N.02
Marzo/Aprile 2017

Testimoni di una Chiesa marcata a fuoco dalla missione

Tavola rotonda coordinata da Gabiella Facondo, Giornalista, TV2000, Roma

Storie, persone, riflessioni che incrociano in tanti modi diversi il tema-adagio del Convegno Nazionale “Alzati, va’ e non temere”.
C’è un Vescovo che opera in Albania, paese oggi alle prese con una rinascita complessa, che per anni ha bandito il nome di Dio dal suo orizzonte, comunque lo si pronunciasse, incarcerando, torturando, uccidendo sacerdoti cattolici, suore, credenti laici e ortodossi, musulmani, sufi bektashi e arrivando a definirsi nella sua Costituzione “primo stato ateo al mondo”.
C’è una coppia di genitori che si è data il compito di contribuire a rendere migliore questo nostro mondo rimettendone al centro la famiglia e testimoniando la gioia del Vangelo, con altre nove coppie e tutti i loro figli, a partire da una grande casa che ha un nome bellissimo: “Casa della Tenerezza”, sorta a Perugia più di dieci anni fa, vale a dire assai prima che Papa Francesco ci esortasse a diventare protagonisti, con i fatti più che con le parole, della “Rivoluzione della Tenerezza”.
C’è una suora missionaria dal nome spagnolo che oggi vive con ardore nel nostro Paese, ma che nel cuore conserva l’amore per il luogo dove per sette anni si è adoperata a costruire “ponti e non muri” e per questo ha ricevuto, con le consorelle, un premio importante nel 2015. Quel luogo è la Terra Santa, dove un muro, chilometri di filo spinato, fossati come trincee separano due popoli e sembrano seppellire ogni speranza di pace. E invece…
E infine, un atleta olimpionico che da Rio, nel settembre scorso, è tornato a casa nella sua Puglia con tre medaglie al collo, un atleta la cui vicenda ci dice molto sulla forza rigeneratrice dello sport, sul suo effetto moltiplicatore quando in se stessi si scoprono talenti sconosciuti e si comprende che in vetta non ci si trova mai per caso e più che esserci conta il modo in cui ci sei arrivato.
Sono testimonianze che parlano di forza, di pazienza e di speranza e di come davvero «se riesco ad aiutare anche solo una persona a vivere meglio, con l’esempio, con le azioni, con le parole, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita» (EG 274).

 

Ottavio Vitale
«Sono Ottavio Vitale, vescovo di Lezhe in Albania, nato a Grottaglie il 5 febbraio 1959 e da 24 anni missionario in Albania. Appartengo alla Congregazione dei Padri Rogazionisti.
Il 10 giugno 1993 sono stato inviato come missionario in Albania. Ricordo la sera in cui ho preso il traghetto da Bari.
Mi sono imbarcato con non molto entusiasmo. Poiché i miei superiori avevano insistito, allora ho ceduto alla loro richiesta, ma non senza difficoltà e con poca convinzione.
Durante il tragitto da Bari a Durazzo ho conosciuto alcune suore che andavano in Albania e alcuni giovani albanesi. Fino a quel momento non avevo ancora sentito una sola parola albanese. Dell’Albania avevo ascoltato un po’ la lingua da mio padre, perché durante la seconda guerra mondiale era stato in quel Paese.
Sul traghetto ho conosciuto alcuni giovani albanesi e da loro ho sentito una parola albanese (Durim). Chiesi subito il significato, che sarebbe stato poi tutto il programma della mia esperienza missionaria in Albania. Mi risposero che “Durim” significa “Pazienza” e da quel momento ne avrei dovuta avere tanta.
Sbarcato a Durazzo mi resi subito conto di trovarmi in un Paese di 50 anni più indietro. Fui assalito dalla malinconia e la prima reazione fu quella di voltarmi indietro e risalire sul traghetto. Ma la presenza degli altri che erano con me mi ha fatto cambiare subito idea.
Lungo il tragitto guardavo in ogni direzione per rendermi conto a cosa andavo incontro. Strade dissestate che sembrava avessero subito un bombardamento; gente che lavorava nei campi; gente accovacciata ai cigli della strada senza fare nulla.
Ci fermammo per attendere gli altri e per fare una sosta. Sembrava di aver fatto chissà quanti chilometri. Mi si avvicinò un uomo di mezza età che parlava in italiano. Era già una sorpresa. Sono in molti coloro che in Albania parlano italiano e questo mi dava un po’ di coraggio.
Parlai con quell’uomo che affermava di essere musulmano e di avere 3 o 4 mogli. Queste erano nuove scoperte per me, trovarmi a che fare con persone di altre religioni. Poi mi rivolse una domanda che mi lasciò perplesso. Mi chiese: «Tu quante mogli hai?». Per me era scontato che l’essere prete comportasse la scelta del celibato, ma non aveva capito il mio stato di vita. Gli risposi che non ero sposato. Lui rimase quasi mortificato a tal punto che si rese disponibile a darmi una delle sue mogli. Gli ero diventato subito simpatico anche perché ero italiano e gli albanesi hanno una buona considerazione degli italiani. Ma arrivare al punto da darmi una delle sue mogli… questa proprio non me l’aspettavo!
Le prime settimane in Albania non sono state facili perché non ero abituato a quello stile di vita con privazioni e adattamenti. Poi ho cominciato a conoscere tanta gente e soprattutto ho iniziato a girare per le famiglie e ho familiarizzato con loro e ho conosciuto quella realtà.
Questo mi permetteva di toccare con mano la condizione di povertà con la quale sono entrato da subito in contatto. Ma nello stesso tempo ero meravigliato di come la gente fosse serena e si accontentasse di poco.
Tante esperienze mi hanno segnato, ma una in particolare. Un giorno sono uscito con uno dei nostri seminaristi per fare la visita alle famiglie e la benedizione. Arrivato davanti ad una casa mi viene incontro una vecchietta. Si getta ai miei piedi prendendomi la mano e baciandola continuamente, dicendo qualcosa che per me era incomprensibile. Chiedo al ragazzo che mi accompagnava di tradurmi cosa stesse dicendo. E lui mi risponde che quella vecchietta stava ringraziando Dio perché finalmente dopo tanti anni poteva vedere un prete e che ora poteva anche morire.
L’Albania infatti per oltre 40 anni è stata succube di uno dei regimi comunisti più duri dell’ultimo secolo, a tal punto da introdurre nel proprio ordinamento una legge che considerava l’Ateismo come religione di Stato.
Non sono mancati momenti di paura. Durante il periodo di anarchia (1997), a causa di proteste popolari che sono sfociate nel disordine assoluto, non esisteva più lo Stato e la gente era tutta armata. Un giorno, tornando a casa in macchina, mentre giravo per una strada di campagna, mi ritrovai davanti un uomo con un fucile puntato. Sembrava ubriaco. In quel momento ho avuto la percezione che per me fosse finita. Invece quell’uomo si accostò al finestrino, vide che ero un prete, si fece il segno di croce e andò via.
Un’altra volta, di sera, mi trovavo sul terrazzo di casa a recitare il rosario e andavo su e giù. Spesso in quel periodo di anarchia, tante persone sparavano in aria solo per divertimento e molti sono morti a causa di proiettili vaganti.
Un fatto simile è accaduto a me, al termine della recita del mistero del rosario, mi voltai indietro e in quel momento mi cadde davanti un proiettile. Ho ringraziato la Madonna per questa grazia. Nonostante queste “belle esperienze”, il mio pensiero di voler tornare in Italia era sempre vivo, e chiesi ai miei superiori di rientrare in Italia. Nel frattempo però la diocesi di Lezhe, dove mi trovavo, si era resa vacante e si doveva nominare un Amministratore diocesano fino a quando non sarebbe arrivato un nuovo vescovo. Il Consiglio presbiterale pensò di affidare questo incarico a me. Quindi dovetti aspettare prima di rientrare in Italia, secondo quello che era il mio desiderio. Dicevo infatti che era una situazione di emergenza che sarebbe durata poco. Intanto però passarono due anni.
Decisi di andare a Roma per parlare con il mio padre generale ed esporgli il mio problema. Mentre ero nel suo ufficio arrivò una telefonata dalla Nunziatura apostolica di Tirana che mi comunicava che il Santo Padre (Giovanni Paolo II) mi aveva nominato Amministratore apostolico di Lezhe. Era il giorno del mio compleanno. «Bel regalo!» pensai. Dovetti rimandare il programma di rientrare in Italia e dicevo a me stesso di avere “pazienza”, perché tanto sarebbe durato solo un tempo limitato.
Passarono 5 anni e nubi grigie intravedevo all’orizzonte. Capii che c’’era la possibilità che la Santa Sede nominasse me come vescovo. Allora decisi di andare a parlare con il Card. Sodano, allora segretario di Stato Vaticano. Gli dissi che desideravo non essere nominato vescovo. Lui, con molta semplicità mi disse che era importante fare la Volontà di Dio.
Dopo alcuni giorni decisi di andare a parlare col Nunzio apostolico a Tirana e chiedergli in maniera ferma e convinta di non essere nominato vescovo perché il mio desiderio era di ritornare in Italia. Mentre lo attendevo nella sala ospiti, il Nunzio arrivò dicendomi subito: «Devo darti una bella notizia. Il Santo Padre Benedetto XVI ti ha nominato vescovo di Lezhe». Sono rimasto senza parole, ma nello stesso tempo era come se tutte le paure crollassero e capissi subito che fosse importante fare la volontà di Dio. Da quel momento non ho avuto più paura né tanto meno il desiderio di tornare in Italia perché il Signore mi ha fatto capire che quello era il mio posto.
Questo non vuol dire che tutto va bene. Le sfide da affrontare da quel momento sono state tante, ma rimanendo sereno e sentendomi parte integrante di questo popolo».

 

Stefano Rossi e Barbara Baffetti, Comunità “Casa della Tenerezza” – Perugia
Stefano Rossi e Barbara Baffetti sono una delle nove coppie che compongono, insieme a don Carlo Rocchetta, la comunità stabile del Centro Familiare Casa della Tenerezza.
Sono sposati da ventidue anni. Hanno avuto in dono quattro figli; la prima Rachele, che è in cielo e che dicono sia il loro speciale angelo custode, e gli altri tre, qui in terra, Fabio di diciotto anni, Ester di sedici e Pietro Maria di dieci. Stefano lavora in banca e Barbara, dopo essersi dedicata per anni, a tempo pieno, a fare la moglie e la mamma, oggi si divide tra gli impegni familiari e la sua passione di ragazza, scrivere. Cura in particolare testi religiosi per bambini. Segue anche un progetto sull’Affettività e il Rispetto, promosso nelle scuole perugine di ogni grado.
Da quattordici anni, insieme a tutta la loro famiglia, fanno parte della comunità stabile del Centro familiare “Casa della Tenerezza”.
La Comunità è attualmente formata da don Carlo Rocchetta, dieci coppie con 33 figli e una consacrata laica. Il progetto è quello di una “famiglia di famiglie”, comunità di vita e di servizio. Ciascuna coppia o singolo è autonomo, anche economicamente, ma si impegna a contribuire alla vita e alle attività della Casa con la decima del proprio stipendio e rendendosi disponibile al servizio del Centro. La Casa ha una propria regola scritta nel “Libro di Vita” approvato in via definitiva dal Card. Bassetti. Il Centro ha come carisma specifico e programma di vita di divenire “Scuola di tenerezza” sia per coloro che lo costituiscono come comunità stabile, sia per quanti lo incontrano nel percorso della loro vita. Consapevole che «il bene della persona umana e della società è strettamente legato al bene della famiglia» (GS 48; FC 3;86) e che la stessa Chiesa è una “famiglia di famiglie”, la CdT si impegna a costituirsi come centro di spiritualità coniugale, di pastorale familiare e di riflessione cristiana, attivando opportune iniziative al servizio della famiglia, in particolare di quella ferita dalla crisi. In quest’ottica ogni coppia della Comunità segue percorsi per coppie in ogni stadio di vita: fidanzati, giovani coppie, coppie in difficoltà.
Stefano e Barbara, nello specifico, accompagnano, ormai da tredici anni, insieme a Padre Marco Vianelli (o.f.m. e Parroco di S.M. degli Angeli in Assisi), il gruppo “Berit”, percorso nato a sostegno di tutti gli sposi che vivono in condizione di separazione, divorzio e nuova unione; tale accompagnamento vuole essere umile espressione della Chiesa Madre, capace di uno sguardo inclusivo e di un’accoglienza fatta di forte tenerezza nei riguardi anche di ogni famiglia lacerata.
Da tre anni Barbara, dopo un corso di alta formazione all’Università Cattolica di Roma, è conduttrice anche dei c.d. “GRUPPI DI PAROLA”, un percorso per i figli di sposi in condizione di separazione e divorzio, nella consapevolezza che ogni bambino ha diritto a trovare uno spazio protetto in cui dare parola anche al proprio dolore e dove trovare uno sguardo di speranza sul proprio futuro.
Dal 2013, Stefano e Barbara, sono stati chiamati anche a dare il loro contributo come Responsabili dell’Ufficio di Pastorale per la Famiglia della Regione Umbria, impegno che ha permesso loro di gustare il respiro ampio della Chiesa e dello Spirito Santo, partecipando anche alla Consulta Nazionale di Pastorale Familiare.

 

Suor Alicia Vacas Moro (comboniana)
Missionaria comboniana, spagnola, medico: suor Alicia Vacas Moro attualmente presta il suo servizio accudendo le suore anziane del suo istituto, a Verona. Dopo sette anni in Egitto, dal 2008 ha trascorso un lungo periodo a Betania. Giunta in Terra santa dopo una cruenta fase di tensione tra israeliani e palestinesi, ha vissuto “il dramma di due popoli divisi” e ha accudito le popolazioni cristiane e musulmane nella Striscia di Gaza dopo l’operazione “Piombo fuso”. La religiosa ha raccontato le sofferenze che ha visto nelle popolazioni locali. «La Gaza che ho trovato era uguale alla Aleppo di oggi», tra morti, feriti, sofferenze, distruzioni. «Come suore ci siamo date il compito di tendere una mano a chiunque», indipendentemente dalla nazionalità o dalla fede religiosa, «una mano tesa al di là del muro che separa» israeliani e palestinesi. «Tante persone ci chiedevano: Ma dov’è Dio a Gaza? E io scoprivo che era nelle rovine, anche nelle mie rovine, nelle mie debolezze». Sollecitata dalle domande della moderatrice, suor Alicia ha spiegato: «Siamo lì, in quelle terre, per testimoniare la riconciliazione, la verità, la pace, non certo per schierarci con l’una o con l’altra parte. Per portare riconciliazione occorre vivere riconciliati».

 

Luca Mazzone (atleta paralimpico)
«A me piace raccontare la mia storia partendo dall’inizio, dall’incidente, non dalle medaglie di oggi». Luca Mazzone, due medaglie d’oro e una d’argento ai Giochi paralimpici di Rio, ha portato la sua esperienza di vita, di scelte, di fatiche, di nuove speranze.
«Il 5 luglio 1990 ero un giovane di 19 anni come tanti altri, con ambizioni, voglia di divertirmi. Quel giorno al mare ho fatto un tuffo e ho incidentalmente battuto la testa. Sono rimasto tetraplegico. Immobile in un letto di ospedale mi era crollato il mondo addosso. Avevo voglia di farla finita». Luca Mazzone spiega poi del sostegno e dell’amore ricevuto dalla famiglia, delle lunghe e dolorose cure riabilitative che lo porteranno a riprendere gran parte dei movimenti delle braccia e delle mani. Ora l’atleta è sposato e padre di un bambino. Nel 2000 ha partecipato per la prima volta alle Paralimpiadi come nuotatore; dopo un periodo di abbandono dello sport è passato alla hand-bike, con la quale sono giunti i recenti successi. «La famiglia, con i suoi valori, il sostegno, mi ha spinto a ripartire dopo l’incidente. La disciplina sportiva mi ha insegnato molto altro, a lasciare il divano, a non arrendermi. Bisogna avere il coraggio di alzarsi e ripartire». Mazzone torna con la memoria all’aiuto «ricevuto da una suora, quando ero in ospedale, perché mi ha fatto capire che dovevo credere in me stesso».
«La vita ora mi sta dando tanto – riconosce Mazzone –: la famiglia, la fede, lo sport. Ma anche le sconfitte hanno il loro valore, perché insegnano a misurare i propri limiti, a migliorarsi per andare avanti».