N.04
Luglio/agosto 2016

Dal senso di colpa al pentimento evangelico

1. Perché parlare di colpa?
Ci si può domandare se abbia ancora senso parlare di senso di colpa oggi. La corrente filosofica del relativismo che si è imposta con forza nel XIX secolo in ambito sia etico che culturale e che ha sempre più influenza nella società odierna, invita a sostenere che non si possa pervenire ad una piena conoscenza della verità assoluta, ammesso che ne esista una.
Il significato del senso di colpa si sta modificando molto nella nostra società, specie in conseguenza al bombardamento mediatico di messaggi in tal senso. E questo cambiamento interessa tutti perché tutti respiriamo di questi mutamenti culturali.
Non possiamo ignorare che nella società e nella cultura di oggi, ciò che prima addirittura poteva essere una vergogna, spesso diventa motivo di vanto e di orgoglio. Questi cambiamenti culturali, intaccando inevitabilmente i valori, non possono non incidere sul senso di colpa.
Mentre il senso di colpa, come vedremo, ha una connotazione squisitamente psicologica, nel parlare di senso del peccato dobbiamo necessariamente fare riferimento alla fede¹. Il senso del peccato, infatti, è direttamente proporzionale al senso di Dio. Spesso le persone che ci troviamo ad accompagnare arrivano da percorsi in cui Dio era poco contemplato o era stato smarrito per strada, specie negli anni dell’adolescenza. In ogni caso, spesso queste persone, più che sperimentare il senso del peccato di fronte ad errori realmente commessi, fanno i conti con un più vago senso di colpevolezza di cui faticano a liberarsi nonostante tutte le rassicurazioni delle persone attorno a loro. Anche se tutti le perdonassero, il loro censore interiore non le lascia in pace.
In alcuni casi, tale rigidità nasconde persino una tentazione di perfezione legalistica che, specie nei momenti di rilassamento spirituale, può farsi concreta anche per chi fa un percorso di vita impegnata nella fede. Sì, dietro al senso di colpevolezza può celarsi un senso di onnipotenza che fa esclamare: «È tutta colpa mia!».
Una tale spietata rigidità verso se stessi appare come una forma di auto-fariseismo. Il fariseo è colui che guarda l’altro con disprezzo, giudicandolo per ciò che fa. Egli sa guardare solo a se stesso e alla sua presunta bravura. Se tale atteggiamento giudicante lo si rivolge contro se stessi, ne emergono colpa indicibile e senso d’impotenza.
Non un atteggiamento umile e sinceramente pentito, come quello del pubblicano che nella sua piccolezza non osa rivolgere lo sguardo a Dio (Lc 18,9-14), ma un atteggiamento gretto e infelice di chi, deluso persino da se stesso, non osa ormai più attendersi nulla neppure da Dio, la cui misericordia non potrà certo essere più grande del proprio peccato. È questo l’atteggiamento di chi non è stato ancora raggiunto dalla bella notizia che «qualunque cosa [il nostro cuore] ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,20). Dimenticando questo consolante messaggio, a emergere è ancora una volta solo la persona, pur nella sua condizione di miserabile.

2. Colpa o peccato? Differenze sostanziali
Ma perché tutto questo, quando a ben guardare sembra una tortura per la persona stessa? È la triste condizione psicologica per cui alcuni preferiscono restare nella propria miseria che fare l’umile tentativo di cambiare le cose. Hanno confuso l’umiltà con l’umiliazione. È il paradosso per cui, in fondo, pur nella sofferenza, la persona riesce a sapere chi è e dove sta andando, ad avere una certa percezione della propria identità.
La colpa è un affetto umano, un’emozione di base dell’uomo che si attiva in vari momenti dell’esistenza. Ne siamo dotati da sempre, almeno da quando i nostri progenitori hanno scoperto di «essere nudi» (cf Gen 3, 7.11), dopo la trasgressione al comando divino. Anche a livello puramente psicologico, la trasgressione, la ribellione alle norme date, ha sempre e comunque un nesso naturale con il senso di colpa. Chiaramente il nesso tra ribellione e colpa dipende dal codice etico e normativo di ciascun individuo.
Ci sono persone che fanno di questo rispetto esemplare delle proprie norme il punto di osservazione privilegiato per dire a se stessi il valore della propria identità personale, così che osservando le norme si sentono “giusti”, in caso di tradimento sono “colpevoli”.
Essi tendono a vedere le cose in bianco e nero, senza sfumature, e a provare grandi sensi di colpa.
In realtà spesso dietro al problema del senso di colpa si nascondono bisogni primari e ineludibili che sono stati in qualche modo frustrati. Lo suggeriva già Maslow nella rappresentazione dei bisogni attraverso la sua famosa piramide. Quando i bisogni di base (sicurezza, appartenenza, autostima, ecc.) restano insoddisfatti, s’insinua un forte dubbio sul proprio valore di sé con la conseguente sensazione di essere persone non degne, sbagliate, mancanti². Chi non ha mai sperimentato ogni tanto un po’ di senso di colpa, quella cupa sensazione di aver fatto qualcosa di grave o irreparabile che spesso fa rimuginare a lungo su eventi passati anche da molto tempo?
L’uomo incappa nel senso di colpa quando sa di avere trasgredito una regola mentre è il senso del peccato che si risveglia quando si raggiunge la consapevolezza di aver ferito la relazione con un padre che ama e concede fiducia.
La colpa assomiglia a un monologo interiore che porta ad arroccarsi sempre più su se stessi, un vicolo cieco senza uscita, un labirinto in cui si perde l’orientamento e si continua a girare intorno restando bloccati. Il senso del peccato, al contrario, è sperimentabile solo all’interno di un rapporto dialogico con l’alterità di un Dio, il “Dio-con-loro” che quando perdona «fa nuove tutte le cose» (cf Ap 21,5) e porta a maturare profondamente.
Ancora, il senso di colpa è collegato ad altri sentimenti e sensazioni negativi che fanno sentire bloccati e tolgono il respiro: frustrazione, rabbia, vergogna… Il senso del peccato è liberante perché, lungi dall’idea di dover dimenticare ciò che è stato, considera piuttosto la potenza di Dio che può trarre il bene proprio dal male compiuto, nella logica paolina per cui «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
Qualunque sia l’origine di ciò che si prova, l’obiettivo dell’educazione e dell’accompagnamento spirituale non dovrebbe essere quello di eliminare il senso di colpa, ma di aiutare la persona a viverlo in maniera costruttiva. Sì, il senso di colpa, infatti, può evolvere in favore di una maggiore crescita e dello sviluppo della persona. Ed è molto importante, ai fini di questo sviluppo, l’atteggiamento dell’accompagnatore.

3. Effetti difensivi del senso di colpa
La Bibbia, osservando che «il giusto pecca sette volte al giorno» (Pr 24,16), ci rivela che il peccato è una condizione inevitabile per l’uomo. È un aspetto della vita spirituale con cui non possiamo non confrontarci. Quando si parla del peccato, tuttavia, le possibili reazioni ad esso sono diverse. Spesso mettiamo in atto meccanismi inconsci per “difenderci” dallo spiacevole senso di colpa che proviamo e dalle altre emozioni e sensazioni ad esso associate, assumendo così atteggiamenti che vanno tutti nella direzione del nascondere o del minimizzare. Possiamo individuarne alcuni.
Ipercompensazione: c’è chi attribuisce a un altro o agli altri le proprie responsabilità salvando la propria immagine. Si esalta se stessi come “giusti” proiettando sugli altri la colpa. In questo caso si rischia persino di non avvertire affatto il senso di colpa in un atteggiamento narcisistico o paranoico che, al contrario, fa sentire al riparo da ogni pecca.
Distacco difensivo: c’è chi attribuisce il proprio malessere prevalentemente alla tentazione del nemico per la quale non sente di avere armi sufficienti e dalla quale è meglio fuggire cercando rifugio nella distrazione dal dolore. Ne sono un esempio tutti quegli atteggiamenti che, dopo aver “dissociato” la persona dal problema emotivo difendendolo apparentemente da esso, lo fanno ricadere in una situazione di maggiore frustrazione e di stallo: masturbazione, abbuffate compulsive, uso di droghe, procrastinazioni nel fare le cose importanti, ecc. Sono tutti tentativi di “disconnettere” la propria consapevolezza dalla situazione che sta provocando disagio emotivo.
Resa: c’è chi attribuisce la colpa a una condizione umana ineludibile, che sente di non poter vincere e di fronte alla quale si sente impotente. Questo è un atteggiamento di resa con cui semplicemente si desiste dal tentare di cambiare abbandonandosi alla propria sensazione di colpevolezza come se non si potesse fare nulla per modificarla, rafforzando in se stessi la convinzione di essere colpevoli e allo stesso tempo diventando sempre più vulnerabili agli errori commessi.
Tali meccanismi difensivi sono messi in atto in modo inconscio come tentativi di salvaguardare quella parte di noi che è stata frustrata nei suoi bisogni di base. È da tale frustrazione, avvenuta in vario modo nella fase dell’infanzia, che emergono le emozioni spiacevoli che ci accompagnano anche nella vita adulta. Ogni volta che, confrontandoci col senso di colpa, l’immagine di noi stessi risente di un’eccessiva ipervalutazione o di una dolorosa svalutazione è probabile che stiamo mettendo in atto una di queste modalità difensive e se prestiamo sufficiente attenzione forse riusciamo ad individuare di che si tratta e a cercare di smorzare il potere con cui intralciano la nostra crescita. Non dobbiamo mai dimenticare che se le prime e significative esperienze della vita possono avere profondamente e negativamente inciso sul nostro cammino personale, tuttavia, non siamo mai ineludibilmente determinati da esse.

4. Effetti adattivi del senso del peccato
Il senso del peccato, diversamente dal senso di colpa psicologico, non attiva un sistema difensivo che nasconde o distorce la realtà dei fatti, ma piuttosto un sistema adattivo in grado di promuovere una sempre maggiore capacità di leggere le cose per quelle che sono realmente e di trovare soluzioni valide ed efficaci. Presentiamo di seguito alcuni esempi di atteggiamenti adattivi.
Autoaffermazione: quando la persona è in grado di riconoscersi peccatore che ha compiuto un errore agli occhi di Dio e non si tira indietro rispetto alle proprie responsabilità, egli sta compiendo un gesto di autoaffermazione con cui promuove la propria dignità di persona che vive la vita come dono e che sa mettere in conto anche il fallimento accogliendo la sfida e il coraggio che esso comporta per risollevarsi dalla caduta.
Autosservazione: di fronte alla situazione di peccato vissuta e che probabilmente crea uno stato di afflizione o inquietudine nella persona, egli è in grado di osservare l’evento facendo appello alla propria capacità introspettiva e lasciando che ne emergano tutti gli elementi importanti per conoscersi sempre più profondamente, come persona portatrice allo stesso tempo di doni, di talenti e capacità, ma anche di limiti e debolezze.
Altruismo: la persona che riesce a chiedere perdono per il peccato e a godere della gioia di essere stato salvato, vive con maggiore entusiasmo anche la possibilità di aiutare gli altri posponendo i propri interessi ai loro.
Affiliazione: il senso del peccato non porta a riconciliarsi solo con Dio, ma anche con i fratelli verso i quali si è compiuto il peccato e più in generale con l’umanità intera, poiché amplia il senso di corresponsabilità verso gli altri.

5. La tristezza della colpa
Nel parlare del senso di colpa abbiamo accennato ad alcuni meccanismi difensivi con cui cerchiamo di proteggerci da esso e dalla ferita che esso provoca alla nostra autostima. Tali meccanismi, tuttavia, per loro natura sono destinati a fallire lo scopo, nel senso di non riuscire a difendere realmente la persona dalle sofferenze emotive, almeno nel lungo periodo. Questo accade perché la difesa è appunto apparente e non tocca mai realisticamente i dati per quelli che sono.
Se nel tentare di estinguere la colpa la persona sposta semplicemente l’attenzione su altri oggetti o nega la gravità dei fatti o proietta altrove la responsabilità, tutto ciò potrà forse dare inizialmente un certo sollievo, ma alla lunga non avrà alcun beneficio poiché il senso di colpa, così facendo, non si estingue e tenderà, invece, a ripresentarsi presto ancora più forte, come in un circolo vizioso. Nel circolo vizioso, poi, ogni volta che ritorna il senso di colpa, ne conseguono emozioni disforiche di tristezza, rabbia, noia, ansia. Sì, è triste sentirsi inchiodati dalla piccolezza del proprio io, dalla limitatezza della propria condizione d’imperfetti.
Il senso di colpa così inteso, dunque, rappresenta una mancanza di accettazione di quella che è una verità ontologica dell’essere umano, la sua limitatezza e fragilità.
Una “legge” della psicologia, inoltre, è che non ci sono decisioni neutre che non lasciano una traccia o una conseguenza. Ogni decisione crea come un deposito nei circuiti neuronali della persona, un impulso che muove nella direzione della scelta già fatta affinché sia ripetuta. Non è una triste condanna, è la natura umana. Quando ad esempio viviamo un piacere profondo, benché “illecito” (il nostro cervello non fa questa distinzione), questo stimola il sistema mesolimbico dopaminergico, che ha funzioni di facilitazione comportamentale, nucleo centrale del sistema cerebrale del piacere. Il sistema dopaminergico rilascia dopamina in occasione di comportamenti utili alla sopravvivenza o in occasione di esperienze piacevoli.
Più l’esperienza è ripetuta e più il circuito del piacere è sensibilizzato, fino alla possibilità che si crei persino una dipendenza rispetto all’esperienza piacevole. Molte persone, una volta che si è innescato questo circuito rispetto ad esperienze di peccato, provano un profondo senso di colpa e di impotenza per la fatica di uscirne. Questo può creare molta tristezza e scoraggiamento nella persona, tanto che il senso di colpa persistente e immotivato è uno dei sintomi facilmente riscontrabili all’interno delle sindromi depressive. Anche nei casi clinici di non grave entità, tuttavia, esso è spesso presente, manifestandosi più semplicemente sotto forma di vago senso d’insoddisfazione di sé che porta a chiudersi alla vita e agli altri con sempre maggiore perdita di stima in se stessi.

6. Dalla colpa al senso del peccato, un cammino possibile
Abbiamo accennato al fatto che la colpa, di per sé, può aiutare la persona a maturare un sano senso delle proprie responsabilità e dei propri peccati. Tuttavia, la cognizione della propria condizione di peccato può essere per la persona come un vero terremoto che scuote e distrugge qualcosa dentro di sé e sulle cui macerie occorre poi avere la forza di lavorare per la ricostruzione. Le fasi di questo terremoto sono:
1. L’infrazione delle regole che porta a sentirsi mancanti, sbagliati. Ci si sente smarriti, si perde l’equilibrio. Inizia a tremare l’edificio della propria stima di sé;
2. Emergono emozioni angosciose, ansia e rimorso. Emerge il senso di colpa e si attraversa una crisi;
3. La stima di sé è messa in discussione. La colpevolezza si scontra con i valori di riferimento e si mette in discussione il proprio valore personale. Si sgretola il proprio edificio interiore;
4. Si cerca di espiare, di riparare alla colpa. Si impiegano le proprie energie a favore della ripresa dei valori personali e dei comportamenti riparativi per ristabilire l’equilibrio interno.

Se questi passaggi tra una fase e l’altra subiscono per qualche motivo un arresto, la situazione non evolve verso un senso del peccato maturo e in grado di far fare uno slancio alla persona verso una posizione di maggiore maturazione. Se la persona trova il coraggio di affrontare la realtà dei suoi errori e comprende profondamente in se stesso ciò che non va, allora si apre la strada per il cambiamento. Occorre però che la persona s’interroghi profondamente sul significato dei suoi errori, su quale fragilità in sé è veramente responsabile di essi, senza che ciò diventi fonte di scrupolosità eccessiva. E questo cambiamento deve sfociare in una presa di posizione, un’assunzione di disciplina che porta a lottare contro il disordine interiore per ottenere la libertà profonda³.

7. La gioia del perdono
Dunque abbiamo visto che è vero, come già ci anticipava il titolo, che il senso di colpa, se prende la giusta direzione, può trasformarsi in senso del peccato aiutando la persona a prendere consapevolezza del suo io attuale e di farlo muovere verso il suo io ideale, verso i valori appresi e scelti.
C’è un’immagine che sembra rappresentare bene questa presa di consapevolezza e questa capacità di ritorno ai propri valori. È un quadro poco conosciuto del 1617 del pittore fiammingo Pieter Paul Rubens che raffigura Cristo con i quattro grandi penitenti. Vi riconosciamo la Maddalena, il ladrone pentito, il re Davide e San Pietro. Personaggi ben noti alla tradizione cristiana che incarnano sì il peccato, la caduta, ma evidenziano anche la loro rinascita attraverso il pentimento, l’umiltà, il riconoscimento del dono gratuito del perdono di Cristo. Questa “offerta” è resa in maniera efficace dal gesto di Gesù, che teneramente porge la sua mano segnata dai chiodi. Per essere perdonato occorre farsi piccolo, umile, come questi quattro personaggi. Anche Maria nel Magnificat canta di un Dio che guarda all’umiltà della sua serva. Solo se ci si fa sufficientemente “piccoli” da sapere che senza il perdono di Dio non si può vivere, Dio ci fa “grandi” offrendoci il suo perdono (cf Mt 18,4), cui fa eco un altro passo che rappresenta un monito molto chiaro non solo per i farisei di allora, cui Gesù si rivolge, ma anche per ciascuno di noi oggi se ci sentiamo al riparo dalla colpa perché giusti: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Mt 23,11-12). Notiamo, inoltre, che si parla di un perdono per il quale persino il Cielo esulta di gioia (cf Lc 15,7). Dobbiamo solo decidere da che parte stare.
Molti di noi e delle persone che a vario titolo accompagniamo nel percorso vocazionale hanno fatto l’esperienza di sentirsi “denudare”, spogliare della dignità nel momento in cui hanno compiuto un errore.
Dire all’altro: «Vergognati!», oppure: «Non ti vergogni di quel che hai fatto?», significa denudarlo della dignità di persona, farlo sentire verme e non uomo (cf Sal 22,7). Quante volte anche i genitori, convinti di farlo per il suo bene, dicono al figlio “vergognati!”.
In questo sono profondamente significative le prime esperienze di attaccamento con le figure genitoriali, in particolare la madre.
Una “madre sufficientemente buona”, per riprendere il concetto di Winnicott, consente al bambino di uscire da sé e sviluppare fiducia nelle relazioni e nell’ambiente. Ciò lo porterà anche a saper integrare più facilmente gli aspetti di ambiguità della vita, ad amalgamare le gioie e i dolori, le capacità e i doni di cui è portatore con i lati oscuri e i limiti che ognuno porta in sé. L’importanza di questo atteggiamento di accompagnamento amorevole, cui possiamo benissimo paragonare gli atteggiamenti di cura spirituale, è di natura squisitamente relazionale e affettivo, incentrato cioè sull’essere con e per l’altro, piuttosto che sulle cose materiali o le competenze che si possono offrire.
Dunque, chi ha problemi ad accettare i propri errori e non riesce a perdonarsi, evidentemente ha un problema nella propria stima di sé. Jung sostiene, infatti, che riconciliarsi con la propria storia sia essenziale alla maturazione di una sana autostima. Diventa persino, come accennavamo, una responsabilità da assumersi quella di accettare il proprio passato come materiale da modellare e l’unico a disposizione per creare una bella figura. Il mio passato è la materia unica e indispensabile che ho tra le mani per fare della mia vita un capolavoro. La nostra storia è un capitale e riconciliarci con essa e con i suoi aspetti più difficili da accettare porta frutti immensi4.
Occorre allora superare la vergogna. Ne sapevano qualcosa anche i nostri progenitori. Ricordate Adamo ed Eva nel giardino terrestre? Erano nudi e non era un problema. Il problema sorge nel momento in cui compiono il peccato e si scoprono nudi, si vergognano e si nascondono. La psicologia ci insegna, però, che ciò che si nasconde non perde di forza, anzi, acquista sempre maggiore potenza fino a condizionare subdolamente il comportamento umano5.
In sintesi: il passaggio pasquale, la conversione, sta nel passaggio dal nascondere per vergogna o paura la propria colpa al peccato “coperto” da Dio, perdonato in seguito al nostro rivolgerci a lui con fiducia. La conseguenza è la gioia, la beatitudine di colui cui è appunto coperta la colpa e perdonato il peccato. Solo nella profondità di questo passaggio pasquale è radicata la gioia della lode e solo da un cuore che si apre al perdono, riconoscendo senza paure la propria responsabilità, essa può scaturire.
Andando oltre la colpa, è possibile incontrare il perdono che conduce alla beatitudine, alla gioia. È un passaggio attraverso il quale le colpe non sono rifiutate o dimenticate, ma integrate in un processo di pentimento sincero per le “ombre” della propria persona. Col termine “ombra” Jung intendeva l’insieme di quelle funzioni e atteggiamenti non sviluppati della personalità umana, i contenuti negati, rimossi e non autorizzati ad accedere alla coscienza, dall’educazione e dalle influenze cui è sottoposto l’individuo.
Un esercizio per riconoscere le proprie ombre e capire le proprie ipocrisie è offerto da J. Monbourquette e I. D’Aspremont nel testo Chiedere perdono senza umiliarsi6. Gli autori propongono sette domande su cui riflettere che possono essere utili anche a noi o alle persone che accompagniamo per far luce sulle proprie ombre da integrare.
1. Quali sono gli aspetti del mio Io sociale che mi piacerebbe vedere riconosciuti? Quali sono le caratteristiche o tratti contratti che ho dovuto reprimere per mettere in evidenza quegli aspetti del mio Io?
2. Quali argomenti tendo a evitare nelle discussioni? Ad esempio: sessualità, fede, incompetenza, aggressività, ecc.? Cosa c’entra quest’argomento con la paura di scoprire un lato di me di cui mi vergogno?
3. In quali circostanze, per la maggior parte del tempo, mi sento inferiore, non capace, non all’altezza, manco di fiducia in me stesso?
4. In quali situazioni provo vergogna e sento il panico all’idea di venire scoperto in qualche debolezza? Mi sento imbarazzato se mi chiedono all’improvviso di fare qualcosa in pubblico come parlare o cantare?
5. Sono incline a imbronciarmi per una critica che mi viene fatta? Quali critiche mi indispettiscono maggiormente o mi irritano?
6. A che proposito mi sento turbato o insoddisfatto di me stesso? Ad esempio riguardo al mio aspetto fisico o a un tratto del mio carattere?
7. Ogni famiglia presenta un tratto caratteristico e un’ombra familiare. Per quale di essi la mia famiglia si distingueva nel nostro ambiente? Qui l’ombra consiste nell’aspetto che la famiglia ha dovuto sacrificare. Ad esempio una famiglia riconosciuta come accogliente avrà sacrificato i propri confini familiari; una ritenuta onesta avrà rinunciato a mostrare diplomazia o furberia; e ancora, una famiglia di “grandi lavoratori” avrà sacrificato lo svago e il riposo.

8. Promotori di gioia
Non dovremmo dimenticarlo mai: non c’è peccato che Dio non possa coprire col suo amore. Se c’è un attributo di Dio che può venirci incontro nella comprensione di quest’aspetto mi pare che sia il suo essere eterno, il raccogliere in sé “ieri, oggi e sempre”.
Il senso di colpa ci fa volgere con rimpianto al passato nel ricordo doloroso di un’innocenza perduta o al futuro con l’ansia e l’angoscia di un’imperdonabile destino ormai segnato.
Il senso del peccato, al contrario, ci fa guardare realisticamente al momento presente, dove passato e futuro s’incontrano nell’oggi eterno del perdono di Dio.
Più volte Papa Francesco ha invitato i sacerdoti, e in modo particolare i confessori in questo tempo dell’anno della misericordia, ma anche tutti i consacrati e le consacrate, ad essere testimoni credibili della gioia di Dio. Essere promotori di gioia qui significa far sperimentare all’altro che il suo stesso passaggio dalla colpa al peccato perdonato è fonte di gioia. Come per il bambino appena nato le coccole della mamma sono un mezzo potentissimo per placare l’angoscia causata dal trauma del parto in cui ha sperimentato il senso di abbandono, così la gioia trasmessa dall’accompagnatore spirituale pone le fondamenta, in colui che ottiene il perdono, per una vita pienamente rinnovata nello Spirito.
Accompagnare il giovane in questo percorso costa fatica perché il cammino è spesso in salita e intralciato da ostacoli. Occorre essere disposti a tollerare spesso una buona dose di frustrazione. Non è impresa facile accompagnare qualcuno nel passaggio pasquale dalla colpa al peccato perdonato. Non si tratta di essere semplici spettatori passivi della lotta e della fatica dell’altro, ma di farsi accanto all’altro in quella stessa lotta e in quella fatica, provocandolo a far emergere le sue domande più profonde, pur senza sostituirsi a lui. Ricordiamo sempre, tuttavia, che anche per noi, come per il Cielo, alla fine vi è l’esito della gioia e della festa.

NOTE
1 Cf A. LOUF, Sotto la guida dello Spirito, Qiqajon, Magnano (BI) 1990, p. 64.
2 Cf E. GIUSTI – R. BUCCIARELLI, Terapia del senso di colpa. Oltre la malinconica autopersecuzione, Sovera Edizioni, Roma 2011, pp. 10-11.
3 Cf R. GUARDINI, Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, Brescia 1994, pp. 115-123.
4 Cf A. GRUN, Autostima e accettazione dell’ombra, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, pp. 24-25.
5 Cf G. CUCCI, La forza dalla debolezza, AdP, Roma 20112, p. 118.
6 Cf J. MONBOURQUETTE – I. D’ASPREMONT, Chiedere perdono senza umiliarsi. Guida pratica, Paoline, Milano 2008, pp. 82-85.