N.04
Luglio/agosto 2016

Uno stile che interpella. Dialogo con gli Esperti

Le domande poste a don Luca Garbinetto, don Nicola Ban e Marzia Rogante, psicologi e formatori, nascono dalla riflessione e condivisione dei partecipanti ai gruppi di studio. Esse fanno emergere la necessità di confrontarsi con un’antropologia ispirata al Vangelo che sappia accompagnare i giovani alle scelte di vita.
Nelle risposte sono emerse alcune indicazioni pedagogiche fondanti l’antropologia cristiana, capaci di orientare l’educatore vocazionale nel suo servizio di accompagnamento.

1. Su quali principi si fonda un serio cammino di accompagnamento vocazionale?
d. Luca Garbinetto – Esistono alcuni elementi che possiamo considerare punti di riferimento imprescindibili nell’accompagnamento vocazionale. Da un lato è sempre necessario avere ben presente il giovane concreto che accompagniamo, la persona singola e singolare, unica e irripetibile che egli è.
Dall’altro lato, dobbiamo comprendere questa persona come parte di un’umanità in cui è possibile riconoscere aspetti comuni a tutti gli uomini e le donne. Proviamo a specificarne alcuni.
In primo luogo, la persona è mistero. La dimensione del mistero è importante e va tenuta sempre presente quando si accompagna e si ascolta una persona. Si tratta di un mistero sempre più grande di quello che l’educatore può percepire, può dire, può fare. Se il giovane che si accompagna è mistero, significa che la sua umanità porta in sé ed è impregnata di una dimensione di trascendenza. La persona è un’unità nella dimensione fisiologica, psicologica e spirituale: non esistono due persone separate nell’unico soggetto.
Non esistono percorsi che riguardano esclusivamente ciò che è proprio del cammino spirituale e altri percorsi che riguardano unicamente la sua dimensione psicologica. Questo non toglie che ci siano alcuni momenti della vita in cui è necessario, e opportuno, lavorare più su uno che sull’altro aspetto. Tuttavia, per un autentico servizio alla persona, l’ideale è tenere presente, nell’ottica dell’integrazione, tutte le aree della personalità. L’antropologia cristiana ha come fondamento l’integrazione. C’è da chiedersi se oggi la persona sia considerata come unità o se non si rischia di vederla a compartimenti stagni, composta da aree separate, quasi che una dimensione non incida sull’altra e viceversa.
Un secondo aspetto importante da evidenziare è che per giungere ad un’autentica integrazione, è necessario entrare nella dinamica del cammino. Ogni processo di crescita comporta un cammino graduale.
Anche l’accompagnamento vive di questa dinamica di crescita, di sviluppo… Non esiste nessun essere umano che sia arrivato una volta per sempre; anzi, in molti casi, quando qualcuno non avverte la necessità di camminare spiritualmente e umanamente, ciò significa che forse è necessario ripartire con un intenso lavoro interiore.
Va ricordato che lo sviluppo della persona, oltre che avvenire nel tempo e lungo un percorso, avviene per stadi, per tappe. Esse non sono strutturate in modo tale che, una volta conclusa una tappa, la persona può considerarla superata, chiusa, al punto da dimenticarla ed iniziarne un’altra. Basti pensare, per esempio, alla persona nella dinamica della crescita anagrafica: il bambino diventa ragazzo, adolescente, giovane, adulto, anziano, ma non “butta via” gli anni precedenti già vissuti…
Nel cammino della crescita ci sono alcune tappe che marcano profondamente la storia personale. Può capitare che, in alcuni casi, questi stadi non vengano integrati in maniera opportuna e quindi che ci sia qualche blocco nella maturazione della persona. Perciò può accadere che la persona entri nello stadio successivo portando con sé e nella sua memoria affettiva, una ferita che potremmo chiamare blocco, o ostacolo alla crescita. Se alcuni strati più profondi dello sviluppo della persona non sono stati integrati adeguatamente, essi possono condizionare, o comunque influire sullo sviluppo della persona.
Quando si fa accompagnamento e si riconoscono storie ferite, potremmo cadere nel rischio di essere molto preoccupati di raccogliere tante informazioni che ci sembra possano essere utili per conoscere la persona. In realtà, la domanda da porsi non è tanto “in espansione”, cioè relativa a conseguire un numero sempre più ampio di dati, per così dire, cronologici, quanto in profondità. Si tratta cioè di cercare di cogliere quegli elementi che ci aiutano a capire più profondamente dove stia la difficoltà, la ferita di questa persona.
C’è anche un terzo elemento fondamentale per la comprensione dell’altro. Si tratta della dimensione relazionale. L’aiuto che possiamo dare perché la persona incontri realmente la propria storia è la relazione che instauriamo con lei. Attraverso la relazione vissuta “qui e ora” è possibile, piano piano, scendere maggiormente in profondità nella comprensione dell’altro e creare le condizioni per un cambiamento.
La relazione è lo strumento privilegiato che può aiutare la guarigione di alcune ferite.
Allo stesso tempo, però, è nella relazione che sono nate le ferite e quindi la relazione di accompagnamento può anche contribuire, a volte, a bloccare la persona su alcuni punti della crescita. È saggio mettere in conto che può capitare anche questo, soprattutto nella cultura di oggi in cui si vive un individualismo diffuso e una forte dimensione narcisista, per cui la persona tende a rifiutare la relazione, fino a trasformarla in qualcosa di strumentale a sostegno della propria autostima ferita.

2. Si è sottolineato come sia importante che l’accompagnatore possa farsi aiutare da una persona che abbia una certa esperienza di accompagnamento per essere più efficace nel suo ministero, una sorta di supervisione del proprio servizio… Come è da intendersi all’interno di un cammino di discernimento vocazionale?
d. Nicola Ban – Di per sé la supervisione non è una grande novità. Quando la comunità cristiana ha incominciato a decidere come organizzarsi a cosa ha pensato? Ha pensato che nella comunità fosse necessario l’epìscopos.
L’ epìscopos (epì = sopra, scopos = guarda) è colui che dovrebbe aiutare a far sì che la comunità cristiana rimanga fedele al Vangelo.
In ambito di accompagnamento significa che abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a rimanere fedeli alle persone che ci sono affidate. Le modalità di supervisione possono essere diverse.
Ci può essere la supervisione fatta con una persona che reputo abbia specifiche competenze nell’ambito dell’aiuto personale, nell’ambito pastorale, nell’ambito dell’accompagnamento.
A questa persona presento la situazione con l’obiettivo innanzitutto di vivere con responsabilità l’aiuto che voglio offrire. Confrontarmi con qualcuno significa poi allargare le prospettive, avere un altro punto di vista su quella situazione. La supervisione aiuta a rileggere anche il mio vissuto. Ciò che è soggettivo comincia ad avere un’oggettività che permette di capire meglio la persona che sto accompagnando.
Quindi la supervisione può avvenire così: vado da una persona più esperta nell’ambito dell’accompagnamento, o in quello psicologico, o pedagogico; le presento una situazione e mi faccio aiutare a rileggere quello che io sto vivendo, come sta procedendo il processo dell’accompagnamento, quali sono i contenuti su cui potrei essere più attento.
Un’altra forma di supervisione potrebbe essere quella di un confronto con più persone, in cui uno ha una competenza maggiore e guida il lavoro del gruppo di supervisione. In questo caso si presenta al gruppo un aspetto dell’accompagnamento per poter riflettere insieme sulle dinamiche in atto, in modo che si possa riflettere insieme sulla dinamica di accompagnamento. Il coordinatore del gruppo ha il compito di dare a tutti la parola, di mantenersi fedeli ad una certa metodologia, di dare alcune indicazioni.
È possibile, però, vivere la supervisione anche con i pari, perché non si ha necessariamente sempre bisogno di un esperto. Alcune volte è sufficiente un confronto con chi abitualmente vive il servizio di accompagnamento, anche senza titoli particolari, e che si riconosce essere una donna o un uomo saggi di cui è possibile fidarsi.
Il confronto con un pari mi permette di comprendere quale passo ulteriore è possibile proporre perché il cammino di accompagnamento non ristagni.
A volte, infatti, capita di rimanere insabbiati in alcune dinamiche che non evolvono.
La supervisione ci libera dalla tentazione dell’onnipotenza e dal presumere di saper risolvere tutti i problemi della persona che accompagniamo.
Aprirci a qualcun altro ci libera dalla presunzione e dal peso di dover saper offrire sempre tutte le soluzioni.
Nella supervisione deve essere sempre salvaguardata la riservatezza.
Non è detto che al supervisore dobbiamo presentare i nomi e tutti i dettagli della situazione, ma è sufficiente raccontare quanto è indispensabile per comprendere la situazione.

3. A cosa serve imparare a riconoscere cosa provo di fronte a ciò che mi racconta la persona che accompagno? È veramente necessario “ascoltare” le mie reazioni interiori? A cosa mi serve saper riconoscere le mie emozioni se, in ogni caso, devo rendermi disponibile all’accompagnamento?
Marzia Rogante – Il tema delle emozioni, il “come mi sento”, non è un tema banale. Anzi, si tratta di un aspetto centrale a cui dobbiamo educarci per vivere al meglio il servizio di accompagnatori spirituali e vocazionali.
Innanzitutto è da chiarire che il guardare alle mie personali emozioni non serve per decidere se accompagnare o meno chi mi chiede aiuto.
L’emozione che sperimento è qualcosa di fondamentale perché, nel cammino di accompagnamento, si instaura una relazione e la relazione è fatta principalmente di emozioni. Per esempio, quando incontriamo una persona, la prima cosa che ci succede è avere una reazione istintiva di simpatia o antipatia, di piacere o di disagio, di accoglienza o di rifiuto. Nel tempo è possibile correggere ciò che proviamo, ma l’emozione è la prima cosa che sperimentiamo.
In termini più tecnici si può parlare di transfert e di controtransfert.
Questo avviene non soltanto in una relazione terapeutica, ma in qualsiasi relazione umana. C’è un interscambio che va da me all’altro e dall’altro a me. Continuamente ciò che provo si può modificare.
L’emozione dice qualcosa di me, ma anche dell’altro, quindi è uno strumento importante.
L’emozione è qualcosa di intimo, di viscerale, quindi non è sempre facile dare il nome giusto a ciò che sperimentiamo interiormente.
Spesso tendiamo a rimanere su un piano più intellettuale, dandoci spiegazione su ciò che sperimentiamo. Oppure siamo più abituati a esprimere le emozioni in termini di sensazioni fisiologiche.
Per esempio diciamo: mi batte il cuore; mi tremano le gambe; ho sentito un pugno allo stomaco; mi è venuto un nodo alla gola…
Dietro a tali sensazioni ci sono le emozioni.
Le emozioni, dunque, sono qualcosa di fondamentale, presente in tutte le relazioni e dicono qualcosa della relazione che è in atto.
Il primo impatto con la persona che chiede aiuto è molto importante e dice già qualcosa di chi abbiamo di fronte. La reazione che l’altro mi suscita, mi indica anche qualcosa di quello che l’altro sta vivendo. Chiaramente, per fare questo devo avere già una certa conoscenza di me, altrimenti rischio di faticare a distinguere quello che sto vivendo.
Faccio un esempio un po’ personale. Io ho imparato nel tempo, accompagnando le persone, che ci sono un certo tipo di persone con cui tendenzialmente provo disagio, un po’ di rabbia… e ce ne sono altre che mi suscitano tenerezza. Quindi è importante che io mi conosca per sapere cos’è che, generalmente, mi suscita rabbia, tristezza, compassione, ecc. È importante per capire cosa “è mio a priori” e cosa realmente l’altro sta suscitando attraverso parole, atteggiamenti, difese usate, ecc.
È necessario fare un cammino in profondità su se stessi altrimenti faticheremo maggiormente ad aiutare gli altri. In alcuni casi ciò che sperimento può essere un impedimento per entrare in relazione profonda con l’altro, perché ci sono cose di noi che fatichiamo ad accogliere e a risolvere. Se non teniamo conto delle nostre emozioni, potremmo rischiare di colludere con alcuni aspetti che appartengono all’altro.

4. Ci sono suggerimenti riguardo l’esercizio pratico dell’accompagnamento?
d. Luca Garbinetto – Senza voler proporre uno schema rigido e fisso, possiamo dare alcune indicazioni pratiche e utili per un percorso di accompagnamento.
Innanzitutto dobbiamo dire che “dipende” da situazione e situazione. Esercitare il ministero dell’accompagnamento è innanzitutto garantire il rispetto per il mistero profondo della persona. Perciò i colloqui devono essere fatti in un clima di riservatezza. Questo comporta avere un luogo opportuno per dialogare, in cui ci siano due poltrone o due sedie non troppo comode, ma neanche troppo rigide, a una distanza che permetta una relazione normale, non troppo vicina, ma neanche troppo lontana.
È importante avere cura che la persona stia bene nel luogo dove si svolge l’incontro; che il luogo sia anche bello: il che non significa lussuoso, ma pulito, curato, dignitoso, un luogo in cui la persona possa sentirsi a proprio agio.
Nei colloqui, soprattutto quando si avvia un accompagnamento sistematico, è bene che si definisca il tempo di incontro, che può essere di circa un’ora. Se ci si accorge che i colloqui cominciano ad allungarsi di molto, è importante porsi la domanda del perché si allungano, se realmente è un bisogno della persona che accompagniamo o se è un nostro bisogno. Potrebbe capitare di aver bisogno di sentirsi importanti per qualcuno e così allungare i tempi di incontro.
Altro elemento essenziale è che ci sia un profondo rispetto. Questo implica fare un’alleanza chiara, in cui stabilire anche con quale frequenza incontrarsi.
Deve essere chiaro prima di tutto l’obiettivo dell’incontrarsi: se viene richiesta una direzione spirituale, o un accompagnamento per discernere la vocazione personale, o l’accompagnato vuole venire ogni tanto per sfogarsi e parlare. La proposta che io poi farò sarà legata all’obiettivo prefissato.
È importante domandarsi se gli incontri partono da reali necessità della persona, oppure soddisfano soltanto i bisogni di chi accompagna. Per questo è utile la chiarezza iniziale, fin dal primo contatto.
È importante il rispetto della persona che si accompagna, ma è anche necessario il rispetto per se stessi. Per vivere il ministero della direzione spirituale e dell’accompagnamento vocazionale ci vogliono energie, testa, cuore…
Sarebbe opportuno, dopo l’incontro, prendersi lo spazio per mettere davanti a Dio nella preghiera quello che abbiamo vissuto e per scrivere una breve sintesi dell’incontro, in modo da custodirne la memoria per l’incontro successivo.
Sarebbe anche corretto fare uno stacco, prima di buttarsi in altre attività, o impegnarsi in un altro colloquio.

5. Quali domande porre per conoscere meglio il giovane in discernimento? Spesso ci sono aree su cui è difficile aprirsi, ma che si percepisce sarebbe utile approfondire. Quanto è opportuno chiedere, o addirittura insistere, per conoscere di più?
d. Nicola Ban – Anche questa domanda riporta al tema della necessità di creare un’alleanza, una sana confidenza con il giovane che accompagniamo. In base all’alleanza che stringiamo con questa persona, capiamo anche quanto dobbiamo, o non dobbiamo, domandare. Se uno ci viene a chiedere: «Avrei il desiderio di fare un cammino profondo di conoscenza di me stesso, perché veramente voglio riprendermi in mano per poter fare una scelta vocazionale…» e poi non parla mai, ad esempio, della sua famiglia, prima o poi dobbiamo chiedergli di parlare delle sue relazioni familiari.
È chiaro che se un giovane non ha intenzione di intraprendere un cammino continuativo di accompagnamento, o viene solo per sfogarsi su una questione contingente, allora è prudente non porre domande troppo personali. Al contrario, se l’alleanza che stringiamo è quella di fare un percorso prolungato nel tempo, in cui la persona si mette in gioco totalmente, prima o poi, forse, è necessario chiedere: «Ma come mai di questo argomento non parliamo mai?». Questo vale anche per aree delicate come possono essere quelle dell’aggressività o della sessualità.
Alcune volte le persone non portano determinati argomenti perché percepiscono che per noi sono questioni che ci mettono a disagio e sono questioni irrisolte anche dentro di noi. Se noi non siamo sufficientemente a nostro agio con alcuni temi, è difficile che le persone che accompagniamo inseriscano questi temi all’interno del colloquio. Per esempio: se io ho un problema con la mia famiglia d’origine e percepisco che è un ambito delicato, in cui tante questioni rimangono aperte, probabilmente il giovane non parlerà della sua famiglia d’origine, perché percepisce, attraverso tutta una serie di segnali che diamo involontariamente, o inconsapevolmente, che per noi è un tema difficile. Chi si affida a noi in una relazione di accompagnamento, in qualche modo ci tiene ad avere una buona relazione con noi. Spesso lo vediamo nei bambini: i bambini vogliono proteggere i propri genitori. Così anche le persone che accompagniamo in qualche modo ci vogliono proteggere perché vedono in noi una fonte di sicurezza.
Quindi cosa domandare e quanto domandare dipendono dall’alleanza che stringiamo con la persona e da quanto noi ci sentiamo a nostro agio in ciò che è oggetto del dialogo. Se poniamo una domanda e poi non siamo in grado di portare in noi o di contenere ciò che l’altro ci sta consegnando, è meglio non fare domande. Se ci accorgiamo che un ambito fondamentale non può essere da noi approfondito, è meglio rimandare il giovane a qualcuno che realmente possa accompagnarlo in quell’aspetto della vita che più ci fa e lo fa soffrire.

d. Luca Garbinetto – È utile sottolineare un ulteriore elemento legato al processo di sviluppo della persona.
Anche nel cammino di accompagnamento c’è una progressione della relazione. Perciò alcune questioni non è il caso di chiederle all’inizio del cammino di accompagnamento, ma successivamente. C’è un percorso nel quale matura anche il clima opportuno per porre alcune domande. In questo senso, il linguaggio non verbale è importantissimo.
Le reazioni non verbali riguardano sia noi che le persone che abbiamo di fronte. Per esempio, ci sono alcune persone che continuano a mandare input indiretti perché tu sia spinto a fare “quella” domanda su un tema particolare. Non è automatico che si debba acconsentire a queste richieste non verbali. Se, per esempio, il giovane non sa prendersi responsabilità, è necessario avere pazienza fino a che espliciti lui questa difficoltà e se ne assuma appunto la responsabilità “correndo il rischio” di parlarne. Altre volte, invece, è opportuno suggerire il tema da approfondire, perché la persona aspetta solo un incoraggiamento per entrare in questo argomento.
Marzia Rogante – È importante ricordare che è necessario evitare di chiedere troppo, spinti a volte da una curiosità non sana. Anche quando ci sembra che ciò che il giovane ci sta dicendo sia una cosa importante da sviscerare o da capire subito. Non dovremmo farci prendere dalla fretta, rischiando di andare a “curiosare” un po’ troppo, o troppo in fretta. Ci sono alcune questioni che vanno affrontate veramente con molto tatto, senza impaurirci noi per primi, ma sono sempre necessari attenzione e rispetto.

6. Se una persona non si sente amata da Dio e quindi fatica a sperimentare il senso del peccato, almeno nella sua forma più completa, come deve comportarsi l’accompagnatore? Deve lavorare primariamente sul senso di colpa, o deve lavorare innanzitutto sull’amore di Dio che porta alla percezione del peccato?
Marzia Rogante – La domanda chiede di approfondire quanto già è stato accennato sul senso di colpa e sul senso del peccato. Aggiungiamo solo qualcosa. Lavoro sull’uno o lavoro sull’altro? Abbiamo già detto nella relazione che non è sempre così netto il lavoro da fare, un “o… o”, ma è necessario comporre le cose e quindi entrare in un “e… e”, situarsi in un continuum, che passa dal senso di colpa al senso del peccato. A partire anche dalla nostra esperienza capiamo bene che viviamo noi stessi in questo continuum tra senso di colpa e senso del peccato. Quando accompagniamo qualcuno che vive quest’ambito della colpa, non lavoreremo mai solo su un ambito o solo sull’altro.
Come formatori ci occupiamo della parte spirituale, ma di questa dimensione fa parte anche l’umano. Lavorare sull’aspetto più strettamente umano significa lavorare anche sulla relazione con Dio e viceversa. Molto spesso la relazione con Dio risente molto delle relazioni instaurate in famiglia. Ad esempio, un giovane che vive con la propria madre una relazione da cui cerca tanto amore, comprensione e affetto, ma nello stesso tempo la tiene a distanza come per non voler disturbare ed è sempre alla ricerca di come conquistarsi il suo affetto, è possibile che tenda a fare lo stesso con Dio. La persona può avvertire un forte desiderio di sentire che esiste un Dio amore, che accoglie nonostante tutto, che fa sentire amato e benvoluto, ma allo stesso tempo può vivere, per vari motivi, un senso di rifiuto di fronte a quest’amore. Non è raro trovare giovani che affermano: «Come può Dio amare proprio me? Ma si rende conto Dio di ciò che ho fatto? Lo sa quello che ho combinato?». Il problema non è Dio: in realtà è lui stesso che non riesce ancora a perdonarsi ciò che ha fatto, le esperienze di ribellione vissute, forse nell’adolescenza.
Può accadere che ciò che non si riesce a perdonare della propria vita, in particolare, sia molto legato alle relazioni dell’infanzia. Se non c’è stato un sufficiente superamento dei primi stadi dello sviluppo, difficilmente si arriva a superare quelli successivi.
Lavorare sulle relazioni vissute in famiglia significa lavorare, seppure in modo più indiretto, sulle relazioni attuali, compresa quella con Dio. Come accompagnatore, se comprendo che con questo giovane è più opportuno lavorare sulle relazioni che emergono all’interno del colloquio, lavoro su questo aspetto, ma sempre interrogandomi su come le relazioni attuali stanno modificando l’immagine di Dio e com’è la sua relazione con Lui nella preghiera. Non sono mai aspetti separati. Anche qui ci troviamo all’interno di un continuum: ciò che si è vissuto nel passato e ciò che si sta vivendo oggi.

d. Luca Garbinetto – Fa molto bene pensare che la relazione di accompagnamento si vive all’interno di un contesto più grande, fatto di altre relazioni. Questo significa che non è necessario che faccia tutto io, che sono l’accompagnatore. Questa consapevolezza ci libera dal “delirio di onnipotenza” che in alcune circostanze possiamo correre il rischio di sperimentare.
L’annuncio della misericordia di Dio è sempre un annuncio personalizzato. Questo annuncio passa soprattutto attraverso l’esperienza di sentirsi amati, cioè attraverso l’esperienza di una relazione di fiducia che, forse, il giovane non ha mai sperimentato. Questo porta a sentirsi “degni di fiducia”. Tuttavia, l’esplicitazione di un annuncio verbale dell’essere amato avviene mediante altre figure con cui il giovane entra in relazione.
È utile anche pensare il ministero dell’accompagnamento spirituale, della direzione spirituale, non in modo isolato, ma dentro un contesto ecclesiale. Per esempio, posso proporre al giovane di fare esperienza di comunità, di impegnarsi in un servizio sociale o ecclesiale, e poi nel colloquio verificare con lui questo impegno.
Per noi accompagnatori diventa ancora più impegnativo il compito di avere uno sguardo globale ed ecclesiale di riferimento e sembra che, nella Chiesa, oggi sia una vera esigenza. Si parla molto della necessità di “lavorare in rete”; forse è più opportuno dire “lavorare in comunione”. Ciò comporta avere un contesto di relazioni in cui intuisco dove può passare un messaggio di Misericordia di cui il giovane ha bisogno. È opportuno conoscere contesti nei quali fare esperienza di relazioni di fiducia reale, per sperimentare realmente di sentirsi amato.

7. Come e quanto è importante che la persona che accompagniamo viva la propria rabbia?
Marzia Rogante – È sempre importante chiedersi e distinguere se la persona che accompagniamo prova rabbia, se la riconosce e come riesce ad esprimerla.
Teniamo conto che le emozioni non sono uguali per tutti, nel senso che a volte diamo un’interpretazione personale alle emozioni. Un tipico esempio si ha proprio con la colpa. Si può dire: «Ah! Mi sento tanto in colpa quando succede così e così…», ma poi ci si accorge che non è una colpa vera e propria, legata al fatto di aver sbagliato qualcosa o aver creato un danno, ma è piuttosto una “pseudo colpa”, un timore di essere criticato o rifiutato per quella situazione.
La rabbia è un’emozione che va gestita. Ma come si fa a gestire la rabbia? Anche la rabbia può avere degli estremi e si può esprimere in mille modi, dalle forme più attive che diventano aggressività violenta, alle forme più passive che sono il ritirarsi dalla relazione, il non parlare, l’ironizzare… Alcune volte è necessario suscitare, provocare, interrogare la persona. È già stato sottolineato che il “come farlo” dipende molto dalla persona che accompagniamo e dalla relazione instaurata con lei. È possibile chiedere: «Cosa hai provato di fronte a questo fatto che mi stai raccontando?». Mi diceva un giovane durante un colloquio: «Mia mamma non mi ha fatto mai un complimento, mai una carezza, mai una tenerezza. Poi un giorno a un mio amico ha fatto un sacco di elogi per una cosa che aveva fatto». Ho chiesto cosa aveva provato. È chiaro che aveva provato rabbia, ma non sapeva riconoscerla. A volte le persone hanno bisogno di sapere che la rabbia è legittima, che ci può stare. Per questo, talvolta, è necessario che il formatore stuzzichi un po’ la persona, la provochi, perché possa riconoscere la sua rabbia e impari ad esprimerla in modo sano. Ed è anche utile evitare quelle osservazioni che autorizzino a vivere la rabbia o la tristezza che sta sperimentando. Possiamo anche rimandare all’altro un feedback del tipo: «Io al tuo posto avrei reagito così, mi sarei sentito così…». È un legittimare ciò che sta vivendo. Tuttavia, dobbiamo sempre essere pronti e rispettosi ad accettare che l’altro senta sempre come sua questa esperienza. Possiamo aiutarlo pian piano a prenderne consapevolezza perché la impari a gestire.

8. Tutti hanno la possibilità di vivere il ministero dell’accompagnamento? Ci vuole qualche titolo in particolare per farlo?
d. Nicola Ban – Più volte si è usata la metafora dell’arte per indicare le caratteristiche dell’accompagnamento spirituale e vocazionale.
Cosa serve per diventare un bravo artista? Innanzitutto è necessario molto esercizio. Ci sono alcune cose che si possono imparare ed è possibile farlo solo con tanta pratica, con molto esercizio. Il miglior modo per diventare un accompagnatore spirituale è accompagnare. Fare l’accompagnatore spirituale è qualcosa che non si impara sui libri, ma si impara facendo.
È necessario formarsi a quest’arte, come stiamo facendo nel contesto di questo Seminario, per apprendere alcune indicazioni metodologiche, per riflettere su questo ministero. Tuttavia, posso essere il tecnico più bravo del mondo, ma se mi manca l’ispirazione non sarò mai un’artista. Dall’altra parte, posso essere un tipo molto ispirato, ma se non passo alla pratica, o non imparo a tenere in mano un pennello, attraverso l’esercizio, difficilmente diventerò un artista.
Possiamo dire che l’accompagnamento spirituale è un’arte: richiede l’ispirazione e domanda anche una professionalità che si impara, che si studia e su cui ci si esercita.
Non solo: si può diventare accompagnatori spirituali, ma non è detto che si possano accompagnare tutte le tipologie di persone. Forse posso lavorare con determinate persone, ma non con tutte e può succedere che non è opportuno accompagnare alcune persone. Ci sono alcuni passaggi di vita su cui mi sono collaudato e in cui mi sento in grado di accompagnare anche qualcun altro, ma ci saranno altri passaggi di vita in cui non sono in grado di essere una buona guida.
È sempre opportuno mettere insieme due dimensioni: quella delle competenze che si possono acquisire e quella dell’ispirazione che ci può venire solo dalla Grazia che agisce sulle nostre attitudini personali.

d. Luca Garbinetto – La persona umana è costitutivamente aperta all’incontro con Dio, alla trascendenza. Noi guardiamo tutti gli uomini con questa consapevolezza. Ogni uomo e ogni donna sono aperti all’incontro con Dio, col trascendente; ecco perché si può parlare di vocazione. La vocazione diviene così la parola più bella per esprimere la nostra identità profonda, perché quando si dice vocazione si fa necessariamente riferimento ad una relazione con l’altro. È sempre un altro che chiama! Questo è un dato costitutivo dell’essere umano.
Il cammino personale non è solo un cammino di accettazione di sé, ma è pure un percorso di responsabilizzazione di fronte alle proprie debolezze e fragilità e a ciò che esse dicono di se stessi: alcune ci chiedono di essere superate, altre di essere semplicemente accolte e “portate”. Dentro questa responsabilità personale troviamo la Parola di Dio detta su di noi che diviene vocazione, chiamata. Il vertice di questo cammino o forse la radice di tutto questo lavoro di accoglienza e di superamento è l’esperienza dell’umiltà. L’umiltà è l’identità più profonda del nostro essere uomo o donna. È la consapevolezza dell’unicità soggettiva, che significa presa di coscienza dei propri talenti e della propria fragilità, della propria miseria e della misericordia di Dio che ha operato in noi. Credo che questa dimensione di umiltà ci aiuti a porci accanto alle persone con rispetto e attenzione profonda.

9. Nell’accompagnamento cosa può innescare la scintilla del cambiamento?
d. Luca Garbinetto – Per cambiare si deve a volte anche soffrire. Le ferite e le fragilità ci portano dei guadagni – definiti tecnicamente “secondari” – nel senso che talvolta possiamo esserne anche gratificati. Ci sono alcune ferite che sono necessarie alla nostra sopravvivenza e con esse ci identifichiamo, le assumiamo al punto tale che senza di esse non sappiamo più chi siamo. Per esempio, un bambino che ha fame si mette a piangere. Se non ci fosse questo meccanismo, non potrebbe chiedere da mangiare e quindi morirebbe. Anche nel mondo psichico, come pure in quello spirituale, succede altrettanto. Per innescare il cambiamento occorre percepire una sofferenza tale per cui i guadagni secondari non tengono più.
Per arrivare all’incontro con questa sofferenza è necessario che ci sia un contesto relazionale di stima e di fiducia, che permetta di avere il coraggio di restare dentro a questa sofferenza per cominciare ad elaborarla. Ciò che aiuta un cambiamento è la relazione che si crea nell’accompagnamento, nella quale la persona si sente sostenuta nell’individuare alcuni aspetti di sé, che possono mettere in moto dei veri cambiamenti.

10. Come aiutare ad affrontare le crisi che si affacciano nella vita? Che cosa fare, che cosa dire quando ci si presenta una persona in crisi? Quali possono essere i segni che aiutano a trasformare la crisi in qualcosa di positivo ed utile?
Marzia Rogante – Nella vita la sofferenza grande che può portare al cambiamento si chiama crisi.
È importante sapere di che “crisi” parliamo. Quando sta male una parte di noi, stiamo male noi. Quando sta male un membro del nostro corpo, sta male tutto il corpo.
Ci sono crisi che si risolvono più facilmente, o crisi esistenziali, o crisi legate alla fedeltà alla propria scelta di vita. Trovare quindi una “ricetta unica” che possa andare bene per tutte le circostanze è impossibile! Non tutte le crisi vengono per nuocere, come i mali. Ritorna qui il processo evolutivo legato alla persona. Crescendo, noi affrontiamo tante tappe: basti pensare alla Teoria psicosociale dello sviluppo di E. Erikson, in cui lo sviluppo è visto come una serie di tappe dove si affrontano crisi necessarie da un passaggio all’altro.
Sant’Ignazio di Loyola offre un’indicazione molto chiara di fronte al modo di affrontare le scelte nel tempo di crisi: «Non prendere decisioni affrettate nel momento in cui la crisi è in atto, nel momento in cui c’è un turbamento».
Da cosa riconosco, infatti, che è una crisi? Essa è come un terremoto, qualunque origine essa abbia.
Se riconosco un forte turbamento emotivo nella persona, la prima cosa che devo suggerire di fare è di starci dentro, di aspettare che il turbamento si sedimenti.
La crisi fa parte dell’essere umano e, quindi, è importante non spaventarsi. È essenziale stare accanto alla persona che ci confida la sua crisi senza l’ansia di dover risolvere subito il problema, perché la crisi, a volte, è necessaria. Spesso è un’occasione nuova per ridare slancio a ciò che vivo e alla vocazione stessa. È un modo per trovare nuove motivazioni. Occorre non assumere un atteggiamento troppo paternalistico o materialistico quando accompagniamo chi è in crisi usando espressioni del tipo: «Non ti preoccupare, vedrai che passerà, non ci pensare, distraiti…». La crisi non si affronta con sconti o a prezzi di saldo. Un atteggiamento troppo superficiale porta la persona a non sentirsi accolta, capita, sostenuta e rispettata nella sua difficoltà.

d. Luca Garbinetto – La domanda opportuna da porsi con pazienza è inerente all’origine della crisi.
Un interessante spunto viene dall’esperienza di vita familiare.
Gli studiosi indicano quattro possibili fonti di crisi:
– le crisi cominciano nelle relazioni. Il primo tipo di crisi riguarda il modo di comportarsi, di fare, di attuare scelte operative;
– la crisi può nascere da un conflitto riguardo i valori di riferimento che orientano le scelte della vita;
– la crisi è generata dal contesto in cui si vive e ha quindi un’origine esterna alla coppia e alla persona;
– il quarto tipo di crisi riguarda i conflitti interiori. Una persona può andare in crisi perché quanto sta vivendo fa riemergere tappe evolutive in cui si è rimasti fermi o bloccati.
Queste quattro fonti di crisi possono essere utili per porci alcune domande riguardo a quanto la persona ci sta dicendo, senza la fretta di etichettare né la persona, né quanto ci sta consegnando. Ci vuole molta pazienza per comprendere cosa la persona ci sta dicendo e, soprattutto, per comprendere la crisi che sta attraversando.
La nostra arte vocazionale è quella di rimandare a domande più profonde, spostando qualche volta l’attenzione su altri aspetti del vissuto della persona.

11. Quanto può aiutare la Parola di Dio nella dinamica dell’accompagnamento e della crisi?
d. Nicola Ban – È necessaria una relazione quotidiana e intensa con la Parola, per comprendere come Dio agisce nella nostra vita, altrimenti non possiamo riconoscerlo nella vita delle persone che ci sono affidate.
Ci sono però anche altri modi di utilizzare la Parola di Dio nell’accompagnamento.
Prima di tutto la nostra vita trova unità e trova un senso quando riesce a dirsi. Molte volte noi acquisiamo un senso nuovo di noi stessi quando riusciamo a dire in modo nuovo la nostra vita. C’è un momento in cui i bambini iniziano a parlare e questo dà un nuovo senso alla propria esistenza. Quando ho detto: «Io sono Nicola», ho espresso un nuovo senso di identità e una presenza alla mia vita che è diversa rispetto a quella di un bambino che è più piccolo e che non è capace di dire chi è. Quando una persona dice: «Io sono…, sono nato a…, il…», quando comincia a narrare la propria storia, allora la vita acquisisce un’unità e un senso ancora più grandi.
Ci sono, tuttavia, esperienze in cui le parole vengono a mancare. Talvolta ci capita di non riuscire a decifrare il nostro vissuto interiore anche nella relazione con Dio. Quando ci sembra di essere senza voce per dire la nostra vita, troviamo che la parola di un salmo, o di un profeta, o un brano del Vangelo descrivono quello che noi stiamo vivendo, e lo fanno meglio delle parole che noi potremmo trovare. Ci verrebbe da dire: «Questo l’ho scritto io in una vita precedente» … Trovare nella Parola di Dio ciò che identifica quanto sto vivendo aiuta a trovare un senso nuovo nella propria esistenza.
Quindi la Parola di Dio offre un repertorio di narrazioni e di poesia che aiuta a dare un senso al nostro vissuto e al vissuto delle persone che accompagniamo.
La Parola ha il ruolo fondamentale di costituire l’unità della persona attorno ad una narrazione. La Parola di Dio è piena di metafore efficaci e potenti che aiutano a trasformare e a dare senso alla vita delle persone, anche in fasi e in passaggi di vita che possono sembrare insensati. Dobbiamo fidarci del fatto che nella Parola di Dio realmente c’è una potenza, un dinamismo che ci cambiano e ci rinnovano. Nella Scrittura troviamo la Parola potente di Dio che trasforma la nostra vita. Se per noi è stato illuminante ricordarci di una parola biblica quando abbiamo pregato per la persona che stiamo accompagnando, forse anche per quella persona ciò sarà illuminante.
La Parola aiuta a narrare la nostra vita e a dare senso anche a ciò che non era sensato e ci aiuta a farlo anche con le persone che accompagniamo.

12. Come accompagnare in discernimento vocazionale, orientato alla vita consacrata o al seminario, una persona con orientamento omosessuale?
d. Luca Garbinetto – Questo è un tema vastissimo e mi pare significativo che sia emerso parlando di fragilità, di debolezza e della presenza di Dio nelle nostre povertà. La persona omosessuale in discernimento vocazionale vive una sofferenza.
Poiché c’è anche una dimensione oggettiva a cui è opportuno fare riferimento, attingere alla ricchezza della Chiesa. Rimando al documento della Congregazione per l’educazione cattolica del 2008, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio. Se si legge in profondità il retroterra antropologico di questo documento si capisce che esso vale per ogni persona in discernimento vocazionale. Il documento afferma che non è opportuno ammettere in seminario una persona che presenti una delle seguenti caratteristiche: 1) tendenze omosessuali profondamente radicate; 2) pratica omosessuale; 3) promozione dell’ideologia omosessuale.
Questi sono riferimenti oggettivi concreti e abbiamo il dovere di tenerli presenti. Nel retroterra, tuttavia, c’è lo sforzo di una comprensione molto approfondita e una ricerca che continua, cosa non sempre scontata.
Il tema dell’omosessualità è complicato: ci sono diversi modi e molteplici ragioni per cui si possono vivere esperienze omosessuali o avere la consapevolezza della propria identità omosessuale. Va tenuta presente la fase di sviluppo in cui emerge questa consapevolezza, per cogliere le esperienze relazionali e i contesti socio culturali in cui la persona è cresciuta.
Il punto focale su cui operare un discernimento, nell’esperienza dell’omosessualità, è legato alla capacità del dono di sé, al dono gratuito e radicale di se stessi. Si tratta quindi di riconoscere se, dal punto di vista dello sviluppo emotivo e sessuale della persona, è presente una fatica o una resistenza nella capacità di un dono di sé, che implica accoglienza e accettazione della diversità, che tocca tutti gli ambiti della persona umana.
Amare gratuitamente significa amare una persona accettando che è diversa da me e lo sarà sempre e che la sua diversità è per me una ricchezza non perché io me ne impossesso, ma proprio perché quella diversità gli o le appartiene ed è diversa da me. Questo è il dinamismo profondo dell’amore. Si tratta di rispettare la persona nella sua verità; l’accompagnamento aiuta a svelare dimensioni inesplorate del proprio sé.
Quello che non percepiamo in maniera palese di noi è anche ciò che tendiamo a nascondere di più a noi stessi, perché ci fa soffrire. Questa dinamica porta ad affondare (o a rimuovere) nel mondo dell’inconscio quelle dimensioni di noi stessi che possono essere causa di sofferenza. È una forma tipica di difesa di fronte a ciò che può farci soffrire, o essere fonte di conflitto, di svalutazione e di colpa.
Per questo possiamo affermare che il punto centrale del discernimento non riguarda tanto o solo la questione sessuale, ma piuttosto la fatica relazionale e, più in generale, la dimensione globale dell’affettività.
La capacità di amare gratuitamente può essere condizionata e ferita e queste ferite, non sempre rimarginate, possono essere profonde, pervasive e durature; il lavoro del discernimento aiuta a comprendere quando è opportuno e prudente non caricare una persona di pesi che non sarebbe in grado di sostenere.

13. Quali esercizi spirituali per conoscere meglio se stessi? È possibile avere qualche suggerimento pratico?
d. Nicola Ban – La tradizione spirituale è ricca di esercizi che si possono fare per aumentare la conoscenza di noi stessi. Tra i primi esercizi da considerare troviamo l’esame di coscienza, uno strumento che da sempre nella comunità cristiana è stato suggerito per far sì che la vita non sfugga tra le mani, non passi senza che vi si presti la dovuta attenzione. È necessario riservarsi alcuni momenti durante la giornata, o al termine della giornata, per rileggere ciò che si è vissuto (non soltanto per riconoscere i propri peccati e per chiedere perdono), per crescere nella consapevolezza. Insomma, si tratta di rileggere quello che mi è accaduto durante il giorno, in modo che ne diventi consapevole: diventare consapevole non solo delle azioni, ma anche dei sentimenti e dei pensieri collegati a quei fatti della vita.
La versione più elaborata dell’esame di coscienza, o di consapevolezza, può anche assumere la forma schematica di un diario. Giovanni XXIII ha diari bellissimi che attraversano tutta la sua vita e sicuramente sono serviti anche a lui per avere una conoscenza migliore di sé.
Sulla linea dell’esame di coscienza, in alcuni momenti della vita può essere anche utile scrivere una sorta di autobiografia spirituale e umana. L’hanno fatto Agostino, Ignazio, Teresa d’Avila, molti santi che hanno sentito la necessità di mettere per iscritto la propria storia per cogliere il disegno che Dio ha realizzato in loro.
La tradizione della Chiesa, quando un prete viene eletto vescovo, propone di scegliere il proprio motto episcopale e questo è, generalmente, una frase biblica che riassuma il nucleo centrale della propria esperienza spirituale. In alcuni momenti della vita può essere un buon esercizio spirituale individuare il proprio motto per fare sintesi della propria vita, per cogliere qual è la parola centrale che ha toccato la propria esistenza.
Tutto ciò va verificato in una relazione interpersonale tra accompagnatore e accompagnato.
Come ricordava spesso il card. Martini, «la conoscenza di sé non si fa mai da soli, ma la si vive in una relazione di accompagnamento». La tradizione della Chiesa ha sempre sottolineato la direzione spirituale come uno strumento utilissimo per il progresso spirituale; pensiamo ad esempio ai padri del deserto.
In che cosa consiste la formazione se non nell’aprire la propria coscienza in una relazione spirituale? Questo permette di fare il cammino spirituale e aiuta a conoscere se stessi. Tutta la vita monastica consisteva nel relazionarsi con il proprio maestro, con il proprio “Abba” a cui si manifestava la propria coscienza.

d. Luca Garbinetto – Un ulteriore strumento per conoscere se stessi è l’esercizio del progetto personale di crescita. È un esercizio spirituale molto utile che consiste nel porsi alcuni obiettivi anno per anno, per poi camminare nel quotidiano confrontandosi regolarmente con essa.
Un’ultima esperienza utile è il silenzio durante gli esercizi spirituali, o in spazi di ritiro, o durante la giornata. Il silenzio permette alla Parola e alla propria vita di parlare, di raccontarsi, di trovare un luogo per fare sintesi. Come educatori siamo chiamati a favorire esperienze di silenzio cariche di ascolto della Parola di Dio e della propria esperienza personale per riconoscere il Signore Gesù presente ed operante nella propria storia di vita.