N.05
Settembre/Ottobre 2016

La gioia che riempie la vita

Lettura vocazionale di Evangelii gaudium

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»: con queste parole Papa Francesco ha deciso di manifestare il programma del pontificato, l’Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale Evangelii gaudium. E di questo documento, ricco di piste da approfondire in modo sinodale così da avviare una nuova tappa nella vita della Chiesa, mi è sembrato opportuno mettere in luce alcune prospettive, così da parlare della necessità di una cultura della vocazione e di evidenziarne i riflessi sul tema della gioia evangelica.

1. La gioia promessa da Gesù
La persona battezzata, quando si è lasciata incontrare da Gesù e quando gli ha permesso di essere il suo Signore, Salvatore e Sposo, non può non sperimentare la Gioia promessa. Il “mondo” può offrire opportunità di svago, di evasione, di “felicità”, ma non può dare la “gioia” di Gesù: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
La sua Gioia è liberante e salvifica perché fondata sulla grazia, che scaturisce dal partecipare in modo consapevole all’evento pasquale: «In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia […] vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia […] Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16, 20.22b.24b).
La sua Gioia è relazionale perché fondata sulla certezza dell’azione provvidente del Padre, radicata sulla mistica trinitaria: «Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). 

…tema ricorrente
Nel magistero di Francesco è molto presente il tema della gioia nell’annuncio del Vangelo. Un esempio. Prima dell’Angelus di domenica 3 luglio 2016, commentando il brano della missione dei settantadue ha detto: «[…] Quella del cristiano nel mondo è una missione stupenda, è una missione destinata a tutti, è una missione di servizio, nessuno escluso; essa richiede tanta generosità e soprattutto lo sguardo e il cuore rivolto in alto, per invocare l’aiuto del Signore. C’è tanto bisogno di cristiani che testimoniano con gioia il Vangelo nella vita di ogni giorno. I discepoli, inviati da Gesù, “tornarono pieni di gioia” (Lc 10,7). Quando noi facciamo questo, il cuore si riempie di gioia». 

Continuità nella novità e novità nella continuità
E per rendere evidente che nella Tradizione della Chiesa la novità è radicata nella continuità e l’autentica continuità non può che far scaturire la novità dello Spirito santo, vorrei fare riferimento a Giovanni Paolo II.
Se è vero infatti che Francesco (in almeno dieci paragrafi della Evangelii gaudium) parla
dell’Esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI, fa riferimento anche alla Novo millennio ineunte scritta all’inizio del terzo millennio cristiano1.
Riprenderei in modo particolare quanto si afferma sull’Annuncio della Parola.

Nel terzo millennio? “una nuova evangelizzazione”
«Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: “Io sono con voi!”. Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione […] È dunque un’entusiasmante opera di ripresa pastorale che ci attende. Un’opera che ci coinvolge tutti. Desidero tuttavia additare, a comune edificazione ed orientamento, alcune priorità pastorali, che l’esperienza stessa del grande Giubileo ha fatto emergere con particolare forza al mio sguardo»2.
E, dopo aver detto che «questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di Dio» e aver indicato che «nel testo biblico la parola viva interpella, orienta, plasma l’esistenza», si sofferma sulla necessità della nuova evangelizzazione:
«Nutrirci della Parola, per essere “servi della Parola” nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana” che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. […] Ho tante volte ripetuto in questi anni l’appello della nuova evangelizzazione.
Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1Cor 9,16).
Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di “specialisti”, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani.
Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell’attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato […].
Ci si rivolgerà agli adulti, alle famiglie, ai giovani, ai bambini, senza mai nascondere le esigenze più radicali del messaggio evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità e linguaggio, secondo l’esempio di Paolo, il quale affermava: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). […] Ci sostenga ed orienti, in questa “missionarietà” fiduciosa, intraprendente, creativa, l’esempio fulgido dei tanti testimoni della fede che il Giubileo ci ha fatto rievocare. La Chiesa ha trovato sempre, nei suoi martiri, un seme di vita. Sanguis martyrum semen christianorum (Apol., 50,13: PL 1,534): questa celebre “legge” enunciata da Tertulliano, si è dimostrata sempre vera alla prova della storia. Non sarà così anche per il secolo, per il millennio che stiamo iniziando? Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po’ lontani, quasi si trattasse di una categoria del passato, legata soprattutto ai primi secoli dell’era cristiana. […] Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme»3.
E pur condividendo l’espressione di Francesco – «oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati»4 –, ritengo che ci si possa impegnare di più per valorizzare e accogliere il servizio del magistero come dono dello Spirito; un modo con cui attuare la sinodalità e il discernimento comunitario per trovare vie e metodi che, con il rinnovato entusiasmo, risultano segni indispensabili per una evangelizzazione che sia “nuova”.

2. Alcune prospettive di cultura vocazionale
Nell’Esortazione apostolica di Francesco possiamo individuare alcuni elementi che ci suggeriscono come creare un terreno favorevole alla cultura della vocazione e delle vocazioni. Infatti, quando si scopre la preziosità della vocazione alla vita (naturale e divina) non si può non apprezzare l’annuncio evangelico e rispondere alla chiamata più importante (quella di Dio) in modo adeguato, con tutto il cuore, la mente e le forze, e sapendo condividere gratuitamente quanto gratuitamente si è ricevuto (cf Mt 10,8b).
Citando alcuni paragrafi della Evangelii gaudium, vorrei evidenziare tre aspetti che pongono priorità di pastorale vocazionale che possano aiutare a vivere una spiritualità fondata sull’evento di Cristo Signore. Possono infatti esserci tanti modi di pensare la vita spirituale, l’interiorità, la partecipazione alla comunità. Ma non tutte sono in realtà fondate sul mistero di Cristo che vive nella Chiesa. Si tratta, pertanto, di fare il possibile per vincere le false spiritualità, per allargare l’interiorità individuale e uscire per dare (e dire) il Vangelo.

No a spiritualità disincarnate
«Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. […] Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, e mi rallegra immensamente che si moltiplichino in tutte le istituzioni ecclesiali i gruppi di preghiera, di intercessione, di lettura orante della Parola, le adorazioni perpetue dell’Eucaristia. Nello stesso tempo “si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione”. C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità»5.
Nelle comunità la proposta diventa attraente quando non è mutilata dell’evento del Verbo Incarnato: l’unico maestro (cf Mt 23,8b) da cui imparare come amare il Padre e il prossimo, come farlo nel pregare e nell’operare.
Egli insegna a vivere secondo lo Spirito quando si prende cura delle persone e dedica tempo ai bisognosi, non rinunciando però a un tempo adeguato per “stare” con il Padre. 

No all’individualismo
«L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in pienezza con Dio fino al punto che chi non ama il fratello “cammina nelle tenebre” (1Gv 2,11), “rimane nella morte” (1Gv 3,14) e “non ha conosciuto Dio” (1Gv 4,8). Benedetto XVI ha detto che “chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio”, e che l’amore è in fondo l’unica luce che “rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire”. Pertanto, quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari. L’impegno dell’evangelizzazione arricchisce la mente ed il cuore, ci apre orizzonti spirituali, ci rende più sensibili per riconoscere l’azione dello Spirito, ci fa uscire dai nostri schemi spirituali limitati. Contemporaneamente, un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta il piacere di essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Non si vive meglio fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio»6.

«Evangelizzatori con Spirito vuol dire evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo. […] Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio»7.

Occorre dare concretezza in ogni ambito della vita alla reciprocità chiesta da Gesù quando nell’Ultima Cena disse di mettere in pratica il Comandamento nuovo (cf Gv 13,34s.). E questo significa educarsi a ricevere e a dare, prima di tutto da Dio, a cui spetta il primato, ma anche con gli altri fratelli e sorelle nella fede. E per questo chiede che si scelga di rinunciare alla autonomia individualista, così diffusa da sembrare il modo più ovvio di vivere.
Si tratta di vivere a tal punto il battesimo da rendere visibile quella “mistica ecclesiale” che prende sul serio il sacramento che ci fa corpo di Cristo, che trasfigura i singoli rendendoli un “cuor solo e un’anima sola” (cf At 4,32)! 

No, a comunità chiuse
«Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. […] preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. […] Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)»8.
Non dobbiamo limitarci a muoverci come singoli che fanno anche cose buone, ma impegnarci seriamente a edificare la comunità cristiana. Essa c’è, ma è anche vero che si tratta di renderla visibile.
Siamo chiamati a mostrare ciò che siamo: una Chiesa che, proprio perché presenza di Gesù, non può che uscire per mostrare il Risorto e far sentire che è la via, la verità e la vita (cf Gv 14,6). Sì, uscire, rispettando lo stile del Maestro e mostrandone i lineamenti.
E tra questi evidenzierei la povertà, la castità e l’obbedienza.
Seguire Gesù povero nel distacco dai beni materiali («Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»: Lc 9,58b); seguire Gesù casto con la capacità del “buon samaritano” che sa programmare ma anche spostare tutto quando le circostanze fanno capire che Dio desidera qualcos’altro (cf Lc 10,29-37); seguire Gesù obbediente che sfama la folla e non evita di spiegare il “vero cibo”, pur sapendo la difficoltà alla quale sarebbe andato incontro (cf Gv 6).
Sì, seguire imitando Gesù povero, casto e obbediente, è fonte di gioia9.

3. Testimoniare la gioia cristiana
I discepoli che hanno accolto Gesù lo proclamano con semplicità e franchezza. E quando questo non accade, dovremmo lasciarci interpellare da una domanda: quali condizioni attuare affinché il maggior numero di battezzati possano scoprire il Tesoro nel campo o trovare la Perla preziosa (cf Mt 13,44-46)? Il battezzato, membro di un popolo profetico, non può non parlare a nome di Dio annunciandone le opere. E se questo non avviene, altre culture si introducono nelle persone e le trasformano in individui edonisti, sempre più indifferenti ed egoisti10.
«In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cf Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni.
La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: “Abbiamo incontrato il Messia” (Gv 1,41). […] E noi che cosa aspettiamo?»11. 

…nella comunità fraterna
«Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un “piccolo gregge” (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cf Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!»12.
«Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio.
In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti.
Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza!
Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in se stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo»13.
E così «l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità»14.

…accogliendo Maria come madre
«Con lo Spirito Santo, in mezzo al popolo sta sempre Maria. Lei radunava i discepoli per invocarlo (At 1,14), e così ha reso possibile l’esplosione missionaria che avvenne a Pentecoste. Lei è la Madre della Chiesa evangelizzatrice e senza di lei non possiamo comprendere pienamente lo spirito della nuova evangelizzazione […] Ai piedi della croce, nell’ora suprema della nuova creazione, Cristo ci conduce a Maria […] Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio»15.
Gesù ha voluto che non mancasse alla sua Chiesa l’icona femminile, e siamo sempre più sollecitati a scoprirne il senso.

…nella gratitudine
Permettetemi di concludere esprimendo gratitudine a Dio per la chiamata alla vita e alla fede. E a quanti vi hanno collaborato: senza di loro, non avremmo saputo conoscere la presenza del Signore e scegliere di fare come loro.
Grazie a quanti annunciano la gioia del Vangelo con la vita e le parole e non si stancano di testimoniare che il Signore trasfigura ogni aspetto della vita.
«Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!»16.

NOTE
1 Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001) parla di sette priorità: la santità (n. 30s.), la preghiera (nn. 32-35), l’Eucaristia domenicale (n. 35s.), il sacramento della riconciliazione (n. 37), il primato della Grazia (n. 38), l’ascolto della Parola (n. 39) e l’annuncio della Parola (n. 40s).
2   Ivi, n. 29.
3   NMI, nn. 39-41.
4   EG, n. 25.
5   Ivi, n. 262.
6   Ivi, n. 272.
7   Ivi, n. 259.
8   EG, n. 49.
9 «Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù» (n. 167).
10   Cf EG, n. 193. «Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (n. 208).
11   EG, n. 120.
12   Ivi, n. 92.
13   Ivi, n. 87.
14   Ivi, n. 91.
15   Ivi, n. 284-286.
16   Ivi, n. 109.