N.03
Maggio/ Giugno 2018

La pazienza dell’interpretare

La pazienza è custodia del passo che basta ed ha il sapore profondo della maternità che fa venire fuori la vita, la fa dischiudere. La vita per essere vita, infatti, ha bisogno della presenza di un altro che, custodendola, la porti alla luce del mondo. L’altro deve avere i tratti della madre che ha la capacità di rispondere al grido, di accogliere la vita inerme, di soccorrere (M. Recalcati). Bisogna divenire questo altro, questa madre, per sé e per gli altri ed è possibile se si compie un lavoro di formazione per definire in noi uno stile fatto di quell’ascolto e di quella cura che mettono in ginocchio davanti al miracolo della generazione, davanti al mistero della nascita e crescita dell’uomo, cuore profondo e vero dell’esistenza, spazio più vicino alla trascendenza. Lì è necessaria l’empatia delle mani nude, che sono il primo volto della maternità, e sguardi e parole che sappiano salvare, donando senso, donando il diritto di esistere e di esistere in un mondo che abbia senso. Perché la nostra comprensione è spesso confusa, la nostra intelligenza è fragile, la nostra luce non ci basta. Le cose attorno a noi non sono chiare, la storia e i sentieri del futuro per nulla evidenti. E’ necessario che diveniamo mendicanti di luce, per portare in dono il significato.

Ci si incanta quando abbiamo la fortuna di incontrare una persona che consegna non parole spente o per sentito dire, ma parole autorevoli, nuove, accese. Parole che trasmettono la sapienza del vivere, una sapienza sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla paura. Parole che sanno toccare il centro del cuore, perché sorgono dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dal generoso offrirsi. Sono gli incontri che fanno nascere perché aprono il nuovo e al nuovo.

Sono gli incontri con i maestri. E’ importante scegliere bene con chi fare la nostra strada: bisogna cercare compagni di cammino che non mettono lacci, non mettono paletti, ma che danno ali e che insegnano a volare. “Da chi imparare? Da chi ci aiuta a crescere in sapienza e grazia, cioè nella capacità di stupore infinito”. (E. Ronchi). Vogliamo imparare da chi ci guarda dandoci significazione, da chi ci dà quel senso del nostro valore che poi possiamo trasmettere al mondo che abitiamo e incontriamo.

Un maestro, nella pazienza dell’interpretazione, sa cogliere il nostro desiderio, non considerandolo generico o universale o anonimo, ma lo scopre singolare ed unico, legato alla irripetibilità che ci caratterizza come persone insostituibili.

Questo maestro ha parole di vita, parole che vengono dal silenzio, parole che ha pronunciato anzitutto a se stesso e che riconsegna anzitutto con la vita.

SILENZIO: ABITARE LA DISTANZA E LA DURATA

“Dopo aver camminato a lungo per le vie, in mezzo alla gente, alle cose e ai segnali, ho voglia di isolarmi dal rumore: cerco un luogo tranquillo… per smettere di sentire, cominciare ad ascoltare. Questa condizione di silenzio e di solitudine mi permette di ritrovare una percezione di me e del mondo che mi sta attorno, precisamente un ascolto. Il silenzio che mi sono procurato, mi permette di ascoltare. Ma è piuttosto un pensare, un ascolto pensante. Come se prima fosse stato l’esterno a riempire la mia esperienza e, invece, adesso, esterno e interno agissero in me corrispondendosi. E forse è proprio questo gioco, grazie al quale interno ed esterno passano l’uno nell’altro senza appiattirsi o riassorbirsi l’uno nell’altro, che mi fa sentire e pensare assieme.

Mi accorgo che, in questo rilassarmi, ho lasciato essere una dimensione di apertura della mia esperienza che di solito è messa a tacere” (A. Rovatti).

Scegliere di fermarsi e di custodire il silenzio per entrare nel cammino che è ascolto di sé, dell’altro, di Dio che parla attraverso la sua parola e attraverso la vita, è la prima condizione che sostiene il desiderio di un’autentica costruzione di sé. E’ la strada per vivere e per non essere vissuti e agiti da altri o da altro. Ma il silenzio non è facile. E’ una conquista che viene da un lungo esercizio che ci mette in ascolto del vero che siamo, dei desideri e delle nostre ferite, dei sogni e delle nostre paure.

In questo cammino di silenzio e di ascolto, si impara a fare spazio alla distanza, accogliendo la fragilità e la vulnerabilità. Il Dilemma dei Porcospini è una metafora che descrive la complessità e il valore della distanza, la difficoltà a trovare una “giusta distanza”, la necessità di costruire, con una modulazione attenta l’equilibrio che fa star bene.

“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche… il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione” (A. Schopenhauer).

Quando la nostra distanza è accolta, si accoglie anche la distanza che fa l’altro altro da me, e l’etica dell’ospitalità diviene un abito che rende capaci di amore e di comunione, che modella e dà forma.

E’ negato questo cammino a coloro che sono costantemente immersi nel frastornante chiacchiericcio; è escluso da questi passi chi abita rinserrato nella propria casa senza il richiamo del fuori; non comprende chi è travolto in un nomadismo senza possibilità di rimpatrio. Stiamo vivendo in un’epoca in cui domina la velocità di comunicazione, dove si sostituisce l’interesse particolare con un interesse superficiale che rende, in fondo, tutto, comprese le persone, sempre interscambiabili. I ritmi di vita sono frenetici e si sente di non avere più tempo: bisogna correre sempre più veloci se non si vuole rischiare di rimanere irrimediabilmente indietro. L’esperienza è spesso drammatica: non si ha più un luogo da abitare, in cui trovarsi al sicuro, in cui dimorare, riposare e guardarsi. L’imperativo del lavoro e del fare, l’ipercinesia della vita quotidiana, tolgono ogni dimensione contemplativa al vivere umano e così lo disumanizzano rendendolo agitato, senza direzione, ansioso, affannato, stressato. Il multitasking è una cifra di questo modello temporale sottomesso all’imperativo dell’attività ad ogni costo. E il costo è alto: è la perdita dell’uomo che siamo nell’omologazione e nella spersonalizzazione.

Siamo disorientati. Per orientarsi occorre fermarsi, scrutare l’orizzonte, guardarsi intorno: occorre tempo e quiete. Occorre la durata del tempo, la sua distensione, la non fretta per godere della contemplazione come spazio del pensiero, della riflessione, dell’attesa e dell’ospitalità.

L’etica dell’ospitalità di me e dell’altro è un’etica della distanza e della durata: una specie di esilio da casa propria, perché questa divenga finalmente una casa abitata. E’ l’etica che dà all’uomo di divenire uomo. Perché non siamo, naturalmente, umani e umanizzati, così come non siamo, naturalmente, liberi. L’umanità e la libertà sono conquiste per cui si lotta e doni alla cui accoglienza occorre aprirsi. E’ una ricerca che passa dall’imparare a considerarci ospiti dell’umano che è in noi. Ospiti e mai padroni.

Impareremo ad aver cura dell’umano che è in noi e a essere solleciti verso l’umano che è nell’altro, se prendiamo coscienza che è l’umano il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio, se finalmente scopriamo che divenire umani è per il cristiano l’opera della fede che chiede obbedienza alla parola del Dio creatore che ha detto: “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26). Anche noi siamo coinvolti in quel “facciamo”! Chiamati a collaborare con Dio affinché cresca quell’umanità che è il vero riflesso della luce divina nel mondo, è il luogo di Dio nel mondo.

INTERPRETARE: LASCIAR ESSERE LE PAROLE

Educati come siamo alla cultura dell’applauso, spesso non sappiamo neppure dove sta di casa la cultura dell’ascolto. Distribuiamo consigli a priori, ma, mezzora di tempo, per ascoltare il silenzio di chi ci sta accanto non la troviamo mai; non garantiamo il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione ad ascoltare la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra.

E’ difficile ascoltare, quando ascoltare indica l’atto di aprirsi e accogliere la vita dell’altro, il suo sogno, ma anche la sua inquietudine, il suo smarrimento, la sua sofferenza.

La maggior parte degli orecchi si chiude alle parole che cercano di dire una sofferenza. S’innalzano barriere per evitare che la sofferenza passi da chi la vive e la esprime a chi la ascolta. Eppure, senza questa cultura dell’ascolto del dolore e della ricerca dell’altro noi lo condanniamo alla solitudine e all’isolamento mortale e precludiamo anche a noi la possibilità di una consolazione e di una comunicazione. “Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro, là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c’è il silenzio, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia la vita, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel volto, spesso tace per non confondersi con tutte le altre parole” (U. Galimberti).

La domanda che ci interpella è se veramente sappiamo dare tempo, attenzione ed energie all’ascolto dell’altro così come viene a noi? Ma un altro interrogativo si affaccia inevitabilmente: sappiamo ascoltare la profonda esigenza di senso che è in noi? E’ la premessa indispensabile per porci sempre più attentamente in ascolto dell’altro.

Ascoltare significa dare la parola, dare tempo e spazio all’altro, accoglierlo anche in ciò che egli rifiuta di sé, dargli diritto di essere chi lui è e di sentire ciò che sente e fornirgli la possibilità di esprimerlo. Ascoltare è un atto che umanizza l’uomo che ascolta e che suscita l’umanità di chi è ascoltato. Ascoltare è far nascere, dare soggettività, permettere all’uomo di realizzare la propria umanità, il proprio nome e il proprio volto.

Ascoltare è guardare il volto che è l’emergenza dell’identità, è epifania dell’umanità di ciascuno, della sua unicità: “Questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità: La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia: nel volto c’è una povertà essenziale… Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere” (Emmanuel Lévinas).

Ascoltare è guardare il volto. Guardare il volto è ascoltare tutta la vita ed è ridonare alla vita umanità. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci permette di riflettere sullo sguardo che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose. “Mumintroll gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello, i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l’anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: ‘Ma tu sei il mio Mumintrol’. E in quel momento, accade un piccolo miracolo: il mostro, l’estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima”.

Lo sguardo ascolta i segni, capta gli stati d’animo, intuisce, senza lasciarsi tormentare dai propri schemi di attribuzione di significato. Non impone una direttiva, ma pone l’altro nella condizione di esplorarsi, gli fa sperimentare accoglienza, vicinanza, supporto, cioè uno spazio in cui le possibilità e le risorse hanno l’occasione per essere esplorate e attivate.

Ascolto e sguardo camminano insieme e sono il luogo in cui l’altro può conoscersi, interpretarsi e modellare il suo futuro.

ESPLORARE: VARCARE LA SOGLIA

Da questo nodo tra sguardo e ascolto, nasce la parola.  Ricorda Lévinas: “Parlare e ascoltare sono una sola cosa, non si alternano”. Questa parola, che è al contempo ascolto, e dunque silenzio per lasciare spazio all’altro, è la parola comunicativa, che edifica relazioni, che costruisce confronti da cui partono quelle chiarezze che generano decisioni e scelte.

Non è facile vivere l’arte del parlare. Comunicare è sempre un rischio. Si pronunciano parole a partire da un retroterra, in qualche modo parliamo sempre di noi, di quel che siamo, di quello che siamo diventati. Non può essere che così. Proprio quel che siamo e che abbiamo elaborato, custodito, sofferto, arricchito con la nostra storia diviene luogo in cui l’altro ha la possibilità di stare in un clima di mitezza e di fiducia, nella calma, con pazienza, un luogo dove è spontaneo affidarsi. Lì, l’altro diviene capace di parola, di domanda, di ricerca, di promessa, di scelta. Diviene capace di essere protagonista del suo esistere.

Non ci sono risposte pronte a chi sta costruendo la sua storia: Gesù, anche in questo, è un maestro splendido. Alle domande risponde chiedendo ulteriori ricerche: “Vieni e vedi”. Hai trovato. Ora vieni oltre; varca la soglia; esplora.

Gesù vive l’incontro nell’arte della contro-domanda come atto di amore, generativo. Domandando, Gesù si mette in condizione di stabilire un rapporto profondo con l’altro: gli dà la parola e suscita la responsabilità della sua parola, facendolo andare più in là, facendogli percorrere il viaggio verso la propria umanità. Le contro-domande di Gesù aprono squarci su di sé, fanno andare al fondo delle ragioni della ricerca, offrono chiarezza e verità.

Non ci sono risposte che danno certezze o affermazioni perentorie, ma c’è un’accoglienza che apre, che discerne, cioè separa per meglio conoscere, perché si veda di più e si comprenda a pieno. E’ un trovare il filo per tessere ogni particolare con attenzione, pazienza, nel tempo e nella cura.

Viviamo inevitabilmente alla ricerca di qualcosa che ci manca, perché siamo incompleti. È questa mancanza che ci fa muovere, che ci fa domandare e che ci insegna ad interpretare. Le cose non sono mai del tutto nitide e cerchiamo continuamente di trovare una risposta. Siamo persone proprio per il desiderio che ci abita. “Viviamo di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti” (Sant’Agostino).

Quel che genera domande e discernimento è il desiderio inteso come apertura verso l’Altrove. Senza l’apertura che dona questo desiderare, senza la potenza della sua invocazione dell’Altrove, la vita appassisce, si mortifica, si spegne, cessa di essere vita umana, s’inchioda sterilmente al puro esistente. Questo desiderio è preghiera che fa risorgere sempre la necessità dell’apertura, della circolazione dell’ossigeno, dell’invocazione dell’aperto e dell’alto. Il desiderante alza lo sguardo alla stella; la dimensione siderale che il desiderio porta con sé, nel suo stesso etimo, implica un movimento: l’apertura su di un possibile al di là, sull’altrove. Questa apertura è il rapporto con l’infinito, è preghiera, invocazione, vocazione, promessa.

Questo itinerario verso il dentro e verso l’alto è accompagnato dallo stupore.

Colui che cerca e domanda viene sorpreso, sbalordisce, è colpito. La radice antica del verbo richiama proprio il ricevere un colpo da quel che si scopre, da quel che si vede, dalla parola ascoltata o pronunciata, dall’idea delineata. La capacità di stupirsi, allora, è capacità di lasciarsi colpire e di lasciarsi raggiungere e richiede di essere disarmati, spogliati dalle corazze protettive. I bambini hanno molto da insegnarci, perciò Gesù dice che il regno appartiene a chi diventa come i bambini, con quella capacità di accogliere e stupirsi che, nell’adulto, rende aperti alla novità di Dio.

Giovanni Pascoli consegna il senso della vita proprio a chi si fa custode della capacità primordiale di meravigliarsi del fanciullino che ci vive dentro. E’ la custodia della nostra verginità! “Il Fanciullino è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza e consola. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, che ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccale la selce che riluce. E, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente”.

Lo stupore è in chi è colpito e interrogato dal quotidiano, dal gusto delle cose, da tutto ciò che lo circonda e gli accade. “Stupirsi è la capacità di vedere il mondo come per la prima volta. Lo stupore ci sorprende. Esso si sottrae e ci sottrae alla tirannia del controllo. È un momento di verginità, di innocenza, di integrità” (L. Manicardi). Lo stupore è la gioia di rendersi conto che si è al mondo e che al mondo si nasce ogni giorno. “La commossa meraviglia è la parte migliore dell’umanità: l’uomo quando è stupito e commosso sente profondamente ciò che è infinito” (Johann von Goethe).  L’opposto dello stupore è la stupidità, è la distrazione, il dare tutto per scontato, il non vedere mai nulla di nuovo, il non accorgersi del cambiamento. La stupidità seppellisce nel già noto, nel ‘è sempre stato così’ e travolge in una povera vita, una vita istupidita, appunto, intontita, senza vigilanza. Lo stupore è rottura e irruzione e rivelazione. Chi si stupisce rompe con l’ovvietà e si spalanca alla conoscenza.

“La conoscenza è figlia dello stupore” dice Socrate. Coltivare la capacità di stupirsi è la condizione per imparare a pensare. Chi sa stupirsi partecipa del mondo, varca la sua soglia, ma stabilisce anche una distanza: la distanza dell’ascolto, della visione, del lasciar risuonare la domanda e l’implorazione che il mondo stesso leva e che vorrebbe fosse ascoltata e accolta e interpretata.

La pazienza dell’interpretare appartiene a chi sa essere presente, nel silenzio, al crescere della vita, rispettando la durata di ogni tappa e la distanza che il pudore vuole davanti all’unicità dell’altro. La parola, allora, sarà delicata consegna di una domanda che fa vivere perché mette in ricerca e dona la forza di andare oltre la soglia.

Si diventa, così, esploratori che rispondono ad una promessa capace sempre di stupire.

 Guidami Tu, candida luce benigna.

T’invoco. Guidami.

Veglia sul mio cammino,

non ti chiedo di vedere oltre e lontano,

un solo passo mi basta, dove posare il piede.

Non ti chiedo di vedere tutto l’orizzonte

ma tanta luce quanta ne serve al primo passo,

tanto coraggio quanto basta alla prima notte.

Guidami Tu, candida luce buona, luce eterna.

Principio di ogni cosa.

Luce increata che generi gli universi.

Intima Luce di ogni creatura che viene all’esistenza.

Luce intatta che indica la via

e che amerò per sempre.

Amen

 Card. J. H. Newman, Candida luce

Note

  • Aldo Rovatti, L’esercizio del silenzio
  1. Arthur Schopenhauer, Il Dilemma dei Porcospini
  2. Emmanuel Lévinas, L’asimmetria del volto
  3. Giovanni Pascoli, Il Fanciullino
  4. Luciano Manicardi, Lo stupore nel quotidiano
  5. Massimo Recalcati, Le mani della madre
  6. Tove Jansson, Mumin
  7. Umberto Galimberti, Parole nomadi
  8. Johann von Goethe, Faust