N.02
Marzo/Aprile 2017

Sindrome di Giona o segno di Giona?

Entrare nella storia di Giona, come raccontata nel suo breve libretto – 4 capitoli, soli 48 versetti, il più piccolo della Bibbia ebraica dopo quello di Abdia – è facile e difficile. Facile per la storia avvincente (si pensi ai colpi di testa del profeta e di Dio) e piena di sorpresa (la tempesta, il pesce che mangia Giona, il ricino che si secca), un romanzo didattico, un racconto parabolico, ma è anche difficile quando andiamo a ricostruire gli avvenimenti storici: chi fu realmente il profeta (cf 2Re 14,25, ove viene detto figlio di Amittai); forse era un profeta di corte (cf 1Re 22,5-12); cosa profetizzò (ad es. l’estensione del regno di Israele ad opera di Geroboamo); che Ninive era la capitale degli Assiri, arricchita di monumenti da Sennacherib, vissuto tra il 704-681 a.C., ed Assurbanipal, vissuto tra il 668-626 a.C., distrutta ad opera dei Medi e dei Babilonesi nel 612 a.C., senza lasciare tracce rilevanti, non ritrovata da Senofonte, appena due secoli più tardi (cf Anabasis., III, 4,10-12), rimessa in luce dall’archeologia nelle sue principali costruzioni (ad es. il palazzo reale, i templi con tutta la raffinatezza dei bassorilievi).

Non possiamo seguire il filo delle ricostruzioni storiche (infatti per la maggior parte degli studiosi pare che il testo sia stato scritto in un periodo tra il 400 e il 350 a.C., quindi già dopo il ritorno dall’esilio del popolo di Israele, quando Ninive non era più così importante), non solo per la complessità delle ipotesi, ma soprattutto perché il libro sin dall’inizio ci mostra il suo stile, imposta un patto narrativo con il lettore di ieri e di oggi, che è invitato a comprendere a partire dal contesto con l’archeologia del sapere, per lasciarsi condurre dalla narrazione, per essere chiamato a rileggere la propria vita alla luce di questa parabola che definirei anti-vocazionale (ad un primo livello) e, proprio per questo, per tutti noi particolarmente provocatoria, per chi è chiamato a diventare missione.
Pur inserito nella serie dei profeti, il personaggio è una figura-tipo o segno di quello che gli uomini pensano o finiscono per essere, che parla più per quello che è che per quello che dice.

Lasciamoci dunque guidare dalla vicenda narrata con i suoi passaggi scorrevoli, gustosi, ironici e infarciti di situazioni paradossali che strappano un sorriso a volte anche amaro.

1. Primo momento

Giona chiamato, profeta in fuga (Gio 1,1-16):
«Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa parola del Signore: “Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”.
Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore».

Il libro comincia con una chiamata.
Alla lettera: «Allora fu la parola del Signore…», in continuità con il profeta precedente, Abdia, in una catena vocazionale non interrotta, ma sequenziale. Le ultime parole del libro precedente dicevano: «E così di YHWH sarà il regno!» (Abd 21). Ora, proprio perché Dio è re, manda il profeta anche dai pagani.

Ma chi era il profeta?
Non pensiamo a lui solo come ad un “postino”. Il nome Jonah tra l’altro significa “colomba”, anche qui un simbolo di mobilità, in quanto facile alla fuga (cf Ez 7,16), ma anche un animale incline al lamento e al gemito (cf Is 38,14; 59,11), simbolo di Israele (cf Os 7,16).
La chiamata è come un evento, un accadimento che investe la sua vita. Questa è la chiamata non a svolgere delle funzioni, ma ad essere una missione. Così è accaduto in precedenza anche per gli altri uomini prima di lui: essi trattano con Dio (Ger 1,6; Es 3,11; 4,10) o si ribellano (cf Ger 20,9) oppure si chiudono in un mutismo resistente (cf Ez 2,6.8), perché la persona investita resta libera, resa capace di rispondere o meno.

Qual è la missione affidata a Giona?
Due imperativi: «Alzati e va’ a Ninive», definita “la grande città” o la “città capitale” come più volte è detto nel resto del racconto (3,2.3; 4,11). Ma per fare cosa?
«Grida…» e viene spiegata la ragione di tale grido introdotta dalla preposizione: «… poiché la loro malvagità è salita alla mia presenza». Dio dunque chiama Giona al cambiamento.
«Giona si alzò» (Gio 1,3a)… ci aspetteremmo: «… ed andò» e invece troviamo con sorpresa una reazione del tutto inaspettata: «… per sfuggire lontano dalla presenza di Dio» (un’espressione che serve a dire, come già per Caino in Gen 4,16) l’allontanamento dalla terra di Israele.

Perché Giona fugge?
Il racconto non lo dice. Giona sfugge alla sua vocazione e missione, rinuncia alla responsabilità di stare alla presenza di Dio. Sarà il racconto a spiegarcelo.
E scende – non comprendiamo da dove, forse dalla Samaria – prima a Giaffa, città dei racconti di Perseo e Andromeda, poi scende nella nave, che ha per meta Tarsis, «lontano dalla presenza del Signore» (Gio 1,4).
Tarsis resta un luogo misterioso. Nell’Antico Testamento il termine è legato all’espressione «navi di Taršiš» generalmente tradotta come «navi di lungo corso», proprio perché in grado di andare a Tarsis, località imprecisata ma lontana (cf 2Cr 20,36-37), ma anche in altri passi dell’Antico Testamento le navi di Tarsis (cf Is 23,1) gridano per la distruzione di Tiro e, nello stesso libro (2,16), sono ricordate tra le entità su cui si abbatte la collera divina nel cosiddetto “giorno di Yhwh” insieme ai cedri del Libano, alle querce di Bašan e ai monti; nel Salmo 48, al v. 8, si racconta come queste particolari “navi” vengano squarciate dal vento orientale inviato da Dio. Tarsis rappresenta l’estremo occidentale opposto all’orientale Ninive1, ubicata probabilmente sulle coste meridionali della Spagna.

Cosa cerca Giona?
Cerca solo tranquillità e sicurezza, in una sola parola “quieto vivere”; vuole sfuggire a un Dio esigente e imprevedibile. Infatti a Tarsis non si conosce Yhwh (Is 66,19) ed è un centro fiorente dal punto di vista commerciale (vi si lavora l’argento: cf Ger 10,9). Vi si reca dunque – forse – con la prospettiva di un potenziale successo economico2.
Ma per dire la fuga si usano i termini della discesa. Una connotazione particolare ha il reiterato uso del verbo scendere, che caratterizza il componimento fin dal primo capitolo: nel solo v. 3 esso viene utilizzato due volte, per indicare prima il viaggio verso Giaffa e poi il suo imbarco per Tarsis. Se nel primo caso l’espressione può considerarsi normale, nel secondo è decisamente anomala, perché anche in ebraico, come in italiano, si usa l’espressione “salire su una nave” piuttosto che “scendere”… Il verbo ricorre ancora al v. 5, per un totale di tre volte in soli 5 versetti. Difficilmente tanta insistenza può essere casuale, specialmente all’inizio di un libro biblico. I movimenti di Giona, apparentemente comuni, sono descritti nei termini di una vera e propria catabasi3.
Scendere o fuggire dalla presenza di Dio vuol dire volgere le spalle a Dio, con una configurazione plastica ostinata, che va oltre le resistenze dei profeti del passato, che comunque restavano davanti a Dio.
Dio chiama Giona, Giona rifugge dalla chiamata. Il racconto è segnato da una grande ironia.
Giona, israelita, rappresentante del popolo di Dio, sprofonda sempre più in basso.

1.1 Sottolineature vocazionali
La Parola di Dio investe ciascuno di noi e ci costituisce vocazionalmente.
Possiamo accoglierla o rifiutarla, possiamo resistere o sfuggire, possiamo metterci alla presenza di Dio o fuggire da essa, possiamo lasciare che la nostra vita sia sconvolta da questa parola oppure possiamo restare chiusi in noi stessi e nei nostri progetti, nei nostri recinti pregiudiziali.
La domanda che si pone a tutti noi è evidente: stiamo veramente ascoltando la voce di Dio che ci chiama ad andare oppure viviamo rinchiusi in una grande bolla fatta di presunte sicurezze e comodità? Siamo disponibili ad oltrepassare i confini di modi di pensare e di vivere che impediscono di partire? Siamo aperti a percorsi che conducano all’incontro con gli altri e a viaggi interiori (i più difficili), affrontando nuove sfide e interrogativi del nostro tempo?

Anche a noi è rivolta la domanda che vorremmo indirizzare al profeta: Giona perché fuggi dalla presenza del Signore?

2. Secondo momento
Giona inghiottito, ribelle in preghiera (2,1-11):
«Subito Yhwh gettò un forte vento sul mare. Così venne una grande tempesta sul mare e subito la nave pensò di sfasciarsi… Allora i marinai…» (Gio 1,4).

Giona è in mezzo al mare con i marinai e veleggia verso la fine del mondo, ma a questo punto Dio interviene, prendendo l’iniziativa: un vento impetuoso e una tempesta furiosa. La fuga di Giona sembra contrassegnata da una rincorsa da parte del Signore. A lui sembra di allontanarsi, ma Dio in realtà è sempre lì (cf Am 9,2-4). Le reazioni alla tempesta sono del tutto opposte.
I marinai hanno paura – Giona invece scende nella parte interna della nave. I marinai invocano il loro Dio – Giona si corica; i marinai gettano cose dalla nave per alleggerirne il peso – Giona si addormenta.
Giona si ritrova contro i marinai. Egli fugge dai pagani di Ninive e si ritrova tra i pagani della nave. Egli non obbedisce al suo Dio, a differenza dei marinai che hanno paura e gridano ciascuno al proprio dio. I marinai tremano dalla paura, presi dal panico, espresso dal fatto che «coloro che di solito lavorano solo in piena solidarietà, ora diventano individui isolati, ciascuno grida al suo Dio»4, ma dorme (il termine usato è tardē) come un ghiro: è un letargo più che un sonno; cf il sonno di Adamo (Gen 2,21), di Abramo (Gen 15), di Sìsara (Gdc 4,21), di Elia (1Re 19,5). Il sonno può essere il luogo del sogno (Gb 33,14-17), ma anche il luogo della incoscienza, della irresponsabilità (Gdc 4,21), uno stadio prossimo alla morte. Giona scende sempre più in basso, in senso fisico e religioso. Mediante il sonno, egli anestetizza la paura.
Giona viene interpellato allora dal capitano della nave. Egli, un pagano, ribadisce – sia pure inconsapevolmente – la vocazione e la missione di Giona: «Àlzati, proclama!», quasi un’eco della chiamata di Dio. Il chiamato spesso sente che la voce di Dio risuona anche attraverso le voci di tanti, addirittura di coloro che quella voce non conoscono.
I marinai e Giona vedono nella tempesta la mano di Dio, ma Giona vuole ignorarla, mentre i pagani vogliono placarla, perché intuiscono una relazione, magari opposta alla loro, tra il castigo divino e i peccati commessi da Giona, visto che la sorte cade su di lui.
Una visione superstiziosa ma relazionale rispetto a quella negata dal profeta in fuga. Essi gli dicono: «Che cosa hai fatto? Perché ci troviamo in questa situazione disperata?».

Giona, quasi costretto dall’evidenza dei fatti, lui che, investito dalla parola (di Dio) è in fuga da essa, ora parla (v. 9) e fa una confessione perfetta dal punto di vista formale, quanto ironica agli occhi del lettore, che la riconosce contraria alle sue scelte concrete.
«Io sono un ebreo e temo il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra!» (1,9).
E di fronte alle domande ulteriori («Che hai fatto?», v. 10; «Che cosa dobbiamo farti?»), Giona confessa esplicitamente la propria colpa e suggerisce la soluzione (v. 12).
I marinai pregano (non vorrebbero fare del male a Giona), poi lo prendono e lo gettano in mare. L’effetto positivo è immediato, siamo alla svolta della vicenda.
Per i marinai è finita, ma Giona, che fine ha fatto? Dio manda un grosso pesce (Gio 2,1) e Giona resta in esso tre giorni e tre notti. Gli studiosi si interrogano: «Perché questo preciso spazio temporale?». La spiegazione viene cercata nei paralleli con la storia di Inanna nel testo sumerico della discesa agli inferi, come tempo di soggiorno permesso nell’oltretomba5.

Giona, in questo momento della sua vicenda, si trova di fronte all’ennesimo paradosso: quella morte che ha cercato, per non corrispondere alla Parola di Dio, ora la sta quasi sperimentando. Egli comprende che Dio non vuole la morte, ma la vita; non vuole la morte sua, né quella dei Niniviti. Qui nel constatare che Dio ha cura di lui, anche quando egli non ha cura di Dio, ha la prova di trovarsi di fronte ad un Dio diverso da quello che aveva immaginato, eppure questo atto di misericordia riesce a leggerlo solo come atto di forza. Per lui Dio lo fa per mostrare i muscoli, non per mostrare il cuore.
L’apparente morte a se stesso, ai suoi progetti, diventa incontro con la sua realtà… la sua fragilità creaturale. Da lì, solo da lì si riparte per ritrovarsi nella relazione con Dio. Dal cuore dell’abisso (l’immagine primordiale delle origini: cf Gen 1,2) il rapporto interrotto con il Dio che gli aveva rivolto la parola, proprio nel momento dello sconcerto, del fallimento che viene percepito come uno stare sulla soglia della morte, si fa invocazione, qui sgorga il canto, come nelle migliori tradizioni bibliche, nei momenti della maggiore tensione, i narratori sospendono la vicenda per dare spazio all’io lirico (che sia di composizione originale o inserimento di canto preesistente poco importa6): così il popolo salvato dalle acque esplode nel canto di Miriam (Es 15,1-18), così Davide di fronte alla morte di Gionata (2Sam 1,18-27). Nella poesia, come quella che stiamo ascoltando dalla voce dei Giona di oggi, emerge tutto il suo mondo interiore.

La preghiera del profeta inizia come supplica accorata (v. 3) e termina come azione di grazie (v. 10), si va dalla domanda al ringraziamento, ma quali sono i punti centrali?
Dio permette la lontananza: «Mi hai rigettato dalla tua presenza»7. Il passivo divino potrebbe far pensare che sia Dio a respingere Giona. In realtà – tenuto conto della mentalità semitica che attribuisce a Dio ogni evento, eccetto il peccato – bisogna intendere che è Giona ad allontanarsi dal Signore e niente affatto il Signore a respingerlo da sé. Ma questo modo di esprimersi la dice lunga sui sentimenti del profeta.
Dio salva (al v. 10a: «La salvezza viene dal Signore»): l’uomo lasciato nel male, nel peccato, nella morte, motivo per cui «esiste una speranza anche per i messaggeri di Dio più incapaci e ostinati»8.
Non vi è altri che il Dio di Israele, che sigla le vicende con la stessa firma, quella della liberazione.

Certo è un passo in avanti: prima aveva parlato di Dio, ora comincia a parlargli, ma con parole d’altri.
Non ci meraviglia se molti studiosi pensano questo testo come ripreso dalla tradizione (di qui la ricca tramatura salmica9) e collocato qui dall’autore all’interno della narrazione, a conferma del ripensamento di Giona, tutto anch’esso riconducibile alla mentalità giudaica post-esilica (“tutto viene da Dio, tutto fa il salvatore”), non possiamo sottrarci alla sua volontà. Un modo di pensare che nasce quasi da una visione direi fatalista della vocazione e della fede. L’orizzonte di Giona, perso nel cuore della terra e sballottato dal mare e dalla tempesta, resta ristretto.
Per lui, come per un certo tipo di giudaismo (e anche di cristianesimo), con cui l’autore entra in conflitto, tutto si riduce ad un rapporto bilaterale (IO-TU). Egli non prende in considerazione né i pagani marinai, né i Niniviti: esiste solo Lui e Dio, in una sorta di ossessiva relazione di riconoscimento reciproco. L’unica volta in cui parla di altri uomini è per criticare gli uomini idolatri (Gio 2,9). Giona, dunque, come dice l’ultimo versetto del Salmo (2,10) riconosce in Dio la salvezza (v. 10b).

Ma la salvezza di chi?
Per Giona la salvezza è quella “sua” o al massimo del “suo” popolo. Verrebbe da dire, allora, che Giona non è salvato per la sua preghiera, ma nonostante la sua preghiera.
Gli studiosi del profondo (E. Aeppli) hanno detto che «chi deve attraversare una profonda trasformazione interiore, così come accadde al leggendario profeta Giona, viene per un po’ di tempo inghiottito dal suo inconscio, da un grosso pesce che ha una gola simile a quella della balena. Una volta trasformatosi, verrà gettato sulle chiare rive di una nuova coscienza»10.

Ma non esageriamo… forse Giona ha solo capito chi è il più forte, chi comanda, a chi deve sottomettersi. Non è ancora veramente cambiato, ha fatto buon viso a cattivo gioco. Quasi per interesse si sottomette al suo Dio e decide di riprendere i rapporti con lui. Ma resta qualche dubbio che sia convertito alla sua missione? Vuole fare il profeta o vuole essere profeta?
Noi non lo abbiamo capito ancora, ma Dio si serve del grosso cetaceo che lo aveva inghiottito per vomitarlo al punto di partenza.
Il pesce che in qualche modo, contro natura, resiste alla sua voracità, non a caso è qualificato come “grande”, ma anche contrassegnato da tratti femminili (ad es. le viscere) ossia il luogo in cui viene formato l’uomo, cosicché diventa da maschile femminile, sinonimo di grembo materno, mostrando in tal modo la tenerezza di Dio e fungendo da incubatrice, da ventre per l’inizio (solo l’inizio) della rinascita mentale e spirituale di Giona.

2.1 Sottolineature vocazionali
La misericordia di Dio predispone le esperienze e gli incontri per i passi del cammino di discernimento vocazionale. L’esperienza della creaturalità, della percezione della propria finitudine è essenziale.
Giona nella miseria, nel cuore dell’abisso, si connette con questa dimensione, uscendo dalla sua autoreferenzialità per rivolgersi a Dio, che lo chiama, ma naturalmente non si capisce sino a che punto egli ne sia consapevole. Non ci è dato di capire (ecco la suspense immessa dal narratore) se questa debolezza l’abbia assunta, in tal caso sarebbe già pronto per la missione, oppure se invece continua ad accettare il limite in modo strumentale, perché indotto dalle circostanze. Certo, come per il figlio prodigo della parabola di Gesù, un cammino di cambiamento di mentalità, di conversione parte anche dalle circostanze drammatiche occasionali, ma prenderne atto potrebbe essere solo una condizione di calcolo meramente utilitaristico. A volte anche tra i chiamati e i chiamanti la scelta vocazionale viene vista come un investimento di comodo, non come una missione.
«Cos’altro potrei fare nella vita?». Con la mente Dio ci appare più grande ma con la testa, con i ragionamenti, non con l’adesione della nostra vita.
Il ministero sacerdotale e la scelta consacrata diventano così una sorta di bene rifugio, in cui Dio è quasi il “padrone della ditta” ed io il suo “dipendente”, magari a mezzo servizio, solo la veste e la parola, senza diritto sul cuore…
Le motivazioni sono sempre miste e non finiremo mai di discernerle, anche nel cammino della fedeltà successiva al momento iniziale delle scelte di vita.
Giona ha ritrovato il suo Dio o il vero Dio? Ha ritrovato veramente se stesso? Ha compreso a quale vocazione Dio lo chiama? Ha capito che Dio lo chiama a una missione diversa da quella che lui si aspettava?

Un vero percorso di discernimento vocazionale non sa in anticipo dove Dio ci porta: egli allarga i nostri orizzonti e ci fa scoprire il suo vero volto e anche la nostra vera identità solo se ci sappiamo far condurre dai segni della sua cura materna, mediati da infinite mani che si muovono dallo stesso grembo… quello della Chiesa. Le resistenze a questo cammino ritardano i passi, ma Dio, con paziente opera, continua a farci camminare e crescere secondo la sua tabella di marcia.
Il racconto avvincente si presta per un esame vocazionale di ciascuno di noi. Ogni momento rende possibile una crescita nella consapevolezza vocazionale, un passaggio ad una nuova soglia di maturazione. Io, anche punto sono?

3. Terzo momento

Giona, chiamato per la seconda volta, predicatore di successo (Gio 3,1-10):
«Fu rivolta la parola del Signore una seconda volta a Giona: “Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e proclama ad essa il messaggio che io ti dirò”…
Giona si mise in cammino (…) andò a Ninive, secondo la parola del Signore, e proclamò: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta…”».

I movimenti del racconto sono due: da una parte Giona che, chiamato di nuovo, diviene esecutore obbediente, dall’altra la predicazione, che mostra un tono duro, violento, anche se quel termine hāfak (reso con “distruggere” ove andrebbe meglio “capovolgere”) implica una sorta di possibilità, quasi di rovesciamento, che di fatto poi avverrà.
La profezia di Giona dunque è vera, ma è falsa circa gli effetti.
La scena ci viene raccontata dall’esterno e tutto sembra procedere questa volta con una logica di fedele adempimento, ma nulla ci viene detto di ciò su quello che Giona prova dentro di sé. Lo sentiremo dopo la reazione dei Niniviti. Egli, da una parte, deve obbedire a Dio, dall’altra non sembra accettare il contenuto di quell’annuncio, in quanto mette in discussione il rapporto preferenziale IO-TU e chiama in causa gli altri, i destinatari della missione. In fondo la missione per lui è contro gli altri non per gli altri.
La reazione degli abitanti di Ninive è perciò scioccante per il profeta: essi «credettero a Dio e proclamarono un digiuno… dal più piccolo al più grande» (Gio 3,5).
La risposta all’appello, portato controvoglia, si trasforma in un successo della predicazione: essi credono e coralmente rispondono con il digiuno (volto a propiziarsi l’aiuto di Dio: cf Est 4,16) e il vestire di sacco, un esplicito atto di umiltà. In altre parole si riconoscono come Dio li vede, accettano i loro limiti e accolgono il volere divino, in modo del tutto opposto alle resistenze di Giona.
Anche il re partecipa personalmente e decreta che uomini e bestie facciano penitenza (7-8), si augura che Dio possa pentirsi (3,9a) e desistere dal fare il male, nelle ultime parole esprime anche l’invito alla conversione «dalla condotta cattiva e dalla violenza di cui (il popolo) ha macchiato le mani!». Il suo decreto, dai toni profetici (in quanto esprime un discernimento di fronte al dābār divino che lo ha provocato dal basso), è un invito a “tornare indietro” ossia ad abbandonare i modi della violenza che sta all’origine nella Bibbia della tragedia umana (cf Gen 6,5.11.13). Respingere questa condotta è di fatto una sorta di rigenerazione, come se la distruzione fosse una sorta di causa intrinseca della malvagità violenta dell’uomo11.
In altri termini la conversione dei Niniviti è una sorta di riconoscimento del travisamento della vocazione originaria dell’uomo, che non è a opprimere ma a custodire l’altro. I Niniviti la riscoprono e si convertono. In altri termini c’è una conversione dell’umano all’umano, quella che risuona nel pensiero di Papa Francesco, anche con risonanze possibili nel mondo giovanile, e di fronte ad essa si pone come auspicio la conversione di Dio («Chi sa, forse, tornerà indietro e si pentirà il Dio e tornerà indietro dall’ardore della sua ira e noi non periremo», Gio 3,9).

Il “pentirsi di Dio” (attraverso un verbo che vuol dire insieme “pentirsi” ed “avere misericordia”) con le due riprese del “tornare indietro” si illuminano a vicenda. Dio non è un buonista, ma colui che si pente perché è misericordioso. Egli non può accettare il male, di qui la sua ira, nello stesso tempo non può reagire (con distacco dal male), non può dare sfogo alla sua ira (cf Mi 7,18; Sal 6,2s, 78,10).
Lo sfondo narrativo è chiaro, tutti partecipano dell’ascolto e della risposta significativa alla Parola di Dio: il re e i Niniviti credono che Dio possa pentirsi e si pentono (anche qui una reticenza dell’autore non ci permette di capirne la ragione, se sia per paura, per calcolo, se sia una conversione etica e non religiosa). Ciò che sta a cuore al narratore è sicuramente il contrasto tra la loro docilità (che induce il lettore a non essere pessimista sul mondo) e la resistenza del profeta, che sembrerebbe fugata ed invece, come si vedrà, riaffiora.
Centrale è l’affermazione del narratore: Dio vide le loro azioni, che cioè si erano convertiti dalla loro cattiva condotta. Dio allora si pentì del male che aveva detto di far loro e non lo fece (Gio 3,10).
L’immagine di Dio che si pente è sicuramente ardita… In realtà nella Bibbia ritorna più di quanto potremmo immaginare (Gen 6,6 di fronte alla malvagità; Es 32,14, riguardo alla decisione di punire il popolo; Ger 26,13). Si tratta dunque di un’espressione tipica del linguaggio dei sentimenti umani, ma che non intacca la libera e sovrana sua volontà. La conversione (il cambiamento di Dio) resta avvolto nel mistero insondabile della sua intima natura, ma esprime la sua intenzionalità sull’uomo e sulla storia, la chiamata alla salvezza, l’amore che precede anche la minaccia e orienta la sua sapiente pedagogia vocazionale per tutti gli uomini, per Israele, per Giona e per noi.
I Niniviti credono in un Dio, che non conoscono, ma che possa cambiare, un Dio che in fondo è incline alla compassione; mentre Giona non vi crede, anzi aborra tale possibilità. La fuga da Ninive verso Tarsis, il rifiuto della missione è l’espressione di una non comprensione della vera intenzionalità di Dio, che è la misericordia verso tutti.
Dio cambia parere, si pente… e Giona? Resta il confronto tra il profeta, fuggito ed ora di successo, la sua storia vocazionale, la sua mancata missione, e il Dio di Israele, convertitosi di fronte alla grande città. 

3.1 Sottolineature vocazionali
Il chiamato, come Giona, non è chiamato una sola volta, ma tante volte nella sua vita. René Voillaume nel quadro della vita consacrata non esita a parlare di una “seconda chiamata” percepita dopo molti anni di fedeltà al Signore (Lettera del 17 marzo 1957, indirizzata ai Piccoli fratelli di Gesù). Nella prima tappa della storia vocazionale di ciascuno di noi, colui che desidera sinceramente donare la propria vita a Dio non ha ancora l’esperienza «dell’impossibilità umana e naturale… di vivere in armonia con l’ordine soprannaturale dei consigli. Nella giovinezza c’è in effetti una corrispondenza tra la generosità propria del temperamento di questa età e la chiamata di Gesù a tutto lasciare per seguirlo». Poi, poco alla volta «con il tempo e la grazia del Signore, insensibilmente tutto cambia.
L’entusiasmo umano lascia il posto a una specie di insensibilità verso le cose soprannaturali; il Signore ci sembra sempre più lontano e in certi giorni ci sentiamo possedere come da una stanchezza…
In una parola, entriamo progressivamente in una nuova fase della vita, scoprendo, a nostre spese, che le esigenze della vita religiosa sono impossibili». Voillaume sottolinea che sentire questo apparente regresso è la condizione di grande infedeltà.
La fine dell’“adolescenza” spirituale, la “seconda chiamata”, avviene così all’interno di un’esperienza di povertà spirituale e solo un dono di sé rinnovato al Signore permette di entrare in maniera ancora più radicale nella prospettiva dell’assoluto evangelico. Si tratta dunque di “perdere” realmente la propria vita per ritrovarla intera nel Cristo e divenire così realmente suoi “amici”. È proprio quello che Giona non sa e non vuole fare…
Domandiamoci: a che punto sto della mia vita, prima o seconda chiamata?
Giona il chiamato è re-inviato da Dio alla relazione con gli altri, non solo quelli che ha in mente, ma quelli che Dio ha a cuore, tutti gli altri.
Il chiamato può ascoltare e annunciare, eseguendo meccanicamente senza l’adesione del cuore, obbedire senza partecipazione di sé. Giona così sta svolgendo una missione, ma non è ancora una missione.

 4. Quarto momento
Giona adirato, missionario, che non sa lasciarsi sorprendere da Dio (Gio 4,1):
«Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato». Alla lettera: «Fu male per Giona di un grande male e si adirò».
La reazione di Giona alla conversione dei Niniviti e soprattutto a quella di Dio è clamorosa.
Ciò che agli occhi di Dio e del lettore è cosa buona, agli occhi di Giona è male ossia genera un malessere insopportabile. Possiamo intuire come appare sul piano filologico e su quello psicologico, vi è una stessa radice nella malvagità della metropoli e nella contrarietà del profeta.
Giona dovrebbe gioire del successo della sua missione, dovrebbe essere felice della salvezza della città, dovrebbe riconoscere con ammirazione la misericordia di Dio, e invece una stessa radice di violenza (ossia di autoreferenzialità) è alla base dell’agire dei Niniviti e del profeta.
La sua resistenza diventa quasi sacrilega, come si evince dalla seconda preghiera, che egli formula, contraria alla vocazione alla vita, che è tipica di ogni uomo, una preghiera molto rancorosa verso Dio. «Sapevo (da un verbo che presuppone qui non un riconoscimento del Signore, ma una sorta di mera conoscenza esteriore; lo conosce ma non lo riconosce) che tu sei un Dio grazioso e misericordioso» (cf Es 34,6)… E chiede, con tono amareggiato, di morire perché non riesce a tollerare la sconfitta della sua spiritualità esclusiva («Lo sapevo che sarebbe andato a finire così!»). Con un Dio giusto si possono fare i conti e prevedere i risultati (ndr: modello Giobbe), ma con un Dio misericordioso non si può contare12.
Il paragone con Elia che desiderava la morte (1Re 19,4), per via della solitudine e della persecuzione (1Re 19,10.14), motivata dalle difficoltà, non fa che mostrare la forte caparbietà di Giona, il quale al contrario gode di un successo pastorale. Dio non si stanca, però, di rispondere a Giona, mettendo in atto un ulteriore processo di cura educativa o rieducativa. Prima chiede la motivazione di un risentimento esagerato, ma Giona si trincera dietro un silenzio ostinato; raggiunge la porta della città, si siede ad oriente della medesima, in una capanna all’ombra (con evidente valore simbolico) e resta in attesa (cf Gio 4,5).
Cosa aspetta? La punizione (modello Gen 19,27s)? Non ha ancora perso la voglia di contrastare Dio?
Quest’ultimo, allora, visto che non è bastata la provocazione verbale ne fa un’altra in chiave più operativa: provvede ad una pianta di ricino (un gesto di cura amorevole verso il profeta) per liberarlo dal disagio della calura e Giona gioisce per la frescura del ricino (il suo piccolo benessere), ma poi manda un verme ad attaccare il ricino per farlo seccare. Di fronte alle sue eccessive rimostranze (si sente male sino a svenire e desidera morire), gli ripete la stessa domanda: «Ti sembra di essere adirato giustamente per il ricino?» (Gio 4,9) o meglio «Vale la pena di irritarsi per un ricino?».
Giona conferma di essere adirato sino alla morte. Dio vuole far comprendere al profeta che se egli reagisce così fortemente alla perdita di un ricino, che dà sollievo, non può e non deve reagire alla perdita di una “grande” città di uomini e di donne. Dio vuole far capire al profeta che in fondo è un puntiglio: il problema è tutto suo, riguarda il suo modo di reagire alla chiamata alla vita, alla chiamata alla misericordia che è la regola sapienziale della educazione della vita di ogni uomo e credente.
La compassione (ironicamente rinfacciata da Dio a Giona) verso il ricino viene contrapposta a quella di Dio verso Ninive.

4.1 Sottolineature vocazionali
Da una parte l’episodio mostra come solo nelle cose anche piccole della vita, si rivela cosa c’è nel cuore del chiamato, la capacità di essere promotore di vita, custode dei fratelli, ad immagine di Dio padre e creatore, liberatore, oppure l’insofferenza e l’ostinazione di un uomo arroccato nelle sue presunte sicurezze.
Il finale resta aperto – non sappiamo se Giona si convertirà e diventerà una missione – ma ognuno di noi, confrontandosi con lui e ritrovandosi Giona, in molteplici occasioni, è chiamato a dissociarsi da lui per assumere il pensare di Dio.
La sindrome di Giona è chiudersi in se stessi, nelle proprie visioni: la prevedibilità di un Dio e della sua storia, la ripetitività stantia del “si è fatto sempre così!”.
Tale sindrome prende anche l’animatore vocazionale, rendendolo pieno di pregiudizi, incapace di lasciare agire Dio che è misericordia, incapace di cogliere nell’amore di Dio la sola forza che tocca il cuore delle persone. Anche la nostra pastorale vocazionale rischia di restare dentro schemi obsoleti, che non tengono conto dell’agire sorprendente di Dio.
Siamo chiamati a passare dalla pastorale vocazionale dei modelli, ove ciò che conta è rientrare dentro una prospettiva di aderenza a pre-requisiti, alla pastorale vocazionale della creatività, ove ciò che conta è lasciar agire Dio nel cuore degli uomini. Ciò renderebbe insicura a primo acchito la nostra opera.
E perciò anche noi, a volte, corriamo il rischio di stare a deprimerci per il ricino delle nostre comunità asfissianti e senza ombra, quasi incolpando Dio, che ci ha seccato il piccolo orticello. Mentre forse
Egli ci sta dicendo che, solo uscendo da alcuni schemi inattuali, possiamo salutarmente lasciarci prendere da un sano sconcerto.
Da qui si riparte, accettando che il primato non sta nella nostra opera, ma nell’azione di Dio ed esso si esprime nella cura dei fratelli, nella ricomprensione della nostra missione a partire dalla riscoperta della vocazione umana prima che cristiana e di speciale consacrazione. Una scoperta che è possibile solo se si inscrive nell’orizzonte ampio dell’alterità, che è la garanzia della piena umanità.
Prima viene la fiducia in Dio e nelle sue sorprese da parte del chiamante, poi l’azione umana, capace di discernere, accompagnare, far crescere, rendere lo sconcerto stupore di fronte alla cura amorevole di Dio e degli uomini.
L’operatore vocazionale sa che Dio fa germogliare semi di vocazione in campi in cui non avremmo immaginato e smonta preti e suore nati tali.
Giona è un missionario disorientato, un animatore vocazionale spiazzato, perché non ha veramente scoperto il volto di Dio che risplende come il sole su giusti ed ingiusti ed abbraccia col suo sguardo tutti gli uomini.
Il chiamato è svelato nelle sue contraddizioni da Dio, che gli mostra i suoi errori di prospettiva, soprattutto nel pensare se stesso senza gli altri, senza allargare lo sguardo alla grande città. Dalla cura di sé e dei suoi alla cura degli altri. Solo nell’orizzonte dell’attenzione ai lontani acquista senso e valore la propria chiamata, solo nell’orizzonte della vocazione umana prende senso la vocazione di speciale consacrazione.
Siamo tutti lì, sulla porta ad oriente della città di Ninive, per prepararci ad entrare con passione e solidarietà, compagni della vocazione di tutti gli uomini oppure stare ad attendere non si sa che cosa… una straordinaria (quanto inusitata) riproposizione di trionfi antichi o il giudizio imminente. In fondo questa è la condizione della PV e della pastorale della Chiesa oggi. L’alternativa, come ha detto con termini lapidari Papa Francesco13:
«Vogliamo seguire la sindrome di Giona o il segno di Giona?».

 

NOTE
1 Cf L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 1984, p. 1156.
2 Cf H.W. Wolff, Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982, p. 117.
3 Cf J. Magonet, Form and Meaning. Studies in Literary Techniques in the Book of Jonah, Sheffield Academy Press, Sheffield 1983, p. 17.
4 Cf H.W. Wolff, op. cit., pp. 122-124.
5 Cf G.M. Landes, «The ‘Three Days and Three Nights’ Motif in Jonah 2:1», in «Journal of Biblical Literature» 86 (1967), pp. 246-250.
6 Cf M.L. Barré, «Jonah 2, 9 and the Structure of Jonah’s Prayer», in «Biblica» 72 (1991), pp. 237-248.
7 Cf L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 1984, p. 1161.
8 H.W. Wolff, Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982, p. 133.
9 Cf R. Couffignal, «Le Psaume de Jonas (Jonas 2, 2-10). Une catabase biblique, sa structure et sa function», in «Biblica» 71 (1990), pp. 542-552.
10 La citazione è in H. Biedermann, Dictionary of Symbolism. Cultural Icons and the Meanings behind Them, Meridian, New York – Oxford 1994, p. 394.
11 Cf M. Marino, “Sapevo che tu eri un Dio misericordioso…”. Il libro di Giona tra accusa e perdono (Commenti e studi biblici s.n.), Cittadella Editrice, Assisi 2016, p. 161.
12 Cf L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 1984, p. 1172.
13 Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, La sindrome di Giona, Lunedì, 14 ottobre 2013, in «L’Osservatore Romano», ed. Quotidiana, Anno CLIII, n. 236, Mart. 15/10/2013.