N.04
Luglio/agosto 2016

Accompagnare oggi “nelle e dalle” periferie dell’umano

Prima di intraprendere con timore e tremore il lungo viaggio verso le periferie dell’altro, è necessario compiere, come diceva Martin Buber, il viaggio più drammatico e difficile che esista, ossia quello verso se stessi. Occorre inabissarsi, come palombari dello spirito, all’interno del proprio mondo interiore, per poi accorgersi che per questo luogo misterioso e profondo non esistono mappe di alcun tipo o navigatori satellitari.
Nell’intimo di noi stessi, abisso e deserto insieme, si prenderà coscienza delle molte ferite che ci abitano – inferteci chissà quando –, sogni mai realizzati, ombre, limiti, fragilità, peccati e comunque tanto dolore. Per questo siamo così soliti navigare per altri mari, più certi, meno perigliosi e comunque sempre in superficie. Qui è solo calma piatta. Tutto ben definito, prevedibile, sicuro e rassicurante. Ma chi vive sempre sulla superficie delle cose, e quindi, in ultima analisi, fuori di sé, è un uomo slogato, letteralmente “senza luogo”.
Occorre prendere coscienza del mondo che ci portiamo dentro. Riconoscere i mostri che ci abitano e che tanto fanno paura. Quelli che un certo moralismo esasperato ci ha insegnato che non è bene avere, ma che il Vangelo invita al contrario, una volta riconosciuti e chiamati per nome, ad arrivare anche ad amarli, per poi con stupore constatare che – come avviene nelle favole – addomesticati, sono in realtà preziosi alleati affinché la “principessa” possa essere liberata, ossia che il proprio vero sé possa vivere felice e contento.

1. Trasformare le ferite in perle?
La perla è splendida e preziosa. Nasce dal dolore. Nasce precisamente nel momento in cui un’ostrica viene ferita. Quando un corpo estraneo – un’impurità, un granello di sabbia – penetra al suo interno ferendola, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui ricopre l’impurità al fine di proteggere la propria membrana indifesa. Alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata.
Se non viene ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è solo una ferita cicatrizzata.
Quante ferite ci portiamo dentro, quante sostanze impure ci abitano? Limiti, debolezze, peccati, incapacità, inadeguatezze, fragilità psico-fisiche… E quante ferite nei nostri rapporti interpersonali? La questione fondamentale per noi non sarà tanto cercare di sbarazzarcene, ma piuttosto porci una domanda: come posso trasformare tutto ciò in positività? Come posso trasformare le ferite in perle?
Ogni accompagnatore dovrebbe cominciare proprio da questa domanda: come vivo il mio mondo interiore, soprattutto quando lo
Riconosco abitato da zone umbratili?
Occorrerebbe giungere ad avvolgere le nostre ferite interiori con quella sostanza cicatrizzante che è l’amore: unica possibilità di crescere e di vedere le proprie impurità diventare perle.
L’alternativa sarà sempre tormentarci con continui e dannosi sensi di colpa per ciò che non dovremmo essere e per ciò che non dovremmo provare, ma soprattutto saremo portati a coltivare risentimenti nei riguardi degli altri per le loro debolezze, per quello che sono, per come si comportano, per ciò che vivono, ossia in un modo sempre molto diverso da come vorremmo.
L’idea che spesso ci portiamo dentro è che dovremmo essere in un altro modo: per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non dovremmo avere dentro di noi quelle impurità indecenti. Vorremmo essere semplici “ostriche vuote”, senza corpi estranei di vario genere, dei “puri” insomma. Ma questo è impossibile, e anche qualora ci scoprissimo tali, ciò non significherebbe che siamo dei “puri” e che non siamo mai stati feriti. Semplicemente che non lo riconosciamo, non riusciamo ad accettarlo. Non abbiamo saputo perdonarci e perdonare, comprendere e trasformare il dolore in amore.
È fondamentale giungere a comprendere l’importanza – in noi e fuori di noi, nelle nostre relazioni – della presenza dei limiti, delle ferite, delle zone d’ombra; capire, alla luce del messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro ed altrui mondo interiore è segnato dall’ombra e dal limite, è l’unica nostra ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della nostra salvezza. Insomma, che non vi è nulla dentro di noi che meriti di essere gettato via.
«Tutto può essere trasformato in grazia, persino il peccato, diceva Agostino. Persino la nostra sessualità ferita e le nostre nevrosi, aggiungeremo noi, a condizione di farne un’occasione per aprirsi, per accogliere e condividere. Avremmo perciò torto a disprezzarle. Dobbiamo invece imparare a farne buon uso. Sono materia di santità»1.

2. Feriti… ma profondamente amati
Se cominciamo a ragionare in questo modo, vuol dire che si è compiuta in noi la vera conversione, la matànoia evangelica: cambiamento di mentalità. Avremmo fatto nostro un pensiero “altro”, saremmo finalmente giunti a non pensare più che la purezza, l’assenza di debolezza e di peccato, siano la nostra salvezza, ma proprio il contrario. La salvezza, la santità sarà piuttosto renderci conto della nostra verità, che siamo feriti, limitati, fragili, ma proprio per questo oggetto dell’amore folle di un Dio che – proprio perché siamo fatti così – viene a visitarci e a vivere di noi (cf Lc 5,31-32).
Il Vangelo ci rivela continuamente che tutto ciò che ha il sapore del limite, racchiude in sé anche la possibilità del suo compimento.
Dobbiamo deciderci – e aiutare chi ci è affidato a decidersi – da che parte stare: se optare per la forza o per la debolezza che ci abita. Un terzo non è dato. Gesù l’ha insegnato chiaramente da che parte stare: continuamente nel Vangelo ci viene ricordato che la nostra inadeguatezza, la nostra debolezza è una forza più grande di ogni altra, poiché possiede la forza stessa di Dio (cf 2Cor 12,10).
Quindi la sapienza del Vangelo ci ricorda che ciò che noi vorremmo estirpare, ciò che non vorremmo trovare nel nostro campo interiore, diventa invece occasione di compimento. Dio usa le nostre ferite come luogo di epifania, di manifestazione. Trasforma i nostri limiti in “accadimento della grazia”, in occasione di abbraccio. Si pensi ad esempio al trittico della misericordia nel Vangelo di Luca, al capitolo 15:
– l’unica pecora delle cento a godere dell’abbraccio, della festa, della gioia del pastore è quella perduta (cf Lc 15,4-7);
– la donna fa festa con le amiche per il ritrovamento dell’unica moneta perduta (cf Lc 15,8-10);
– il padre può manifestare – in una casa infestata da servi – la sua folle gioia, ossia la sua essenza, solo al figlio “disgraziato” (cf Lc 14,11-32).

3. Tra grano e zizzania
Rimanendo nel discorso parabolico, proviamo a pensare alla parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30). Fuori di metafora: i discepoli del Regno, moralisti fino al midollo, scandalizzati perché il campo di Dio è macchiato dal male, vanno dal Signore proponendosi come giardinieri dell’Assoluto, perché, da che mondo è mondo, le erbe cattive non possono avere diritto di cittadinanza ove tutto è considerato sacro. E invece il Dio di Gesù Cristo spiazza tutti affermando: «No, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (Mt 13,29). Splendido! Il mio campo, che è parte del cuore e del Regno di Dio, va benissimo così. Non occorre estirpare la zizzania, perché questo rischierebbe di eliminare anche il grano, ossia l’azione di Dio in me che ama, perdona e usa misericordia. Se, come abbiamo detto, le nostre zone umbratili sono l’occasione perché Dio possa manifestarsi con la sua essenza che è Amore, se io sradico da me stesso la mia povertà, tolgo a Lui la possibilità di raggiungermi, di abbracciarmi, di essere baciato e rivestito con gli abiti regali (cf Lc 15,20-24).
Forti e bellissime le parole del grande Charles Péguy: «Le “persone oneste” non hanno difetti nella loro struttura. Non sono ferite. La pelle della loro morale, costantemente intatta, costruisce su di loro una corazza senza difetti. Non presentano l’apertura causata da un’orribile ferita, una sventura indimenticabile, un rimorso invincibile, un punto di sutura eternamente mal cucito, un’inquietudine mortale, un’amarezza segreta, un cedimento sempre dissimulato, una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano la via di accesso alla grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, non sono vulnerabili. Poiché non mancano di nulla, non si porta loro nulla […]. La stessa carità di Dio non cura per nulla chi non ha ferite. Il Samaritano si chinò sull’uomo ferito perché questo era a terra. Veronica asciugò il volto di Gesù perché era sporco.  Ma chi non è caduto non sarà rialzato; e chi non è sporco non sarà pulito»2.
Dio non chiede di cancellare, annullare, sopprimere nulla di ciò che siamo, nulla del nostro passato, ma di scorgere in esso la sua Presenza, e questa in atto. Non annulliamoci, Dio ha fatto tanta fatica a farci crescere!
San Paolo lo comprese molto bene e lo ha splendidamente descritto nell’esperienza personale della “spina nella carne” che non gli è stata tolta (cf 2Cor 12,7-9). È come se Dio gli dicesse: «No Paolo, quella spina te la tieni, e vedrai che quando più ti ferirà, quello sarà il momento in cui avrai modo di sperimentare il mio abbraccio».
Il mio male rivela il bene di Dio.
La mia infedeltà la sua fedeltà.
La mia miseria la sua misericordia.

4. Una menzogna da sempre presente
Molto cristianesimo soffre ancora del veleno inoculato dal serpente nei nostri progenitori, ossia quello della menzogna. Menzogna che ci ha portati a sbagliarci su Dio, sul suo vero volto e sul suo vero cuore. Menzogna che ci ha portato e ci porta continuamente a nasconderci nei nostri sepolcri, per paura che Dio ci trovi, come accadde ad Adamo, che si nascose per paura del suo Dio (cf Gen 3,8-13.).
Dio non ha davanti a sé peccatori, ma solo figli. Non colpevoli, ma donne a uomini assetati di felicità. Non “massa dannata”, ma un’umanità che «non si vergogna di chiamare fratelli» (Eb 2,11).
In cosa consisterà dunque la nostra salvezza? Nel presentarci a lui senza limiti? Puri? Santi? No. Ma nel venire alla luce di noi stessi, sbocciare: come il seme ha come unica vocazione quella di diventare fiore e lasciare sul terreno della storia a sua volta il proprio seme, noi possiamo venire alla luce di noi stessi, sbocciare alla vita, costruire la nostra statua come dicevano gli antichi, «proprio con tutto il nostro mondo interiore», per quanto fragile e misero esso sia. Perché il vuoto è la condizione per essere riempito e più profonda è la pozzanghera, più acqua è in grado di contenere.
«Il mio peccato è la mia parte di Vangelo!» ripeteva Silvano Fausti.

5. Il limite ci salva
Torno per un attimo all’immagine mitologica del serpente di Genesi 3: egli promette ad Adamo e Eva di togliere loro ogni limite (cf Gen 3,5). Eva mangia non per disobbedienza dunque, o come atto di superbia, ma semplicemente perché ciò che le viene prospettato è talmente grande che non può rinunciarvi: essere “perfetta” come Dio. E chi non lo vorrebbe? Ma è proprio questo il peccato! Non l’essere imperfetti, ma il voler essere perfetti! Eppure, a ben vedere, è questa la nostra vocazione: diventare come Dio, e quindi perfetti come Dio (cf Mt 5,48).
Facciamo attenzione: il verbo non è però “siate perfetti”, bensì, “voi sarete perfetti”! In greco c’è “èseste”, un futuro medio indicativo. Allora le cose tornano. Si diventa compiuti nella e attraverso la propria storia. Lentamente.
L’obiettivo è diventare sì come Dio, ma senza scorciatoie. Perché ogni scorciatoia, senza la fatica della propria imperfezione pazientemente accettata e modellata è diabolica.
Si diventa Dio da uomini, coi propri limiti. Adamo ed Eva, avendo intrapreso l’altra strada, quella immediata, non sono giunti ad essere come Dio, ma piuttosto a precipitare in uno stato sub-umano. È il limite a salvarci! Siamo ontologicamente limitati, finanche nel corpo. Un contenitore ha bisogno di un limite che contenga il contenuto. Adamo ed Eva erano venuti al mondo nudi. La nudità è la nostra vera natura. Nudo significa senza protezione, fragili, feribili, limitati… Ma poi, non accettandola più come condizione, e volendo superarla, arrivano semplicemente alla vergogna di esserlo.
Noi facciamo molta fatica ad accettare la nostra nudità. Non accogliere il nostro stato naturale, la nostra verità di uomini e donne feribili, vulnerabili è l’inizio del nostro malessere esistenziale. E indossiamo maschere per essere “altro”, al fine di essere accettati.
Questo “recitare a soggetto” lo impariamo benissimo fin da piccoli, coi genitori, e poi con gli educatori, e poi coi superiori, e alla fine anche con Dio. Siamo tutti un po’ dei teatranti, sempre “nei panni degli altri”; esperti nel tradire un po’ la nostra verità al fine di farci accettare. Insomma, accettiamo di morire un po’, per non morire.
«Mi chiedi in quale modo io sia divenuto folle. Accadde così: un giorno, assai prima che molti dèi fossero generati, mi svegliai da un sonno profondo e mi accorsi che erano state rubate tutte le mie maschere – le sette maschere che in sette vite avevo forgiato e indossato –, e senza maschera corsi per le vie affollate gridando: “Ladri, ladri, maledetti ladri”. Ridevano di me uomini e donne, e alcuni si precipitarono alle loro case, per paura di me. E quando giunsi nella piazza del mercato, un giovane dal tetto di una casa gridò: “È un folle”. Volsi gli occhi in alto per guardarlo; per la prima volta il sole mi baciò il volto, il mio volto nudo. Il sole baciava per la prima volta il mio viso scoperto e la mia anima avvampava d’amore per il sole, e non rimpiangevo più le mie maschere. E come in trance gridai: “Benedetti, benedetti i ladri che hanno rubato le maschere”. Fu così che divenni folle. E ho trovato nella follia la libertà e la salvezza: libertà dalla solitudine e salvezza dalla comprensione, perché quelli che ci comprendono asserviscono sempre qualcosa in noi»3.
C’è un’immagine molto bella nell’iconografia classica, in cui si vede San Girolamo al tavolo di lavoro con un leone mansueto che dorme accovacciato ai suoi piedi. Girolamo è l’uomo che ha accettato la sua nudità (viene rappresentato a torso nudo), la sua vulnerabilità, non ha più bisogno di difendersi dalle belve, dai mostri interiori.
Quando Dio ci chiede, come chiese ad Adamo: «Dove sei?», mi sta domandando: «Accetti di essere nudo? Non avere paura, a me va benissimo così come sei. Io ho detto “sarete perfetti”, dunque lavora partendo da ciò che sei, lasciami essere collaboratore con la tua crescita. Lasciati toccare e io ti rialzerò».

6. Amore trasfigurante
Non sarà quindi difficile immaginare quale tipo di accompagnatore si accosterà all’altro che chiede di essere accompagnato: un uomo, una donna che hanno fatto esperienza di tutto ciò. Guaritori feriti, si diceva all’inizio.
Una persona ferita, ma al contempo “divinizzata”, forgiata dall’amore, dalla misericordia. Un uomo, una donna nuovi, trasfigurati.
Chi ha fatto esperienza di questo amore trasfigurante si avvicinerà all’altro aiutandolo a scoprire in sé il medesimo miracolo dell’amore. Aiuterà l’altro a non sentirsi vittima del peccato, materiale di scarto, sporco…
Lo aprirà ad una fiducia che ha il sapore di risurrezione, di rinascita. Gli farà lentamente prendere coscienza delle perle preziosissime che porta nella parte più intima di se stesso. Che l’amore di cui è fatto oggetto è infinitamente più importante e bello di ciò che è chiamato a fare.
Noi accompagnatori siamo chiamati ad irraggiare la luce con cui siamo stati illuminati.
Stando ai Vangeli, sappiamo che da Gesù doveva uscire una forza tale che le persone vicino a lui cominciavano a trovare raccoglimento e pace (cf Mc 5,30; Lc 6,19; 8,46; 9,1) e non paura e angoscia.
In Gesù doveva vivere la ferma convinzione che ciascuna persona meriti di essere presa per mano finché paure, angosce, sensi di colpa si possano dissolvere.
Dinanzi a Gesù l’uomo aveva la ferma convinzione che ogni situazione, ogni malattia esistenziale, ogni ferita antropologica, non poteva essere l’ultima parola. Sapeva come a partire proprio da quella situazione fosse ancora possibile mettersi in marcia, fosse possibile un nuovo inizio e cominciare di nuovo ad avere speranza, al di là della speranza che gli uomini ritengono possibile.

7. Coraggio! Dio rende fecondo il mio passato
È impressionante notare come una parola che torna con insistenza sulla bocca di Gesù quando incontra le persone che versano in situazioni apparentemente impossibili sia coraggio (cf Mt 9,2; Mt 9,22; Mt 14,27; Gv 16,33). Coraggio: una parola pesante come un miracolo, che accade sempre prima dell’avvenuto miracolo.
Coraggio, ossia, comunque andrà ti accadrà qualcosa di buono. Gesù spalanca l’oltre, abbatte la barriera dell’impossibile causato dal male, dal peccato, dal limite. Per l’amore non c’è limite, ma solo un oltre!
Dovremmo imparare una cosa molto importante, noi che ci dedichiamo all’accompagnamento: «Il Signore ha sposato le conseguenze delle mie erranze, che formano ora la trama della mia esistenza»4. Dio ama le conseguenze dei miei sbagli, delle mie erranze e che ora fanno parte di me: infatti ciò che io sono ora è il risultato della mia storia, per quanto sbagliata essa sia. E Dio è lì e ama la mia storia attuale.
Sì, Dio ama, rende fecondo il mio passato sbagliato, sporco e peccaminoso. Dio fa fruttificare il mio presente, perché non può permettere che il mio passato gravi sul mio futuro.  Pensiamo a proposito al bellissimo e insieme drammatico episodio di Davide e Betsabea. Da una storia storta, malata, Dio fa scaturire Salomone, anello fondamentale per la storia della salvezza (cf 2Sam 11,1-27). Non solo, ricordiamo anche le quattro donne impossibili dell’Antico Testamento e presenti nella genealogia secondo San Matteo (1,1-17).
Donne peccaminose, adultere, bugiarde e straniere: Tamar, Racab, Rut, Betsabea. Nel Vangelo risultano anelli fondamentali, materiale di costruzione preziosissimo per la nascita di Cristo, occasione per l’incarnazione di Dio nella storia degli uomini.
È inutile piangere sulle infedeltà passate: la volontà di Dio è solo quella di trarre un bene da ogni situazione presente, per costruire un futuro di speranza e di vita feconda.

8. Accompagnare una storia sacra
Accompagnare dunque le storie affidateci, ma senza giudicare da quali periferie della storia possono arrivare. Accompagnare, ma senza cercare di cambiarle, perché solo l’amore con cui le si avvolge potrà compiere il miracolo della trasformazione, perché ogni storia, per quanto storta possa essere, rimane comunque sempre storia sacra. Questa si chiama misericordia.
Dio non ha mai lavorato per il cambiamento dell’uomo. Egli non è un mago che agisce dall’esterno, ma sole che trasfigura dall’interno.
Ciascuno, per quanto fragile e debole, ha qualcosa in sé su cui Dio sta scommettendo.
L’Amore non si sostituisce a noi; ha un immenso rispetto della nostra libertà. Egli gioca su quello che siamo adesso, in questo momento. Interviene sempre nella nostra concreta situazione: dove regnano la desolazione, le paure, i dubbi paralizzanti, le divisioni nel cuore e quelle tra le persone.
Dio non ci trasforma la vita dal di fuori, ma sta con noi e così fa emergere tutte le nostre potenzialità assopite, dicendoci che valiamo per quello che siamo.
Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo scrive: «Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie lì dove uno meno se le aspetta. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no!”, lì egli dice “sì”! Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di un amore ardente incomparabile. […] Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia»5.
La poetessa francese Marie Noël (1883-1967), nel suo diario segreto, ha immaginato questo bel dialogo con Dio: «” Sono qui, mio Dio, Mi cercavi? Cosa volevi da me? Non ho nulla da darti. Dal nostro ultimo incontro non ho messo da parte nulla per te. Nulla, nemmeno una buona azione o una buona parola. Ero troppo triste. Nulla, se non il disgusto di vivere, la noia, la sterilità”. Cristo mi disse: “Dammi le tue miserie!”. E io: “Signore, ma allora tu, come uno straccivendolo, raccogli tutti i rifiuti. Che ne vuoi fare?”. E il Signore rispose: “Il regno dei cieli!”»6.

 

NOTE
1 A. Daigneault, La via dell’imperfezione, Effatà, Cantalupa (TO) 2012, p. 17.
2 C. Péguy, Oeuvres en prose II, in P. Scquizzato, Padre nostro che sei all’inferno, Effatà, Cantalupa (To) 2013, pp. 56-57.
3 K. Gibran, Il folle, in P. Scquizzato, L’inganno delle illusioni. I sette vizi capitali tra spiritualità e psicologia, Effatà, Cantalupa (TO) 2014, pp. 6-7.
4 e. Marie, Dilatare la vita, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2007, p. 29.
5 D. Bonhoeffer, Sermone della 3a domenica di Avvento, in id., Riconoscere Dio al centro della vita, Queriniana, Brescia 2004, p. 12.
6 M. Noél, Diario segreto, in «Avvenire», Il Mattutino, 18/09/2005.