uno dei suoi teorici più in vista e più acuti.
C’è un compito grandissimo che deve affrontare ogni persona nel suo sviluppo, ovvero il passaggio dalla concentrazione su di sé e dal narcisismo primordiale proprio di un sé frammentato, alla capacità di relazione autentica, all’amore sano di sé che permette anche di amare in modo maturo gli altri come è proprio di sé coeso.
In questo cammino evolutivo i genitori devono offrire sicurezza al cucciolo d’uomo, permettendo al piccolo di giungere ad un senso del sé sufficientemente coeso, ovvero ad uno stato di solidità, integrità e costanza dell’esperienza di sé. Quelle funzioni che in un primo momento sono svolte come “dall’esterno” dai genitori, vengono internalizzate, diventano patrimonio del soggetto che a quel momento le svolge internamente.
È l’esperienza di essere stati rispecchiati nella propria grandiosità da genitori capaci di “stare al gioco” che permette lo svilupparsi delle ambizioni, della tendenza al successo, della possibilità di saper pensare e progettare in grande il proprio futuro. È l’esperienza di aver avuto qualcuno che è “stato al gioco” e si è lasciato idealizzare che permette il costituirsi di alcuni ideali e di alcuni valori a cui tendere.
Prima o poi tutti gli adulti con cui si ha qualche relazione deludono per qualche motivo, ma questo non annulla l’importanza di un ideale e di un valore a cui tendere. Proprio l’aver potuto idealizzare qualcuno permette di scoprire il potere trainante ed ordinante dei valori nella propria vita. È l’esperienza di aver avuto qualcuno che ha aiutato a vedersi grande come lui o come lei, che ha fatto sentire simile, alla pari, che permette di scoprire le proprie doti, i propri talenti e le proprie capacità. Verrà il momento in cui, anche se non si ha accanto nessuno a cui sentirsi simili, la persona potrà contare sulle abilità di cui è cosciente.
Questa dinamica fa intuire che alcuni passaggi evoluti, alcune risposte imperfette a bisogni impellenti, possono diventare gli elementi strutturanti del mondo valoriale e del modo adulto di stare al mondo. Per poter crescere è necessario avere a che fare con accompagnatori che non siano troppo maturi o che si prendano troppo seriamente. Genitori che non siano in grado di “stare al gioco”, che non siano in grado di accettare la finzione di essere le persone migliori del mondo che hanno i figli migliori dell’universo, non offrono le occasioni ai propri piccoli di crescere. Genitori che siano così perfetti da non offrire motivo di frustrazione e di sofferenza ai propri figli, ugualmente non aiutano molto la maturazione. È proprio la capacità di giocare e di non essere perfettamente maturi e perfetti che permette di crescere.

4. Controtransfert, empatia e misericordia
Il fatto che la storia di ciascuno lascia delle ferite e rende presenti alcuni limiti, comporta che quando si entra in contatto con la vita di un’altra persona, alcuni aspetti della vita dell’altro risuonano anche in chi sta accanto. Come il suono di uno strumento musicale esce soprattutto dai fori presenti nella cassa armonica, così la vita dell’altro riverbera e risuona in chi lo accompagna soprattutto a partire dal proprio limite e dalle proprie ferite.
Il servizio di accompagnamento di una persona in una relazione di aiuto sicuramente coinvolge anche chi accompagna. Non è immaginabile una relazione profonda che non preveda un coinvolgimento di entrambi i soggetti. E soprattutto attorno alle proprie ferite il coinvolgimento è maggiore.
Il linguaggio della psicologia parla di controtransfert ed empatia. Il linguaggio biblico parla di misericordia. 

4.1 Controtransfert
Nella pratica psicoterapeutica ci si è accorti che più una relazione è coinvolgente e profonda, più in essa la persona tende a rivivere e ad attualizzare anche quei rapporti di cui custodisce la memoria ed il residuo affettivo. Ad esempio, in alcuni momenti sembra che la persona si relazioni con l’accompagnatore come se questo fosse la madre, o il padre, o un fratello, o forse la maestra. È come se nella vita adulta e nelle relazioni del presente continuassero ad essere presenti certi modi di relazionarsi e di pensare più infantili e si vivano nel rapporto con l’accompagnatore alcuni aspetti del rapporto con le figure significative del proprio passato. In termini tecnici questo persistere di schemi relazionali più infantili che ripetono il passato e che a volte sono inadeguati alla relazione attuale si chiama “transfert”.
All’inizio questo fenomeno è stato visto come un grande ostacolo al processo di guarigione, ma poi si è visto in questo rimettere in atto alcune relazioni del passato una fonte di informazioni utili, a volte indispensabili per rimettere in moto i processi maturativi.
Potremmo dire che ogni relazione è una mescolanza di una vera relazione e di un fenomeno di transfert, ovvero di riattualizzazione delle relazioni del passato.
Accogliere chi si sta accompagnando nella sua verità significa accettare anche che le sue relazioni del presente si mescolino con le relazioni del passato, significa a volte non reagire d’impulso rispetto a comportamenti relazionali inadeguati, ma cercare di comprendere qual è il vissuto incamerato in essi.
In termini tecnici il riconoscere che anche l’accompagnatore rivive nella relazione di aiuto, oltre al realistico interagire con una persona qui e ora, qualcosa dei rapporti con altre persone importanti del passato viene definito “controtransfert”. Anche il controtransfert può offrire informazioni estremamente utili al processo di accompagnamento. Ad esempio ci sono persone che possono suscitare tenerezza anche se si presentano come piuttosto fredde e distanti; ci sono persone che evocano rabbia in chi accompagna anche se all’apparenza si presentano come estremamente corrette e gentili; ci sono situazioni in cui uno si può sentire profondamente inadeguato, anche se dotato di tutti gli strumenti e le competenze, davanti a qualcuno che sembra far rivivere la relazione con il proprio padre o con la propria maestra. Tener conto di tutto questo permette di compiere un cammino più adeguato ed efficace.
Chi accompagna deve avere una grande capacità: deve stare attento a quanto l’altro che ha di fronte gli sta raccontando e, allo stesso tempo, deve essere in grado di auto-osservarsi per capire che cosa egli sta vivendo in quel momento. Il monitorare costantemente qual è il proprio vissuto emotivo di accompagnatori aiuta ad evitare il ripetersi stereotipato e spesso non adeguato di antichi schemi relazionali. Paradossalmente sono proprio gli aspetti più feriti della storia relazionale e le domande aperte che si ripropongono nel controtransfert che permettono di “sentire” maggiormente la persona che si sta accompagnando e sono un contributo ad essere più utili. 

4.2 Empatia
Osservando lo stesso fenomeno da un altro punto di vista a volte a volte si usa il linguaggio dell’emapia3.
Il concetto di empatia è abbastanza diffuso nell’ambito educativo si usa il linguaggio dell’empatia e usato in diversi contesti. La definizione più semplice di empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, ma è anche molto di più.  Kohut per aiutare a capire che cosa sia l’empatia fa un esempio: anche una persona che ha una statura normale può comprendere che cosa vive un uomo molto alto che è al centro dell’attenzione in ogni situazione, anche quando non lo si desidera, che è visto come fuori dalla norma… Insomma, anche se non si vive la stessa situazione, ci si sintonizza sul vissuto interiore dell’altro, facendo appello alla propria esperienza, per comprendere anche quanto l’altro sta vivendo, per immaginare la sua esperienza interna anche se non possiamo osservarla direttamente.
L’empatia non è la simpatia, ma mantiene una neutralità di chi non approva né disapprova, ma semplicemente sente. L’empatia coglie il vissuto emotivo dell’altro e molto spesso il sentire precede la possibilità di poter definire questo sentire.
Provare empatia è come offrire ospitalità all’altro nella propria sensibilità, dare spazio al sentire di un altro, contenere questo vissuto fino a quando l’altro non è pronto a riprenderselo e a gestirlo in modo più adeguato. Avvicinarsi all’altro con empatia significa permettergli di essere più vero e più completo: perché ci sia questo spazio di completezza e di verità chiaramente l’empatia deve anche lasciare una certa distanza psicologica che assicura la qualità educativa della relazione.
Per poter provare empatia è necessario essere arrivati ad una buona individuazione di sé che permette di sentire l’altro nella sua unicità e diversità, senza perdersi nell’altro. Allo stesso tempo però l’empatia richiede in chi accompagna la possibilità di rendere permeabili i propri confini in modo da permettere all’altro di entrare in sé. Insomma, l’educatore, dopo aver accolto e rielaborato i vissuti dell’altro, glieli restituisce in modo che possa accoglierli e sentirli.
Paradossalmente, per permettere all’altro di entrare in sé, l’accompagnatore deve funzionare un po’ come un bambino che non ha ancora consolidato la propria individuazione. Cioè, per provare empatia, il proprio sviluppo non deve essere perfetto, non deve portare ad un sé solido e coeso, ma impermeabile, deve conservare un po’ di imperfezione in modo da permettere all’altro di entrare in sé e rendere possibile il sentire empatico.
L’empatia può essere vista come strumento di comprensione e di cambiamento dell’altro, ma allo stesso tempo trasforma anche l’educatore.
Esercitarsi a mettersi nei panni dell’altro vuol dire anche allargare la propria identità, sperimentare se stessi in modo nuovo nel vissuto di un altro. Il farsi vicino ad un altro permette a volte di scoprire in se stessi un frammento di umanità fino a quel momento sconosciuto.

4.3 Misericordia
Nella tradizione biblica il concetto di misericordia è collegato a diversi termini e ciascuno esprime sfumature particolari. In ebraico la misericordia si collega al termine rèhem che indica in primo luogo il seno materno, il luogo da dove proviene la vita.
Nella forma plurale, rahamîm, lo stesso sostantivo indica le viscere e, in modo figurato, esprime l’attaccamento istintivo di un essere a un altro. Secondo la visione dell’antropologia biblica, il sentimento intimo e profondo di amore e di compassione si può localizzare nelle viscere, nel grembo materno e nell’utero, quasi che il riferimento primo per comprendere la misericordia sia l’istinto materno.
Quando un figlio è nel grembo materno, è naturale che la donna percepisca i suoi movimenti dentro di sé: comprende che non è lei a muoversi, che è qualcun altro che si muove, ma questo avviene dentro di lei. È come se il legame tra madre e figlio che si forma durante il tempo della gestazione e che implica questo percepire del movimento dell’altro, continuasse a permanere anche dopo il taglio del cordone ombelicale. La misericordia pertanto è un sentire la miseria dell’altro dentro la propria vita.
L’immagine viene ripresa anche in modo esplicito nella parola dei profeti (cf. Is 49,15; Ger 31,20). Questa immagine materna di Dio sembra rimandare ad una debolezza dell’amore che rinuncia all’onnipotenza per farsi accanto all’altro ferito e vulnerabile.
L’altro termine con cui nella Bibbia ebraica si parla di misericordia è hèsed, che può essere tradotto come bontà, pietà, compassione o solidarietà. Se la parola rahamîm sembra riferirsi ad un viscerale e istintivo senso di bontà e di cura, questo altro termine rimanda più alla solidità di chi decide di essere fedele a se stesso e alla propria scelta di bontà.
Nel Nuovo Testamento per descrivere però come Gesù reagisce davanti alla malattia e alla sofferenza altrui si usa il verbo splanchnìzomai (provare commozione, avere misericordia, sentire compassione), che si origina dal sostantivo splànchna, che letteralmente equivale all’ebraico rahamîm, ovvero viscere, parti interne.
È come se Gesù sentisse dentro di sé il muoversi dell’umanità sofferente.
Si usa il verbo splanchnìzomai per raccontare la commozione di Gesù di fronte al pianto della vedova di Naim per la perdita del suo unico figlio (cf Lc 7,13). Con lo stesso verbo si descrive il sentimento che Gesù prova di fronte ai due ciechi seduti lungo la strada (Mt 20,34), al lebbroso emarginato (Mc 1,41) o di fronte alle folle stanche, sfinite e affamate che ai suoi occhi appaiono come pecore senza pastore (Mt 9,36; 14,14; 15,32; Mc 6,34; 8,2). Gesù non resta distante dal dolore e dalla fragilità altrui, ma diventa solidale e offre una vicinanza che permette di recuperare salute, dignità, vita, gioia, speranza.

5. Accompagnare nella verità di se stessi
Cerchiamo ora di indicare alcune piste per trasformare la propria debolezza in punto di forza, per rileggere anche le proprie vulnerabilità come luogo di crescita.
Franco Imoda4 indica una sequenza di operazioni da attuare per un rapporto col tempo che sia rispettoso del mistero dell’essere umano.
Quella stessa sequenza può essere utile anche per comprendere che cosa un educatore può fare del proprio limite e delle vulnerabilità che vengono dalla propria storia e dalle proprie capacità.

5.1 Accettazione
Il primo passo da compiere è quello dell’accettazione, ovvero accettare il passato, il dato, il limite, l’imperfezione. Già vivere l’accettazione non è semplice, ma è il presupposto di ogni sviluppo.
Accettare significa conoscere prima di tutto la propria storia, il proprio modo di reagire davanti ai fatti e alle persone. La conoscenza di sé5 chiaramente non sarà mai perfetta e non sarà mai finita, ma è sempre un lavoro in corso. La conoscenza di sé non si raggiunge da soli, ma richiede la collaborazione di altre persone che possano fare da specchio in una relazione di fiducia: la disponibilità a ricevere feedback, e a volte anche critiche, permette di avanzare notevolmente nella conoscenza di sé.
La conoscenza di sé si raggiunge non tanto per autocontemplazione, quanto per riflessione sull’azione: quando ci si gioca in una decisione, e poi si riflette su di essa, si conosce qualcosa di sé e non tanto soppesandosi a fondo prima di fare le scelte. La conoscenza di sé comporta anche la disponibilità a vivere qualche sorpresa che può essere anche amara: nel rileggere la propria vita ci si può scoprire più deboli, più dipendenti, più ingenui, più feriti, più arrabbiati di quello che generalmente si pensa. Il negativo (fisicofisiologico, psicologico, anche morale) che viene scoperto nel cammino di conoscenza di sé deve poter essere integrato nella lettura globale della persona. Chi non accetta la fatica della conoscenza di sé, dimostrando una carenza di soggettività, non impara dagli errori che commette e molto probabilmente negherà sempre le critiche rovesciando la colpa di ogni situazione sugli altri, sull’ambiente, sulla “società”. Tuttavia anche una cosa bella come un percorso di conoscenza di sé ha dei rischi: potrebbe esserci il rischio del quietismo di chi finisce per dire: «Sono fatto così… non posso cambiare… non è giusto cambiare»; il rischio di un’eccessiva soggettività di chi rifiuta di assumersi delle responsabilità e rimanda a tempo indeterminato le scelte perché non si è conosciuto ancora bene; il rischio di rimanere ingarbugliati sul passato, titubanti sul futuro perché costruttori di teorie senza fine.
Per un educatore che desidera aiutare altri in un accompagnamento sarebbe molto opportuno dedicare un tempo congruo ed energie adeguate per fare un percorso di conoscenza di sé che possa offrire una comprensione dinamica della propria personalità e che aiuti a rimanere vigilanti su alcuni aspetti legati alla propria fragilità che potrebbero essere attivati in una relazione di aiuto. Sapere quali sono i propri tasti sensibili permette di comprendere meglio il proprio controtransfert; rileggere le relazioni primarie può aiutare a dare ragione del proprio stile di attaccamento o del proprio orizzonte valoriale; fare esperienza di qualcuno che in maniera empatica entra in relazione permette all’educatore di riproporre la stessa attenzione.
Quando si comincia un servizio come educatore e accompagnatore può essere molto utile fare un percorso di conoscenza di sé con una persona dotata di adeguate competenze psicologiche e/o educative.

5.2 Responsabilità
Il secondo passaggio, dopo quello dell’accettazione, è quello della responsabilità. Non basta semplicemente dire: «Accetto che la mia storia e i miei limiti siano questi», ma è necessario assumere anche un atteggiamento attivo che porti ad una trasformazione della realtà. Davanti ai propri limiti e alle proprie ferite la persona deve mettere in gioco tutte le proprie forze prima di tutto per non nuocere, ma poi anche per migliorare. Non basta dire: «Sono fatto così…», ma l’essere fatto in un determinato modo è il punto di partenza per un cammino di crescita e di maturazione.
Se uno conosce e accetta che davanti ad una persona in una situazione di debolezza in genere tende ad avere una posizione protettiva che stimola dipendenza nell’altro, deve vivere con responsabilità questa tendenza in modo che corrisponda alle esigenze di chi accompagna e non semplicemente ai propri bisogni: dovrà prendere alcune misure di prevenzione e di prudenza per evitare che il proprio essere protettivo colluda con il bisogno di dipendenza dell’altro in modo non maturante. Se uno conosce e accetta che davanti a chi fa respirare un atteggiamento di svalutazione reagisce in modo piuttosto aggressivo, magari userà tutta la prudenza e la capacità di prevenire per evitare l’escalation di un’interazione che rischia di essere violenta. In alcuni casi vivere con responsabilità il proprio vissuto e il proprio ministero di accompagnatore comporta anche l’eventualità di dire ad una persona: «Non ti posso accompagnare…è meglio se cerchi qualcun altro che ti possa aiutare… in questo momento non sono in grado di farti del bene».
Per vivere con responsabilità il proprio limite e la propria vulnerabilità, soprattutto in una relazione di accompagnamento, è importante poter contare sulla supervisione. Solamente in un rapporto personale si può imparare a vivere con responsabilità le relazioni di aiuto.
La supervisione è uno strumento che aiuta a vivere la responsabilità in quanto obbliga a “rendere conto” del proprio operato.
Essere responsabili e rendere conto non riguarda solo gli errori, ma una persona deve prendere possesso anche dei pensieri, delle fantasie, dei sentimenti che potrebbero essere collegati agli errori o alle errate interpretazioni. Quando uno è responsabile dei propri errori può crescere e migliorare l’efficienza pastorale.
La supervisione pertanto aiuta a vivere meglio la propria responsabilità, ma allarga anche la capacità di comprensione moltiplicando i punti di vista: nessuno può dirsi così competente da non aver bisogno degli altri per conoscere meglio; nessuno può dirsi completamente consapevole del proprio mondo interiore in modo tale da essere totalmente libero e flessibile.
Vivere responsabilmente il proprio ministero di educatore/ac- compagnatore comporta anche la disponibilità ad arrendersi alla correzione e alle prospettive che sono diverse dalle proprie.
La supervisione aiuta a sviluppare e a mantenere una soggettività disciplinata, contenendo le reazioni di paura, ansia, ostilità, rabbia, odio, preoccupazione che l’altro può suscitare, e questa soggettività disciplinata e autentica è in grado di una lettura più oggettiva.
La supervisione, poi, può offrire il supporto per il peso di mantenere la confidenzialità e la cura degli altri, quasi fosse un tempo di riposo e di rinnovamento. La supervisione è la forma migliore di formazione permanente che si possa immaginare. 

5.3 Chiamata
La conciliazione della fase più passiva dell’accettazione e quella più attiva della responsabilità dovrebbe portare a cogliere la chiamata presente nel proprio passato, nei propri limiti, della propria vulnerabilità.
In una lettura sapienziale dell’esistenza si riesce a vedere il proprio vissuto come una sorta di chiamata ad autotrascendersi, a superare i propri limiti, a cui è possibile dare una libera risposta.
La scoperta di questa chiamata non è un’opera compiuta una volta per sempre, ma è un cammino continuo di ricerca che non si vive da soli. Proprio perché l’identità e la vita sono realtà interpersonali, anche il riconoscere la propria chiamata avviene generalmente in una relazione interpersonale che aiuti a rileggere il proprio vissuto aprendo una dimensione altra.
Per mantenersi in una condizione di risposta permanente alla chiamata è fondamentale continuare un cammino di accompagnamento spirituale. Solamente chi percepisce anno dopo anno, il bisogno di essere accompagnato nello spirito mantiene la freschezza di attenzione per cogliere la chiamata che viene dalla propria storia, dal proprio limite, ma anche dal proprio presente e dal vissuto attuale. 

Conclusione
Vivere la verità di se stessi comporta la progressione attraverso l’accettazione, la responsabilità e la chiamata. Vivere il ministero di accompagnatori spirituali/educatori richiede la capacità di vivere la verità di se stessi, a pieno contatto con le proprie vulnerabilità, in modo da condurre gli altri all’incontro con il Dio fedele e misericordioso.

 

NOTE
1 Molti sono i testi che parlano il linguaggio dell’attaccamento. Per una sintesi si può vedere: S. Pallini, Psicologia dell’attaccamento. Processi interpersonali e valenze educative, Franco Angeli, Milano 2008.
2 Per una sintesi del pensiero di Kohut cf F. Codignola – E. dE Vito, «Sé e oggetti-Sé nella teoria di Kohut», in E. PElanda (ed.), Modelli di sviluppo in psicoanalisi, Cortina, Milano 1995, pp. 287-308.
3 Cf R. CaPitanio, «Con empatia», in «Tredimensioni» 7(2010), pp. 8-16.
4 Cf Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero. EDB, Bologna 2005, pp. 113-116.
5 Cf alcune tesi sulla conoscenza di sé in C.m. martini, Conoscersi decidersi giocarsi, AdP, Roma 2004, pp. 17-23 (riedito in C.M. martini, Rischiare e giocarsi. Verso scelte definitive, Centro Ambrosiano, Milano 2012, pp. 103-111).