N.05
Settembre/Ottobre 2016

Verso le periferie con misericordia

Itinerari vocazionali in uscita

Mentre tutta la Chiesa – in virtù della sua natura missionaria – è invitata da Papa Francesco ad un rinnovato impegno di evangelizzazione (EG 20), in quale misura i giovani che accompagniamo nel discernimento vocazionale riconoscono l’appello di Dio sulla loro vita entro tale cornice? Detto in modo più lapidario: le persone che chiedono di consacrare la propria vita a Dio da quale immagine di Chiesa e di ministero sono ispirati? Avvertono l’invito della misericordia a muoversi verso le periferie per annunciare all’uomo – così com’è – l’incontro liberante con Gesù Cristo? Essi stessi da dove provengono? Quanto hanno esplorato le proprie periferie esistenziali? In quale misura si sono lasciati evangelizzare dalla misericordia? Il linguaggio di Evangelii gaudium offre al formatore una mappa significativa non solo per accompagnare i giovani a leggere i segni della loro chiamata nell’oggi della Chiesa, ma anche per verificare le premesse delle stesse proposte educative (comprese quelle di seminari e case di formazione), che potrebbero patire quella forma di «introversione ecclesiale» (EG 27) che il Papa ci chiede di riconoscere e superare.

1. Una pastorale vocazionale in uscita
Spesso i cammini di discernimento vocazionale rischiano di essere impostati in modo eccessivamente… sedentario. Almeno per due ragioni: da una parte si offrono itinerari giovanili per circoli sempre più ristretti, come se fosse fisiologico che la risposta al Signore possa maturare solo entro “serre protette” o spazi da “riserva indiana”; dall’altra, tali percorsi sono spesso caratterizzati – se va bene! – da una seria offerta spirituale (preghiera, catechesi, accompagnamento spirituale) che non assume sufficientemente il vissuto biografico delle persone e il loro coinvolgimento nel campo del mondo. In particolare, i giovani che bussano alle nostre porte raramente hanno raccolto l’ispirazione alla sequela negli ambiti della carità e – poco provati nell’esercizio del vivere – devono ancora “farsi” uomini e credenti. In questi casi, l’educatore esperto è solito impegnare il giovane in un cammino di verifica e di maturazione della sua umanità che offra, peraltro, la possibilità di dare consistenza all’esperienza spirituale e all’appartenenza ecclesiale. A patto che tale verifica non avvenga solo a tavolino, ma comporti anche la proposta di esperienze stabili di servizio che favoriscano la costruzione dell’identità e, quindi, la disposizione al dono di sé. In effetti, viene da chiedersi a quale ecclesiologia – più o meno esplicita – rimandi l’immaginario interno di alcuni giovani che si candidano alla consacrazione: una Chiesa in uscita o una comunità dai confini presidiati? In quale misura la conversione pastorale che ci chiede Evangelii gaudium ispira la pastorale giovanile e vocazionale, perché siano offerti cammini che nutrano le motivazioni dei credenti e raggiungano quanti sono lontani dalla fede?

2. Un’intimità itinerante

Per la comunità cristiana muoversi verso le periferie non è un cambiamento di strategia pastorale, ma la realizzazione dell’identità e della missione della Chiesa che esce per diventare se stessa. A questo proposito Evangelii gaudium ricorda che la fisionomia della Chiesa in uscita trova il suo fondamento nell’ «intimità itinerante» (EG 23) che i discepoli condividono con Gesù.
La Chiesa è «comunione missionaria» nella misura in cui si lascia coinvolgere dallo stile del Maestro che cammina in mezzo alla gente per annunciare il Regno in parole ed opere, mettendo in gioco prima di tutto le sue viscere di misericordia. Quando ero bambino, che andassi in oratorio o a catechismo, alla gita parrocchiale o alle prove per fare il chierichetto, la questione veniva riassunta – dalla zia di turno – con la stessa domanda: «Vai in chiesa?». L’espressione era (è?) di uso così comune da essere impiegata per distinguere le persone che frequentavano la comunità ecclesiale da quelle che ne stavano alla larga. In Chiesa si andava o non si andava… ma non era la Chiesa che usciva! Si dava solo un’eccezione: i missionari che partivano verso le terre lontane. In quel caso era la Chiesa ad andare fuori, ma comunque allo scopo di…far entrare! Cosa che non si può dire sbagliata, certo! Ma nella mentalità dei credenti stentava (stenta?) a radicarsi l’idea che fuori dalle porte delle parrocchie fosse lo spazio in cui spendere il proprio battesimo e aprirsi al dialogo con il mondo1. Persino nell’ambito della pastorale giovanile – tradizionalmente uno dei più dinamici – gli sforzi di “aggiornamento”, il tentativo di essere più contemporanei ai linguaggi e allo stile di vita del presente ha prodotto maggiori investimenti ad intra che ad extra. Così, mentre si ripensavano i luoghi e le forme di aggregazione, mentre venivano inaugurate case alpine e oratori nuovi di zecca, mentre si moltiplicavano esperienze e proposte “alternative”, è continuato a diminuire il numero dei ragazzi (e delle famiglie) che vivono la comunità cristiana. Non basta dare una riverniciata ai locali, rinnovare l’allestimento delle vetrine, aprire una pagina su Facebook e sparare qualche fuoco d’artificio per suscitare nelle persone il desiderio di andare in chiesa. L’aggiornamento non può consistere nel semplice restyling di un brand 2. Sia chiaro: tutti questi sforzi erano e continuano ad essere ragionevoli. Piuttosto, si tratta di capire come inserire tale rinnovamento entro una conversione pastorale più radicale. Altrimenti continueremo ad alimentare la nostra frustrazione: «Ma, come?! Qui è tutto così bello! Dove stiamo sbagliando? Almeno venite a vedere! Possibile che niente vi interessi? Siete forse così vuoti?». Il problema non sono le persone “vuote”, ma il fatto che abbiamo lasciato vuoti degli spazi, pretendendo che i nostri sforzi fossero automaticamente premiati, senza mettere in discussione il verso del nostro cammino: sono sempre gli altri a dover venire da noi. Spesso li abbiamo chiamati lontani, come se quella parola indicasse una categoria di persone a noi estranee. Se non che, lontani è concetto biunivoco: parla degli altri, ma anche di noi. Perché siamo diventati lontani?
Così estranei da risultare incomprensibili e privi di attrattiva agli occhi della gente? Ma, soprattutto, se siamo lontani dai poveri, non saremo anche lontani da Cristo? Una cosa è sicura: qui non è in discussione il Vangelo. Siamo convinti che, ieri come oggi, non ci sia scommessa più grande che favorire l’incontro personale con il Signore. Per questo occorre tornare là dove il Risorto ci precede: sulla strada, tra le periferie esistenziali, nella Galilea delle Genti. Peraltro, i Vangeli documentano che le prime chiamate avvennero lontano dallo spazio sacro di Gerusalemme, presentando vicende in cui riconciliazione e sequela trovavano singolare corrispondenza.
Il pubblicano Matteo accolse la chiamata del Signore mentre ancora esercitava la sua discutibile professione. Maria di Magdala è diventata discepola, mantenendo viva in sé la memoria dell’incontro liberante con Gesù.
Tra gli spazi umani desertificati – e non solo nelle “riserve indiane” – la misericordia fa sgorgare sorgenti.

3. Di fronte a casi sconcertanti
Accompagnare i giovani nel percorso di discernimento vocazionale permette il confronto – oggi più di un tempo – con personalità acerbe, talvolta spiritualmente fin troppo consapevoli, ma umanamente fragili. Non sono stati ancora collaudati dalla vita, eppure osano – meno male! – sogni ispirati. Qualcuno ha imparato a maneggiare molto rapidamente un certo “ecclesialese”. Discorrono volentieri di vocazione, oblatività, servizio alla Chiesa, celibato, cammino di santità… Ma queste parole sono più balbettate che digerite. Fin qui, niente di strano: fa parte del cammino di discernimento e di formazione riempire di contenuto queste dimensioni. Ripensando agli anni trascorsi in Comunità Propedeutica, mi chiedo se – implicitamente – non dipenda proprio da noi (adulti consacrati) il fatto che molti giovani propongano un racconto di sé parziale e filtrato dai canoni del “bravo ragazzo”, tratteggiando profili da immaginetta patinata (come quelle dei “santini”, color seppia…)3. In questi casi, non è necessario pensare che nel giovane ci sia la lucida intenzione di manipolare un racconto per compiacerci. Risponde ad un impulso naturale il tentativo di risultare adeguati alle attese altrui, rimuovendo le parti sgradevoli e contraddittorie che si sperano sconfitte una volta per sempre. Così qualcuno tende a raccontarsi più per quello che vorrebbe diventare, che per quanto sta effettivamente vivendo. Stranamente (?) c’è chi crede di dare consolazione all’educatore vocazionale affermando di «non essere come gli altri giovani» e di «non fare le cose che fanno tutti» (dando l’impressione che tra le eventuali trasgressioni siano da annoverare anche le relazioni con le ragazze!). Insomma, qualcuno sostanzialmente si dichiara “incensurato”! Peccato che qui stia il problema: non è motivo di merito “non aver fatto niente”.
Questo vuoto di esperienza, nel bene e nel male, sconcerta.
Sorprende, in alcuni casi, la totale assenza del linguaggio dell’umano: amicizie, amori, sessualità, bisogni, aspirazioni, limiti, sofferenze, paure. Qualcuno appare privo di interessi culturali o politici, passioni sportive, musicali o artistiche, né si è mai cimentato in esperienze di volontariato. E spesso il racconto di sé risulta poco raccordato alla presenza di altri attori, talvolta degradati a semplici comparse: i familiari, le donne, i colleghi di scuola o di lavoro, i poveri, i malati e, più in generale, la comunità cristiana. Il riferimento a questi soggetti risulta sommario, come se la propria intuizione vocazionale dipendesse soltanto dal colloquio interiore con Dio e (forse) dal riferimento a un sacerdote; come se la chiamata non fosse attinente al concreto contesto in cui si dipana la loro vita. Si sentono chiamati a “qualcosa di grande”, pronti a “lasciare tutto” e a “donare la propria vita”. Ma, in effetti, non hanno ancora sostanziato questo presunto “tutto” e talvolta anche di Dio hanno una percezione vaga. Parlano di preghiera (rosari, pellegrinaggi…) ma non hanno mai letto per intero un Vangelo e raramente fanno riferimento alle parole e ai gesti di Gesù. Per alcuni viene da chiedersi: stanno cercando qualcuno che realizzi i loro desideri o sono stati agganciati dai desideri di Dio? Attraverso quali mediazioni storiche lo Spirito ha mosso la loro intelligenza e il loro cuore? Chi li ha mandati? I giovani dell’oratorio? I poveri che hanno incontrato? O si sono persuasi della chiamata da soli?
Se non vogliamo lasciarci prendere dallo sconforto e dal disfattismo, accompagnare questi giovani nel discernimento chiama in causa la nostra capacità di proporre loro esercizi di vita cristiana: la sequela del Cristo integrale, uomo e Dio tra gli uomini.
È come se qualcuno non fosse mai uscito dalla sua cameretta: se conosce qualcosa della vita e della Chiesa è più per ciò che ha visto dalla finestra (o dallo schermo del suo telefonino) che per un coinvolgimento diretto.
Oggi la pastorale giovanile e quella vocazionale non possono bypassare queste premesse. L’ipotesi che facciamo è che muovere i giovani verso esperienze di carità offra loro la possibilità di esserne per primi umanizzati.

4. Esercizi di vita cristiana
Alcuni anni fa, la pastorale giovanile e vocazionale della mia diocesi organizzò un’esperienza estiva tra le popolazioni terremotate dell’Aquila. Con un’ottantina di giovani ci unimmo al campo di lavoro che la Caritas del Piemonte e dell’Umbria portavano avanti da più di un anno. L’intento era di declinare proposta spirituale e servizio caritativo senza soluzione di continuità. L’iniziativa incoraggiò la partecipazione di gruppi giovanili che avrebbero probabilmente risposto con minore entusiasmo all’invito della pastorale vocazionale se fossero state messe in calendario proposte più classiche (campo estivo in montagna, pellegrinaggio o simili). Sorpresa! Vennero ragazzi e ragazze normali (ottima notizia!): alcuni provenivano da giri parrocchiali, altri erano “amici di amici” non inseriti in contesti ecclesiali. Completava la fisionomia del gruppo, guidato da alcuni preti e suore, la “tribù” di ragazzi che aveva partecipato al cammino annuale di discernimento vocazionale e alcuni seminaristi.
Un paio di mesi prima mi recai all’Aquila per organizzare l’esperienza con i responsabili e i volontari del Campo Caritas: alcuni giovani – provenienti da tutta Italia – che ormai da mesi vivevano stabilmente nei containers gestendo i gruppi di volontari che si avvicendavano (fino a 200 presenze alla volta). Tra di loro raccolsi sguardi e commenti perplessi quando dissi che avrebbero partecipato anche alcuni seminaristi. Qual era il motivo dello sgomento? «I seminaristi non lavorano! L’abbiamo visto altre volte. Vengono qui, guardano, si lamentano delle scomodità e non alzano un dito».
Il giudizio era perentorio e mi rattristava molto. Soprattutto perché sapevo che – almeno in parte – avevano ragione! In effetti, tra i seminaristi e i ragazzi in discernimento vocazionale, alcuni pativano quella trasferta. Me lo avevano detto chiaramente: se non fossero stati precettati, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Come andò?
L’esperienza ci mise tutti alla prova. Eravamo impreparati a vivere quella situazione di precarietà e di incertezza. All’inizio di ogni giornata veniva comunicato a ciascuno che cosa avrebbe fatto: ci si metteva tutti in cerchio e si riceveva il mandato. Quell’attesa metteva addosso una sensazione strana, un misto di eccitazione e isterismo, che rivelava il livello di apprensione del gruppo.
Le opzioni prevedevano: visita a persone anziane o famiglie in difficoltà, animazione dei centri estivi per ragazzi, piccole opere edilizie, lavori di pulizia delle strade e giardinaggio, sgombero della ghiaia accumulata nelle aree che avevano ospitato le tendopoli, aiuto nei traslochi, riordino del campo Caritas e preparazione del pasto per tutti.
Erano incarichi diversi che distribuivano pesi di natura fisica o emotiva. Le giornate erano intense: eravamo in movimento dalle sei del mattino a mezzanotte, si dormiva allo stretto in tenda, non c’era tempo libero. Lodi, messa e compieta, condivisioni di gruppo e colloqui personali completavano il programma delle giornate. Ci sentivamo molto esposti. Si rise e si pianse. A qualcuno saltarono i nervi in più di un’occasione. Sotto pressione, si era messi nella condizione di conoscere per la prima volta cose nuove di sé e degli altri.
Alla fine di quei nove giorni avemmo l’impressione di essere stati lavorati dalla fatica e dal dolore, dalla fraternità e dalla preghiera condivisa. Si era partiti per fare qualcosa di buono e ci si era scoperti contemporaneamente più fragili e più forti del previsto. All’Aquila ci era entrato dentro un po’ del terremoto: avevamo percepito il senso del limite, la paura della morte e l’inadeguatezza delle nostre risorse. Eppure proprio quella fragilità rendeva l’orecchio del cuore più disponibile ad ascoltare il Vangelo. E l’incontro con il dolore altrui fece sorprendentemente emergere in qualche partecipante la sofferenza che fino a quel momento aveva schiacciato dentro di sé.
Qualche ragazzo, che per la prima volta si era unito a un’iniziativa ecclesiale, sentì il bisogno di aprirsi e cercare un confronto. Qualche seminarista e qualche giovane in discernimento condivisero aspetti della loro storia fino a quel momento rimasti sommersi. Avevamo dovuto fare i conti con le nostre povertà e farcene carico gli uni gli altri.
La misericordia ci aveva visitato anche attraverso la pazienza e la benevolenza che tentammo di imparare dalle cose che condividevamo.

5. Dove abita la misericordia
Per muoversi verso le periferie esistenziali non occorre essere particolarmente buoni o talentuosi, ma riconoscere che, nell’atto stesso di uscire dalle nostre sicurezze, lì la misericordia ci accoglie e ci accompagna verso gli altri. Prima di partire e durante un simile viaggio emergono sentimenti contrastanti: paura, diffidenza, disagio e la sgradevole sensazione di essere meno forti di quanto si credesse; ma anche ingenuità, disfattismo e aggressività. Tutti aspetti interessanti, da non censurare, materia viva su cui lavorare nei colloqui di accompagnamento personale e nell’ambito della formazione al servizio, che richiede la presenza di persone preparate che non lascino il giovane solo o troppo esposto. In effetti, proporre ai giovani itinerari in uscita permette di misurarli con le aspirazioni del Vangelo, perché l’incontro con gli altri ci converte e ci umanizza. All’Aquila, come tra le mense cittadine dei poveri, nelle comunità di accoglienza dei profughi e tra i “barboni”, accanto ai malati e ai disabili del Cottolengo o nel servizio di animazione tra gli adolescenti di un carcere minorile, acquistano spessore le pagine del Vangelo che raccontano gli incontri di Gesù con i poveri, i malati e i diseredati. Non accettando, come dice Papa Francesco, che si perpetui la cultura dello scarto. Ora, la questione non è rivolgersi a categorie di persone etichettate da un qualche disagio, ma superare precisamente quelle etichette per incontrare il volto e la storia di fratelli che hanno bisogno di sperimentare l’amore di Dio. Altrimenti, il rischio potrebbe essere maggiore del guadagno: guai assumere il ruolo del benefattore o dell’eroico operaio del Vangelo per acquistare punti e credersi migliori degli altri! In questi incontri, piuttosto, è possibile prendere contatto con il povero che è dentro di sé. La misericordia, approssimandoci agli altri, converte e favorisce processi di maturazione negli stessi discepoli.

6. Un cantiere aperto
Andare con misericordia verso le periferie consente alla Chiesa di condividere con i giovani in discernimento l’esperienza del cantiere aperto, della comunità che si edifica annunciando e incontrando Gesù nella verità della storia. Il cammino della preghiera, l’accompagnamento spirituale e il lavoro psicologico si inseriscono nel vivo di esperienze che attivano il giovane a una maggiore consapevolezza di sé, all’esplorazione della propria storia affettiva, alla frequentazione delle proprie periferie, delle ferite e delle fragilità a cui occorre dare parola, per evitare che attraverso processi di rimozione o di spiritualizzazione si nascondano personalità sbiadite e poco integrate, sofferenti e irrequiete. Questo itinerario consente di non cadere in facili equivoci, presupponendo che la risposta a Dio possa prescindere dal “grido dei poveri”: il loro messaggio si manifesta come imperativo chiaro, diretto, semplice ed eloquente che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzare (cf EG 193).
È deplorevole che i giovani credano che per Dio e la Chiesa sia più importante diventare ansiosi “difensori dell’ortodossia” che avere a cuore l’amore fraterno, il servizio umile e generoso, la giustizia e la misericordia verso il povero (cf EG 194). Oggi – come sempre – Dio chiama alla consacrazione uomini e donne disposti ad uscire come pecore in mezzo ai lupi e non guardiani di ovili blindati.
Inoltre, il cammino della Chiesa in uscita sprigiona possibilità vocazionali tra ragazze e ragazzi che nel volontariato, mossi dal desiderio di rispondere alla sete degli altri, possono scoprire dietro quell’ispirazione il volto di Colui che l’ha misteriosamente suscitata.
Purché trovino lì – accanto a sé – altri giovani, famiglie e consacrati che su quell’itinerario sono finiti per l’intimità che condividono con il Signore. Dando ragione della speranza che la muove, la Chiesa rivela nelle periferie il suo centro, il Cristo che continua a cercare collaboratori della gioia degli uomini (cf 2Cor 24).

 

NOTE

¹ Già Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo con cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (67).

² Evidentemente, occorre stare attenti a non riprodurre nella pastorale giovanile quei meccanismi di appagamento emotivo (ancorché di naturale spirituale) che ammiccano allo stile mondano, eccitando, senza edificare.

³ La nostra predicazione e il nostro stile pastorale danno ad intendere che stiamo cercando i primi della classe? Siamo percepiti come severi censori non disposti ad accogliere persone compromesse con la cultura del mondo? Diamo l’idea di cercare “anime candide”, profili angelici, figure dall’umanità rarefatta?