N.06
Novembre/Dicembre 2016

Educare i giovani alla sapienza del cuore

«Esiste qualcosa di più scolarizzato di un autentico giudeo?» (Talmud).

Una ricerca nella Bibbia di un trattato sistematico sull’educazione dei giovani risulta ardua1. Manca l’esposizione di una riflessione epistemologica, di istituzioni, programmi e metodi scolari, cospicuamente attestati in Mesopotamia, Ugarit, Egitto, Grecia e Roma. Tale assenza si spiega perché tutta la Bibbia nella sinfonia dei suoi testi (tà biblìa) si propone come un percorso educativo globale destinato ad ogni persona. Consci della scarsità dei dati, cercheremo di delineare, senza velleità esaustive, i pilastri dell’ars educandi (paideúsis) e del contenuto (paideúma) intercettabili nell’Antico Testamento (AT). Storicamente sembrano riflettere una situazione postesilica, addirittura ellenistica, anche se affiorano reliquie di prassi più antiche. Ci accorgeremo di come per vari aspetti mantengano valore e anticipino intuizioni della pedagogia moderna.

1. Il fine della paideía biblica: l’’adam nella pienezza di relazioni
Il termine “educazione” deriva dal latino e-ducere (= condurre fuori, allevare, incanalare), corrispondente al greco “pedagogia” (=condurre, ageín + bambini/adolescenti, paîs). È un processo il cui fine euristico segue tre coordinate basilari: l’acquisizione di una conoscenza, di una competenza pratica ed esecutiva, al fine di realizzare una vita “degna di essere vissuta”.
Nell’AT si compenetrano nel concetto-cardine di “sapienza” (ḥokmāh), come incarnazione dello stile e della volontà di Dio. Chiunque – in particolare l’adolescente – è soggetto e oggetto dell’educazione, che non mira solo a informarlo, ma a performarlo2. Questo obiettivo corrisponde alla nozione sumerica di “umanità” (namlulu), alla “padronanza della vita” egiziana, all’arētē greca e all’humanitas latina, analoghe nella Bibbia, benché con differenze, all’«umano (’ādām) creato a immagine e somiglianza» (Gen 1,26).
Per acquisirla, l’AT offre un progetto educativo aperto, rielaborando modelli pedagogici di altre culture. Gli educatori e i destinatari, le sensibilità, le esigenze e i contesti cambiarono nel corso del tempo, ma rimasero salde tre priorità: attrezzare i giovani a vivere il presente, tutelare le radici della propria identità culturale e religiosa, preparare un futuro per le nuove generazioni. L’educazione biblica si dimostra attenta all’osmosi tra individuo e società e al rapporto tra educatore e discepolo, rispettando l’autorevolezza del primo e l’autodeterminazione del secondo.

2. Il ruolo dell’educatore
L’AT non diverge da altre culture nel presentare come costitutiva l’educazione dei giovani, vantata dal Prologo del Siracide e vissuta come «desiderio amoroso d’istruzione» (Sap 6,17). Il ruolo dell’educatore viene espresso con vari verbi ebraici sinonimi.
Il principale verbo è yāsar, da cui il sostantivo mȗsār (reso in greco con paideía), che ingloba l’idea di formazione, istruzione, correzione; risulta infatti spesso in coppia con yākaḥ che denota un rimprovero (cf Prov 3,11; 6,23; 19,25 ecc.).
Un altro verbo ebraico è lāmad, “far apprendere”, il cui senso originario era addomesticare con frustate (cf Dt 4,1.5.10; 11,19; Ger 2,24,33; 31,34 ecc.). Menzioniamo ancora il verbo ‘ānaš, “sanzionare” (Es 21,22; Am 2,8); ḥānaq, “inaugurare” (Prov 22,6; 1Re 8,23) e altri verbi ripresi nel Sal 25: l’educazione come “via/metodo” (derek); il “far conoscere” (yada‘), l’”instradare/avviare” (dārak), l’”orientare/insegnare” (yārāh, Gen 46,28; Es 4,12), da cui derivano maestro (môreh, Prov 5,13; 6,13) e Torah, il cui significato originario è “insegnamento, istruzione”, reso in greco con “Legge” (nómos, cf Es 12,49; Lv 7,7).
Una menzione a parte merita Qohelet che si autopropone come maestro in Israele (12,9). Lo è perché si è fatto discepolo, nell’applicarsi a “ricercare” (biqqēš), “scrutare” (ḥāqar), “esplorare” (tȗr), tutte declinazioni di un “vedere/appurare” (rā’āh, 4,1.2; 5,12-13;6,1-2).
L’educatore è colui che ha «gli occhi in fronte» (Qo 4,14), cioè attento alla complessità del reale. Emerge come modello di educatore una figura riflessiva, un ricercatore e un facilitatore, perché non solo trasmette contenuti, ma ne facilita l’apprendimento e conosce l’arte di narrare.

3. Il ruolo dell’educando
I verbi
Il feed back dell’educando coinvolge gli organi vitali tra cui i cinque sensi – primo contatto con la realtà – che formeranno la sensibilità di una persona. Li ritroviamo tutti nel Sal 119. Il primo, basilare, concerne l’orecchio: l’allievo deve “ascoltare” (šāmā‘ e i suoi sinonimi, cf Prov 1,8,4,1; 22,17 ecc.). Si tratta di un’arte caratteristica delle esortazioni sapienziali del Medio Oriente Antico, ben diversa dal sentire, ritenuta superiore ad atti di culto (Qo 4,17). Il secondo riguarda il cuore (lēb), che non è tanto la sede degli affetti, ma la fucina delle decisioni. “Inclinare il cuore” alla sapienza significa aprirsi in uno slancio appassionato (Prov 2,2; Gs 24,23). “Applicare il cuore” significa aderire con premura (Prov 27,23); “porre il cuore” significa memorizzare (Qo 8,2; 1Sam 21,13); “dare il cuore” denota un coinvolgersi senza distrazioni (tipico del Qoelet, cf 1,17; 8,9.16, ecc.). Tutto in vista di un «cuore che trattiene» (Prov 4,4; 11,10).
Altri verbi tipici sono “capire” (bîn) che denota ponderazione (Prov 7,7; Gb 9,11); “comprendere” (hiśkîl) nel senso di un’intelligenza intuitiva (Prov 16,23).
Il terzo riguarda la bocca, perché si tratta di “mangiare/assorbire, interiorizzare” nelle «stanze del ventre» (Prov 22,18; 18,8). Così si presenta l’immagine della sapienza in Prov 9,1-6 (cf Is 55,1-4). Essa è paragonata al favo di miele da gustare (Prov 24,13; Sir 24,19). Alle labbra pertiene il verbo “esprimere” (hāgāh, Prov 8,7; 15,28; 24,2) che originariamente significava il mormorio di chi ripete concetti (cf Sal 1,2; Gs 1,8) Il quarto concerne l’olfatto, perché si tratta di inalare il profumo della sapienza (Prov 26,21; Sir 24,15). Il quinto riguarda la mano, per cui ci si deve “aggrappare” (ḥāzaq, Prov 4,13) ai detti dei saggi. Di matrice commerciale è il verbo “acquistare” (qānāh) la sapienza; può alludere al prezzo pagato al precettore (Prov 17,16; Sir 51,28), ma anche al dispendio di energie psico-fisiche. Collegato al precedente è l’”afferrare” (lāqaḥ) la sapienza, usato per chi non si stanca mai di imparare, come «il saggio che diventa sempre più saggio e aumenta la dottrina» (Prov 1,5; 9,9; 16,21 ecc.). Il sesto concerne la vista: l’allievo deve essere una sentinella che “custodisce” (šāmar, Prov 4,4; 7,2), “vigila” (nāṣar, Prov 3,21; 4,13), “tesorizza o nasconde gelosamente” (sāpan, Prov 1,11; 2,1; 7,1). Il discepolo è chiamato a rifare il percorso del maestro nello “scrutare” (ḥāqar) il fondo della realtà, oltre l’apparenza e il sentito dire (Prov 28,11; Sir 13,11), e nel “cercare” (biqqēš) che esprime una ricezione critica (Prov 2,4; 15,14).

Le metafore
I rispettivi verbi generano metafore dell’educazione. È un parto espresso dal rapporto tra padre e figlio («Ascolta figlio mio l’istruzione di tuo padre», Prov 1,2) inteso sia fisicamente, sia simbolicamente, perché è il prolungamento di una nascita. È un’officina, dove il maestro plasma il suo discepolo, come il vasaio di Ger 18 (“educare” yāsar suona come “plasmare” yāṣar). È un banchetto dove si condividono non solo i frutti della Sapienza, ma la Sapienza stessa. È un’irrigazione, dove il maestro si fa canale di una pioggia fecondante (Sir 24,28; 39,6; Is 55,10) e irrora una rugiada rinfrescante (Dt 32,2; Prov 3,20; Os 14,6). È una veridizione in cui il discepolo verifica la solidità dell’indagine del maestro. È una degenza per una «terapia dell’anima» (Prov 4,22).
Ogni opzione contraria rappresenta un virus ed una sclerosi non solo spirituale, ma fisica (Prov 5,1-14); l’antidoto proposto è la sapienza stessa come albero e sentiero di vita (Prov 3,11-18; 6,23).
Il sentiero suppone bordi ben definiti: il discepolo orienta il cuore su dove andare. Il maestro è un méntore, quindi più di un docente.
Annota Qoelet: «Le parole dei saggi sono come pungoli e come picchetti» (Qo 12,11), cioè ancorano l’educazione alla tradizione (=picchetti), e aprono nuovi orizzonti (=pungoli). Ciò esige da entrambe le parti tempo, fatica, passione e meraviglia che è «madre del sapere».
Anche per i saggi di Israele, il discepolo non è un «sacco da riempire, ma una fiaccola da accendere» (Plutarco), in vista di un approccio olistico del reale, che però deve riconoscere i suoi limiti dinanzi al mistero di un Dio eccedente (Gb 9,7-10; Sir 43,25-33).

4. «Quale maestro è come Lui?» (Gb 36,22): la pedagogia di Dio
Potentemente radicata è l’idea che Dio sia l’educatore per antonomasia non solo del suo popolo, ma dell’intera umanità (Mi 4,2; Ger 16,21; Is 54,133). Questa democratizzazione, per cui non tutti sono destinati a diventare scribi professionisti e lo stesso re israelita è alunno della Legge di Dio (Dt 17,18-20; 1Re 2,1.4), sono aspetti inusitati nelle culture coeve, dove il re è sopra la legge. Isaia chiama Dio «Maestro» (30,20), «Il Docente» (48,17), «il Consigliere» (40,13). Sal 94,10 aggiunge l’«Educatore Ammonitore». Elihu chiederà retoricamente a Giobbe: «Quale maestro è come Lui?» (Gb 36,22).
La sua pedagogia appare sin dalla mitica scuola del Giardino dell’Eden: il Signore fa uscire mondo e umanità dal caos e insegna all’umano a diventare tale (Gen 2-3). La pedagogia divina trova il suo paradigma fondativo nell’esodo. Dio: a) conduce fuori il popolo prima dalla schiavitù dell’Egitto, poi dalla schiavitù di Babilonia; b) gli fa attraversare come test il deserto c) e lo fa rientrare alla terra dei padri (Dt 8,3-4; Is 28,16).
L’educazione divina è permanente, graduale e commisurata ai tempi dell’uomo (Sap 12,2.18). Una sua dimensione fondamentale è la “didattica della correzione”, tesa a garantire uno sviluppo armonioso, che non rifugge da severe azioni disciplinari (cf Dt 8,5). La correzione, se accettata, è foriera di vita (cf Os 7,15; Ger 6,8) e sembra suggellare la bontà di un percorso di maturazione, riscontrabile in importanti personaggi forgiati da Dio, come Giacobbe, Mosè, Elia, Giona. Potremmo dire che nella sua pedagogia Dio adotta varie tecniche; non solo lezioni frontali, ma anche scritte come le tavole della Legge (Es 24,12; 32,15), audiovisive come le teofanie (Es 19,16; 1Re 19,12), sogni (Gen 15,12; 28,12; 1Re 3; Dn 4). A ciò si aggiungono intermediari come il suo Spirito (Is 11) e la sua Sapienza (Prov 8; Sir 24).

5. Il paradigma esodico dell’educazione biblica
La pedagogia dei giovani viene teologizzata dalla Bibbia, per analogia, «a immagine e somiglianza» di quella divina (Sap 13,5).
Risulta necessaria a partire dalla visione antropologica che traspare nell’AT, dove il “molto buono” della natura umana di Gen 1 si rivela incrinato: «Ogni intento del cuore umano è incline al male sin dall’adolescenza» (Gen 8,21; Sal 51,5.7; 58,4). Ora, resta empiricamente vero che sul piano psico-fisico i figli possano subire le conseguenze degli errori dei genitori. Eppure Dio scommette e riapre alla misericordia della correzione terapeutica (Ez 18,2-4; Ger 31,30). Il paradigma esodico nazionale della Torah e dei Profeti diventa esistenziale nei Sapienziali: a) ogni maestro e-duca l’adolescente affrancandolo dall’ignoranza, dal caos del vuoto e delle pulsioni; b) ne forgia il carattere mediante un tirocinio; c) lo introduce al vivere bene – altro ideale platonico – che è il giusto rapporto con Dio, dal quale scaturiscono felicità, successo e realizzazione (Prov 24,23-25; Dt 4,40; Sal 1,3; Sir 4,2). La condizione previa di questo eudemonismo è il “rispetto del Signore” (yira’t Yhwh), in quanto inizio, base e fine di ogni sapere; la terra promessa è la sapienza (Prov 1,7; Sir 1,9-29). Timore non significa paura bensì rispetto. I sapienti articolano questo rispetto nella triade interscambiabile di «giustizia, equità, e rettitudine» (Prov 1,3) cui possiamo aggiungere lealtà, solidarietà e ottimismo proteso sempre al bene (Prov 3,27-31; 6,16-19; 11; 22,22-29), non solo per i governanti (Prov 8,6; Sap 1,1), ma a chiunque (Prov 14,34; 31,9).

6. Ambienti e ruoli educativi
La scuola
Si ipotizza che nell’epoca monarchica vi fossero delle scuole a tre livelli: una scuola primaria di base per tutto il Paese, una scuola secondaria intermedia nelle principali città per la formazione di funzionari generici; scuole superiori a corte e al tempio dove si formavano i candidati al personale amministrativo, diplomatico e sacerdotale.
L’AT lascia intuire la presenza di gruppi di tirocinanti, come i «figli dei profeti» (2Re 2-6), i figli del re e i loro compagni di educazione (1Re 12,8; Dn 1; 1Mac 1,6; 2), oppure corporazioni di vari artisti del Tempio (1-2Cr).
Così pure nel tempio vi erano sacerdoti e leviti che seguivano un proprio iter, per poi avere la responsabilità di istruire tutto il popolo sui precetti della Torah di tipo legale e cultuale (Dt 31,9; Ml 2,7). Nel tempo furono affiancati o sostituiti da scribi e si riservarono la funzione sacrificale.

La famiglia
Il primo ambito e la prima responsabilità educativa nell’antico Israele spettano alla famiglia, cellula fondamentale della società, non al potere politico vigente. La formazione deve cominciare sin dall’infanzia: «Inizia il giovane secondo la sua via; neppure da vecchio se ne allontanerà» (Prov 22,6). Lo scopo è inculcare il rispetto e la sottomissione all’autorità e alla tradizione. Ciò comporta la scelta del momento giusto (Prov 25,11), quando il ragazzo è ancora malleabile. L’AT è contro un differimento dell’istruzione in un’età più matura e consapevole, perché in gioco c’è la benedizione da donare al più presto (Prov 4,13; Dt 32,46-47).
L’AT conosce genitori saggi, come Anna (1Sam 1) o Tobi (Tb 4), ma anche perversi come Atalia (2Cr 22,3) o traditi, come Ezechia, da figli degeneri (2Re 21). Dopo lo svezzamento affidato alla madre o alla nutrice o a parenti stretti (Gen 24,59; Rt 4,16; Est 2,7), il primo maestro era il padre – sempre coadiuvato dalla madre (cf Prov 1,8; 6,20; 23,22; 31,1.2) – il cui compito propedeutico era insegnare al figlio il mestiere (Prov 24,7), istruirlo sugli usi e costumi, fargli memorizzare la Torah e le tradizioni del passato (Dt 6,6.9; 11,18-20 = Prov 6,22,23; 7,3; 8,4).
Due obiettivi primari del processo educativo nella famiglia erano il dominio di sé (Prov 25,28), abbinato alla scelta del «giusto mezzo» nella vita (Prov 25,7; 30,8). In famiglia i ragazzi potevano ascoltare le grandi memorie storiche fondatrici (Sal 78,3-4; cf Dt 4,9;11). Appare fondamentale la “didattica della memoria” (zākar). La memoria non è semplice registrazione, ma valutazione critica di esso da parte delle domande della generazione che lo riceve.
È l’AT stesso a dettare le regole di questa narrazione, come ordine di Dio in persona; a proposito dei prodigi compiuti in Egitto, Egli dice di compierli «perché Mosè possa raccontarli e fissarli negli orecchi di suo figlio e del figlio di suo figlio» (Es 10,2). La tecnica più importante è la classica “domanda del figlio”, che si traduce in una maieutica finalizzata a suscitare interesse, risonanza di giudizio critico. Si tratta di un dialogo in cui è il figlio a porre la questione e non il padre-maestro, il quale però la coglie al balzo per ri-raccontare in vista di una catechesi familiare come nel libro del Deuteronomio (cf 6,20; 32,7-8). Così accade dinanzi ai dettagli di riti come la Pasqua (Es 12,26), o monumenti (Gs 4,6)4. I genitori e poi tutti gli altri educatori non parlano dunque mai da sé. Nel contempo, educavano anche alla coscienza della propria alterità, dinanzi ad esterni.

I maestri
Un passaggio dal livello primario familiare a quello secondario sotto la guida di un maestro di professione è certo da presupporre.
La citazione di florilegi di proverbi rinvia ad una qualche forma istituzionale, che però non può essere anteriore all’VIII secolo a.C.
Tuttavia, il ruolo dei genitori non viene meno, come va tenuto conto anche di quello di altri “saggi” frequentati. Tra i testi che vertono specificatamente sull’educazione dei giovani possiamo considerare il Deuteronomio come “il manuale del docente”, mentre Proverbi è un “manuale dell’alunno”. A questi si affiancano altri modelli educativi, come quello del Siracide, mentre il libro della Sapienza palesa l’influsso ellenistico in cui la materia si arricchisce di discipline quali l’astronomia, la zoologia, la medicina. Particolare enfasi è accordata all’esempio personale; la prima proposta educativa è l’esperienza convincente del maestro che si racconta, si mette in gioco con i fatti, non con chiacchiere (Prov 5,1-2; 29,19). La condivisione, mai fredda, dei propri ricordi (cf Prov 4,3), coinvolge il discepolo, aumenta l’ascendente, genera un processo di empatia e un ripercorso delle orme non pedissequo (Prov 4,11), modello appassionatamente narrato da Sir 51,13-30.
Diversamente dalla paideía greca, l’obiettivo non era una formazione ginnica, né militare, civica, o politica, bensì, pur contemplandole (cf Dt 4,15; Sir 30,15; Gdc 8,20; 1Cr 27,16-22), quella eticoreligiosa.
Importante è anche il rispetto dell’ambiente naturale e comunitario in quanto interdipendente nel processo formativo: il futuro dell’habitat dipendeva dai giovani, nel contempo doveva tutelarli.
L’AT propone un umanesimo integrale favorendo l’autostima, l’indipendenza e la volontà dell’educando (Prov 12,25; 30,8-9).
L’obiettivo è neutralizzare due pericoli: l’”ignoranza” e l’”insolenza” (cf Prov 7-9). Questi due pericoli si declinano in rispettive tipologie di alunni, che troviamo compendiate nella terna principale di Prov 1,22: «Gli inesperti (petāyîm) gli spavaldi (lēṣîm), gli stolti (kesîlîm)».
La prima designa l’ingenuo, l’alunno alle prime armi; la seconda, il supponente, il cinico che sprezza l’istruzione; la terza oscilla tra chi è o vuole essere ignorante.

7. Il valore universale dell’educazione
L’istruzione è riservata a tutti; non c’è selettività previa, anche se l’esperienza attesta che il frutto dipende dall’albero. La “violenza” educativa è chirurgica e assume una dimensione divina di paternità responsabile (Prov 22,15). L’educazione viene paragonata all’addomesticamento di un cavallo brado e non va presa con leggerezza, come sintetizza il bel testo di Sir 30,8-12. Il giovane è chiamato ad accettare dei “no” motivati e le contrarietà della vita (Prov 12,1; 13,1). Tutto questo è fatto per amore (Prov 13,24; Sir 30,1). Chi educa non deve riversare le proprie frustrazioni, ma potare per far vivere meglio. D’altra parte non può essere né timido, né lassista perché «chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite» (30,7.9; cf Sir 7,24 per le figlie!).
La formazione va fatta con pazienza e con ottimismo; non è mai troppo tardi perché un figlio cambi (19,18). L’educatore deve essere flessibile: gli si chiede di «non rispondere allo stolto con la sua stoltezza» per non scendere al suo livello, ma di «rispondere invece allo stolto secondo la sua stoltezza» quando è opportuno ridimensionarlo (Prov 26,3-5). L’educando ha bisogno di regole equilibrate, non di leggi rigide asfissianti che rischiano di anchilosarlo o esasperarlo.

Conclusione
Un obiettivo-chiave nell’educazione risulta l’onore, valore sommo nella società del tempo. Un figlio va educato per aumentare la dignità della propria famiglia, ma anche per acquisire egli stesso stima nella società. Un figlio “svergognato” (mēbîš) gettava discredito su se stesso e sul nome del proprio nucleo familiare (3,35; 13,5; 17,2; 29,15.17). Un testo del Deuteronomio giunge ad accordare potere di morte ai genitori di un figlio ribelle alla loro educazione (Dt 21,18-21). Collegato è poi il monito a non frequentare cattive compagnie (Prov 22,23-24; Sir 12,14); esse possono distruggere in un attimo la costruzione svolta da genitori e maestri (cf l’esempio di Roboamo in 1Re 12,10-19). In conclusione, possiamo ben capire il detto del Talmud citato in esergo e proporre una tipologia della tradizione rabbinica che riassume le varie possibilità di ogni figlio (bēn) che si appresta a lasciarsi costruire (bānāh) dalla Torah, tratta da Abot de Rabbi Natan:
«Ci sono quattro tipi di studenti: la spugna, l’imbuto, il filtro ed il setaccio. La spugna è lo studente esperto che studia la Scrittura e la tradizione ed assorbe tutto. L’imbuto è l’ascoltatore stupido che fa entrare l’insegnamento da un orecchio e lo fa uscire dall’altro e tutto scorre via. Il filtro è l’ascoltatore malvagio che, come il filtro lascia passare il vino e trattiene la feccia, così egli lascia passare le cose preziose e non trattiene altro che quelle spregevoli: è come un bambino cui prima si danno perle, poi pane, poi un coccio d’argilla; egli butta via le perle e trattiene il pane; poi butta il pane e trattiene il cocci. Il setaccio è l’ascoltatore intelligente. Come il setaccio fa passare la farina e raccoglie solo il fior fiore, anch’egli fa passare le cose spregevoli e raccoglie solo quelle preziose».

NOTE
¹ Sull’esistenza di scuole e sul tipo di educazione nell’antico Israele non c’è ancora oggi un totale consenso; cf D.W. Carr, Writing on the Tablet of the Heart: Origins of Scripture and Literature, Oxford University Press, Oxford 2005; J.L. Crenshaw, Education in Ancient Israel, Yale University Press, New York-London 1998.
² Cf M. Gilbert, La pedagogia dei saggi nell’Antico Israele, «La Civiltà Cattolica» 3701 (2004), pp. 345-358.
³ P. Pouchelle, Dieu éducateur. Une nouvelle approche d’un concept de la théologie biblique entre Bible Hébraïque, Septante et littérature grecque classique, Mohr Siebeck, Tübingen 2015.
4 Cf Es 13,8-9.14-16; Dt 4,9; 6,7.20-25; 11,18-19; 26,5-8; 31,10-13; Sal 44,2. Vedi J.-P. Sonnet, Generare è narrare, Vita e Pensiero, Milano 2014, pp. 37-68.