N.03
Maggio/Giugno 2017

Accompagnare dentro il Mistero

Penso sia necessaria una precisazione nell’affrontare il nostro discorso. Che cosa intendiamo con il termine mistero? Lasciamo pure da parte l’accezione più semplicistica, che fa corrispondere il mistero ad una realtà incomprensibile. A questo proposito rimane valida l’affermazione che il mistero non immerge nelle tenebre, casomai acceca per troppa luce. C’è peraltro da scontare, quando ci si confronta con questa realtà, tutto un mondo di riferimenti assai presenti nella mentalità contemporanea. Si tratta dell’ambito dell’esoterico, intrigante per certi aspetti e veicolato da libri e film, canzoni e fumetti, videogiochi e… tatuaggi sul corpo!
Quasi fisiologicamente, l’aura misterica attinge e stravolge contenuti, simboli e riti delle religioni, in un sincretismo à la page poco impegnativo e facilmente fruibile. Ciò non significa che, soggettivamente, anche questi approcci non possano e debbano essere suscettibili di un discernimento pastorale, volto a cogliere ed accogliere una sete di spiritualità nonostante tutto presente in questo nostro tempo.

1. Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero
Nel vocabolario paolino il riferimento al mistero è ricorrente, sta anzi al cuore dell’esperienza unica vissuta da Paolo stesso. Non è tra coloro che hanno sperimentato la sequela del Gesù storico, eppure si annovera con grande consapevolezza tra gli apostoli. Per grazia gli è stato rivelato ciò che era «nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato» (Col 1,26): il piano di salvezza culminato in Cristo e nella sua pasqua di morte e di risurrezione. Si tratta di un mistero che si realizza nella storia, sia collettiva che personale, con modalità percepite dall’occhio interiore, quello della fede. È vero, nella vicenda di Gesù di Nazaret è avvenuto un disvelarsi non più riservato agli eletti, ma per percepirlo è necessaria l’azione dello Spirito, che soffia dove vuole e non è proprietà esclusiva, altrimenti si rimane in una dimensione di esteriorità impermeabile al dono.
Non solo quindi per Paolo, ma per ogni cristiano il mistero si salda indissolubilmente con Gesù Cristo, con le sue parole e con i suoi gesti, con la sua persona prima ancora che con il suo vangelo.
Gli amici di Gesù, che pure erano a conoscenza della sua provenienza, della sua famiglia, dei suoi parenti, vengono provocati ad andare oltre. «La gente, chi dice che io sia?» (Mc 8,27), domanda loro, dopo che i suoi compaesani ne erano stati scandalizzati: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?» (Mc 6,3). Non basta tuttavia l’opinione altrui, è necessario che si compromettano di fronte a Lui: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29). Con fatica, da uomini di poca fede, stanno intravedendo che in quel Maestro che li affascina è davvero racchiuso un mistero, che li interroga e li spiazza. Come per loro, anche per noi oggi accompagnare dentro il mistero è anzitutto introdurre alla vicenda di Gesù, affinché avvenga quanto provato dai discepoli di Emmaus: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31). Sembra ovvio, ma vale la pena di ricordarlo: iniziare al mistero della fede cristiana è iniziare a Cristo, non ad esperienze più o meno capaci di scuotere emozioni e sentimenti (che pure sono coinvolti nella sequela di Gesù). Si tratta di un cammino mai del tutto compiuto, dal momento che il mistero di Cristo ha misure incommensurabili, come viene indicato nell’augurio paolino: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e di conoscere l’amore di Cristo» (Ef 3,17-19).
Abbracciare il mistero somiglia al gesto del bambino, che spalanca le braccia a più non posso, quando gli si chiede quanto ami mamma e papà. Con Salomone dobbiamo riconoscere: «Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti» (1Re 8,27); e tuttavia il mistero stesso «si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14).

2. Dal mistero del Cristo al mistero del Regno
Dai Vangeli appare che, a far intuire ai discepoli di trovarsi dinanzi a qualcuno che era più del falegname di Nazaret, sono state appunto le sue parole e i suoi gesti. È sempre Gesù a renderli attenti a quanto propone loro: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio» (Mc 4,11). Le parabole, così sconcertanti nella logica che propongono, scaturiscono dalla capacità di Cristo di far parlare le cose al di là della loro immediata e scontata materialità. Leonardo Boff, in un librettino di qualche anno fa, introduce la sua riflessione sui sacramenti proprio in questo modo: «Quando le cose cominciano a parlare… Semi e piante, uccelli del cielo e gigli del campo, lievito e farina, grano e zizzania, lampade e monete, greggi e armenti: tutto, nella parola di Gesù, si fa trasparenza di mistero capace di indirizzare verso la prossimità di Dio alla vita e alla storia nel suo volto di Abbà, Padre suo e Padre nostro». Se non fosse una citazione più che abusata, si potrebbe dire che attraverso la percezione del mondo comunicata loro dal Maestro, ai discepoli avviene quanto la volpe consegna al piccolo Principe come segreto dell’esistenza: «Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi». È l’itinerario che fa fare soprattutto il Vangelo di Giovanni, nel quale il passaggio dai segni al Segno è scandito dai differenti modi di percepire la realtà: dal guardare esteriore al vedere interiore, dagli occhi che credono di vedere e non scorgono il mistero, agli occhi della fede aperti nel discepolo amato (che siamo ciascuno di noi): «E vide e credette» (Gv 20,8).
Siamo accompagnati dentro il mistero, nel quale il vino allude al rischio dell’amore, l’acqua svela l’autentica sete, il pane fa emergere la fame profonda, la cecità invoca la luce interiore e nel cuore della tomba riempita dalla puzza di morte irrompe il profumo della vita. Il risultato capovolge l’espressione proverbiale: non “vedere per credere”, bensì “credere per vedere”. Sono sempre rimasto colpito dai ritratti del pittore Modigliani, che dipinge volti nei quali gli occhi sono senza pupille: occhi vuoti? La bellezza di quelle tele mi faceva pensare che non poteva essere così, finché nei commenti di una mostra non sono stato anch’io accompagnato dentro il mistero: Modigliani dipinge l’occhio interiore dei suoi personaggi. Occhi che non si mostrano fuori, ma si spalancano dentro; l’arte lo sa fare… e le nostre proposte di fede?

3. L’uomo nascosto del cuore
Una suggestiva indicazione per questo percorso mistagogico, cioè di progressiva e sempre più incisiva immersione nel mistero (che è Gesù Cristo), ci viene dalla lettera di Pietro. L’autore sta facendo le raccomandazioni alle donne e, dobbiamo riconoscerlo, lo fa secondo stereotipi tipici del paternalismo maschilista di tanti uomini di chiesa: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti» (1Pt 3,3). Indicazioni datate, a dire il vero, visto che ai giorni nostri i maschi non sono da meno nella ricerca di ornamenti esteriori! Ma ecco che, nel bel mezzo di esortazioni in certo senso moralistiche, viene proposto – non solo alle donne, naturalmente – di perseguire un traguardo tanto impegnativo, quanto significativo. In una traduzione letterale dal greco, il testo dice di non cercare “l’esterno”, bensì «l’uomo nascosto del cuore» (1Pt 3,4). Precisiamo che si tratta del cuore inteso in senso biblico, non nella modalità nostra di farlo coincidere unicamente con la dimensione affettiva e sentimentale; se per noi, infatti, cuore fa rima con amore, nel mondo biblico fa rima anche con intelligenza e volontà. Dire cuore significa indicare il nucleo più profondo e segreto di ogni donna e uomo, che solo Dio scruta fino in fondo: «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri» (Sal 139,23). È nel cuore che trova eco il mistero stesso di Dio, a immagine del quale è stato plasmato il mistero dell’essere umano.
Al cuore, inteso come interiorità, è rivolto anche uno degli ultimi appelli di Giuseppe Dossetti. Riflettendo sulla situazione italiana, paragonata alla notte in cui la sentinella veglia chiedendosi quanto resta ancora, così invitava: «La partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore». Un altro modo per ribadire la ricerca dell’uomo nascosto del cuore, addirittura come scelta politica da confermare, quando la situazione si fa più cupa e la tentazione è di mancare di speranza. Far venire alla luce l’uomo nascosto del cuore, in Cristo nuovo Adamo, è pertanto la sfida grande e bella dell’esperienza cristiana; Gesù lo dice a Nicodemo, che nella notte sta cercando di vederci chiaro: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). È un alto che corrisponde al profondo, infatti Nicodemo vedrà il mistero sprofondandosi nell’abisso dell’amore, quando accoglierà tra le braccia il Crocifisso deposto dalla croce.
L’impresa mistagogica, nella quale è ingaggiata l’intera comunità cristiana, coincide di fatto con l’accompagnamento vocazionale.
Che significa, infatti, camminare con un ragazzo o un giovane interrogandosi e interrogandolo sulla chiamata, che può fare venire alla luce in pienezza (dentro e non oltre i propri limiti)? Significa permettere all’uomo nascosto, quello del cuore, di emergere e dare forma all’esistenza in tutte le sue dimensioni. Il percorso mistagogico si innesta nell’antropologia vocazionale biblicamente intesa: diventa ciò che sei! Il dono si trasforma in compito, nell’orizzonte del mistero nascosto, che si fa manifesto mediante scelte di vita pensate e attuate, pregate e agite, decise e verificate. E se la crisi vocazionale, in cui ci si dibatte, fosse mancanza di cammini di mistagogia attivati dalle e nelle comunità cristiane? Spero che più nessuno, parlando di pastorale vocazionale, abbia in mente strategie di reclutamento; quanto piuttosto un’arte maieutica, che mette a contatto con le provocazioni della vita e della storia al fine di far venire alla luce il mistero di ciascuno divenuto dono per tutti.

4. La densità dell’umano
In questa prospettiva antropologica, che evidenzia la corrispondenza tra mistero di Dio e mistero dell’essere umano, l’accompagnamento mistagogico richiede una sapienza capace di valorizzare lo spessore di umanità di cui è intessuta l’esistenza, là dove non sia appiattita sulla superficie. Alcuni versi del poeta Kavafis mettono in guardia da quanto può stravolgere la vita: «Non sciuparla con troppe parole e in un viavai frenetico / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri / e degli inviti / fino a farne una stucchevole estranea». Il rischio più grande è quello di venire espropriati dell’umanità, rassegnandoci ad essere donne e uomini ad un’unica dimensione. Prima di arrivare troppo velocemente a discorsi spirituali, troppe volte spiritualistici, dovremmo probabilmente interrogarci sulla capacità di custodire e incrementare la stoffa umana a partire dalla quale è possibile confezionare un’esistenza significativa (agli occhi nostri come a quelli di Dio). C’è troppa povertà di orizzonti, di proposte, di esperienze volte e far fiorire l’umano al di là delle sfere più concrete, pur necessarie per vivere. Come diventare e rimanere sensibili al mistero, che è anzitutto mistero dell’esistenza resa bella e buona, oltre ciò che è strettamente necessario secondo un mero criterio di utilità immediata?
Usando uno slogan del sessantotto, che non per niente teorizzava l’immaginazione al potere, si potrebbe dire che accompagnare dentro il mistero è garantire sì che ci sia pane per tutti, ma insieme al pane che non manchino le rose. Il pane e le rose: accostamento non frivolo, bensì vitale per un umano che non voglia diventare, inevitabilmente e un po’ alla volta, sub-umano mentre è chiamato ad essere sovra-umano (siamo o non siamo capax Dei, come dicevano gli antichi?). Può aprirsi al mistero chi non ha animo di poeta e di artista, chi non sa stupirsi e contemplare, chi ritiene tempo sprecato guardare un tramonto, ascoltare una musica, intenerirsi per una parola o un gesto? E può condurre dentro il mistero una comunità insensibile al bello e al gratuito, attenta solo alle formalità, resa sportello per servizi religiosi anonimi? Un piccolo esempio: che mistagogia si può vivere in certi ambienti parrocchiali sciatti e inospitali, riempiti di brutture, dove manca ogni colore e ogni sapore?
Ciò non significa che al mistero della fede si arrivi curando… l’estetica, quasi a confondere la percezione della trascendenza con il gusto estetizzante, che solletica epidermicamente i sensi. E tuttavia la via pulchritudinis passa anche – perché no? – attraverso le stanze della parrocchia.
In questa impresa di ridare spessore significativo all’umano, va riconsiderata l’esperienza della domenica e l’impoverimento al quale siamo soggetti quando non siamo più capaci di viverla. C’è un aspetto familiare, sociale, politico ed economico della questione, che non mi dilungo a ricordare: il lavoro obbligato, i turni che impediscono le relazioni familiari, il primato dei soldi e del consumo.
Alcune realtà simbolicamente dense non ci sono più: il vestito della festa, il rito «che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore» (ancora la volpe al piccolo Principe), il pranzo con il cibo tipico della domenica… Non ci si può tuttavia rassegnare allo svuotamento del giorno del Signore, come lo chiamano i cristiani; ad indicare non un giorno che noi dedichiamo a Lui, ma un giorno che Egli ci regala ogni settimana, nel ritmo del tempo, affinché ritroviamo la densità di ciò che ci fa donne e uomini in relazione. Un cammino mistagogico, che si fa carico di ridare fiato all’umano, può e deve giocare la carta della domenica come esperienza settimanale di apertura al mistero: di noi stessi, degli altri, della natura, di Dio. Alcune parrocchie tentano di far vivere alle persone e alle famiglie, in modo intergenerazionale, le domeniche esemplari; per reimparare a guardarsi negli occhi, a dialogare, a contemplare la natura, a nutrire l’interiorità con una buona lettura, l’ascolto di una musica, l’esperienza del silenzio, lo spazio alla preghiera. Non solo quindi l’andare a messa, per chi ancora ci va, riducendo tutta la pastorale della domenica a garantire messe celebrate in ogni luogo e ad ogni ora.

5. Il mistero della Parola
Nel cammino dei catecumeni la celebrazione dei sacramenti è preceduta da un tempo significativo di ascolto della Parola di Dio.
Come dice il nome (dal verbo greco katèco) è necessario che la Parola faccia eco profonda nella loro vita, per aprirli all’accoglienza del mistero della Pasqua di Cristo impresso nei corpi battezzati, cresimati, invitati alla mensa eucaristica. Anche se, in senso preciso, la mistagogia segue la celebrazione sacramentale, l’iniziazione alla Parola di Dio è già accompagnamento dentro il mistero: «Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45).
Dal punto di vista umano siamo introdotti, fin dal grembo materno, al mistero della parola che fa di noi degli esseri in relazione.
Se non avessimo le parole per dirla, la vita rimarrebbe muta di senso; ed è proprio nel dare parole ai vissuti, che essi divengono esperienze significative per l’esistenza. L’impoverimento del vocabolario, che vede troppi usare poche parole, incapaci quindi di esprimere la ricchezza della vita, non è solo questione che riguarda l’acculturazione. Mancando di parole, non elaboriamo ciò che ci avviene; il mistero dell’esistenza si riduce a poco a poco, perde la sua densità, diventa realtà che ci scivola addosso senza lasciare traccia. Se a questo si aggiunge che lo scambio di parola è assai spesso banale, ripetitivo, superficiale, allora davvero c’è l’urgenza di accompagnare in un cammino mistagogico che ridoni spessore alle parole. Lo si coglie soprattutto a livello giovanile, dove da tempo si è segnalata da parte di molti una sorta di afasia, in particolare in riferimento ai vissuti emotivi; non detti, finiscono per esplodere o implodere, con conseguenze talvolta addirittura drammatiche. Ma, appunto, chi fornisce ad esempio ad un adolescente dei giorni nostri un vocabolario del cuore, che gli permetta di districarsi nel guazzabuglio che sente dentro (così dice il Manzoni del cuore umano)? Talvolta gli adulti, che dovrebbero farlo, sono essi stessi disorientati, dal momento che le parole consuete con le quali si era soliti dire le cose della vita sono state messe in crisi e si rivelano inadeguate.
Ci è stato fatto il dono della Parola di Dio, a partire dalle Scritture, proprio per poter dire la nostra esistenza. Infatti, come osserva l’ebreo Heschel, la Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio; non siamo noi infatti a dire chi sia Dio (con il rischio continuo di proiezione), ma è Dio a dirci chi siamo e quindi a donarci il mistero della sua Parola per vivere, esprimere e condividere la nostra umanità. Basta aprire le Scritture, per accorgersi che là dentro c’è tutto e niente viene censurato; quindi davvero ci sono date parole per ogni esperienza, non ultime le esperienze drammatiche, negative, fallimentari. Come mai, se attingo la preghiera ai salmi biblici, trovo espressi non solo sentimenti nobili, positivi, edificanti, ma m’imbatto in espressioni che una certa educazione religiosa mi imporrebbe di censurare, quando sono di fronte a Dio?
Perché nella relazione con Lui è importante dire anche il sentimento negativo, elaborarlo nella preghiera e quindi gestirlo diversamente. Accompagnare dentro il mistero significa pertanto, tra le altre cose, iniziare ad una preghiera maggiormente biblica. Non mi sembra sia sempre così nelle parrocchie, nei gruppi di catechesi, nelle proposte di spiritualità, ma credo invece che ci siano ancora modalità di preghiera devozionali, anacronistiche, sentimentali, a rischio quindi di inconsistenza. Come è possibile un serio discernimento vocazionale se non si viene introdotti alla densità misterica della Parola, che permette da una parte di sentirsi interpellati e dall’altra di rispondere in autenticità e verità?

6. Celebrare il mistero
L’espressione più piena del celebrare cristiano avviene nei sacramenti. Il termine è latino e traduce (a dire il vero problematicamente, per il rimando al sacro che la parola comporta) il greco mistero; i sacramenti infatti vengono chiamati dai Padri “misteri”, rinviando chiaramente al mistero paolino, cioè al disegno di salvezza che – come detto – ha il suo culmine nella Pasqua di Gesù Cristo.
Vivere la dimensione sacramentale non significa pertanto entrare nella sfera del sacro, separata dal profano, ma essere immersi in una storia di salvezza.
L’accompagnamento mistagogico non può non avere il suo banco di prova nella sfida odierna di una realtà sacramentale, da una parte ancora richiesta per tradizione o peggio convenzione, dall’altra non più sentita come importante e progressivamente abbandonata.
C’è quindi un interrogativo da porre, sia che si parta dalla richiesta sacramentale, sia che si ci confronti con l’abbandono della pratica dei sacramenti; interrogativo, sia ben chiaro, che riguarda la comunità cristiana, non solamente le persone che ad essa approdano.
L’esperienza del celebrare dice che ci si immerge nel mistero della fede attraverso il “bagno liturgico” (secondo un’espressione usata in ambito francese) a conferma del fatto che si accede al mistero non primariamente per via intellettuale, bensì corporea. «La carne è il cardine della salvezza. Infatti se l’anima diventa tutta di Dio è la carne che glielo rende possibile! La carne viene battezzata, perché l’anima sia mondata; la carne viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne viene segnata dalla croce, perché l’anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e sangue di Cristo, perché l’anima si sazi di Dio» (Tertulliano). La bellezza della dimensione sacramentale dell’esistenza cristiana sta appunto nel suo inscriversi nei corpi dei singoli, fino a trasformarli insieme nell’unico Corpo di Cristo. Ciò che è più spirituale si comunica a noi in quanto è più corporeo, in sintonia con la rivelazione massima del mistero di Dio al mondo e alla storia: «E il Verbo di fece carne» (Gv 1,14). In questa chiave comprendiamo che accompagnare dentro il mistero liturgico non significa acconsentire alla deriva sacralizzante, che fa coincidere il misterico con il misterioso e la trascendenza con la separatezza, per cui abbiamo bisogno di lingue antiche, paramenti preziosi, cerimonie ieratiche. Certo, rimane valido quanto viene detto a Mosè nella visione del roveto ardente: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo!» (Es 3,5); ma si tratta appunto di togliere, non di aggiungere.
Oggi più che mai ci si apre al mistero là dove si sperimentano sobrietà e spoliazione, essenzialità e condivisione, semplicità e trasparenza nei segni, nelle parole, nei gesti. Caricare l’esperienza liturgica in modo indebito fa inoltre dimenticare la tensione escatologica, che anima l’esperienza del mistero dentro la storia: introdotti e accompagnati in esso, ma non immersi in totalità e pienezza. Siamo tra il già e il non ancora, va pertanto custodita quella ulteriorità verso la quale siamo protesi, in attesa della sua venuta. «Soltanto la sobrietà di un po’ di pane e di vino, e non la realtà di un sontuoso banchetto, è adeguata a simboleggiare l’intervallo, gioioso e doloroso a un tempo, in cui si trova il mondo» (L.-M. Chauvet). Forse anche in questo senso va colto il richiamo di Papa Francesco alla chiesa povera, cioè più libera di accogliere, condividere e condurre dentro il mistero dell’Amore.

7. Mistagogia e carità
Quest’ultima sottolineatura ci permette di evidenziare una prospettiva che rischia di rimanere in ombra. Quando infatti parliamo di accoglienza, di solidarietà, di condivisione, pensiamo a qualcosa che è conseguente l’esperienza cristiana. Incontriamo Cristo nella sua Chiesa, ascoltiamo il suo Vangelo e celebriamo la sua Pasqua, poi per essere coerenti ci impegniamo nella carità. Entrare sempre più nel mistero non significa forse incontrarlo nel povero, come ci ha detto Gesù stesso? «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Potremmo in certo senso dire che ci sono una mistagogia liturgica e una esistenziale e sono due facce di un’unica medaglia.
Ciò comporta una più precisa lettura di fede delle prassi caritative attivate nelle nostre comunità, non per mettere un’etichetta cristiana alla carità, ma per cogliere fino in fondo il dono che ci è fatto ogni volta che condividiamo con il povero; il povero stesso ci fa dono del mistero di Cristo e la prassi solidale ci introduce sempre più a gustarne «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità». Accanto alla carità politica c’è infatti una carità dossologica da vivere.
La carità politica è quella che si fa carico di analizzare le situazioni, di individuare le cause, di programmare gli interventi. Ci vuole, va condotta con intelligenza, permette di responsabilizzare i singoli e le strutture e di non perpetuare realtà di dipendenza. Tuttavia rimane aperta, in particolare per i credenti, ma non solo, la strada della carità dossologica: che dà lode al mistero dell’amore, in libertà e gratuità, senza calcoli da fare o fini da raggiungere. Credo che la mistagogia abbia qui un campo vasto e significativo, nella misura in cui facciamo e facciamo fare esperienza di incontri con volti e storie di persone non trattate come casi da risolvere; alla ricerca quindi non di soluzioni, bensì di condivisioni di concreta umanità nella sua fragilità e nudità. Là dove ci scopriamo fragili e nudi, insieme ai poveri di ogni tipo, avviene per grazia un’intuizione unica e singolare del mistero stesso dell’amore di Dio: una mistagogia esigente e liberante.