N.04
Luglio/Agosto 2018

Un apprendistato del Ministero.

La tappa degli studi teologici

L’apprendimento di uno “stile ministeriale”

Dopo la tappa discepolare, la nuova Ratio descrive il seguito del cammino formativo verso il presbiterato nella forma di una configurazione «a Cristo Pastore e servo», perché il futuro ministro, «unito a Lui, possa fare della propria vita un dono di sé e agli altri»[1]. È la tappa degli studi teologici o configuratrice. Al riguardo, ancora una volta, è importante riaffermare che si tratta della visione di un processo unitario che non si deve smarrire. Il cammino discepolare, infatti, è di per sé strutturale, intrinseco e onnipresente in ciascuno dei singoli momenti.

Nondimeno, nel procedere di tappa in tappa dovrebbe intravvedersi il concreto passaggio iniziatico dall’una all’altra. In particolare, dal radicamento nella progressiva conformazione a Cristo (tappa discepolare) dovrebbe sorgere il desiderio e l’esigenza propria del momento successivo: «l’apprendimento di una vita presbiterale sostenuta dalla capacità di offrire se stessi nella cura pastorale del Popolo di Dio»[2]. In sostanza, si tratta di una tappa nella quale, in qualche modo, illustrare e avviare progressivamente una sorta di apprendistato al ministero vero e proprio.

A questo riguardo il tema della carità pastorale, quale realtà specifica per indicare la forma della chiamata ad amare nel ministero ordinato a favore di una Chiesa locale, diventa il tratto qualificante. Ad esso si unisce opportunamente l’approfondimento di una spiritualità del prete diocesano, il suo particolare modo di sentire e di operare, in riferimento alla ricca tradizione che lo ha generato e alla comunione con il Vescovo e il Presbiterio a lui unito. Attraverso questo ineliminabile dinamismo nasce e si alimenta la vocazione al ministero, in ordine ad assumere in proprio lo “stile ministeriale” diocesano.

In tale luce, come sottolinea la Ratio, anche il conferimento dei ministeri (lettorato e accolitato), che tradizionalmente contraddistinguono questa tappa, diventano un momento decisivo del cammino. Ne manifestano, infatti, con evidenza per nulla formale, i tratti del futuro essenziale servizio della Parola e dell’Altare. «Il lettorato propone al seminarista la “sfida” di lasciarsi trasformare dalla parola di Dio, oggetto della sua preghiera e del suo studio. Il conferimento dell’accolitato implica una partecipazione più profonda al mistero di Cristo che si dona ed è presente nell’Eucaristia, nell’assemblea e nel fratello»[3]. Per quanto, purtroppo, poco sottolineata se non nella stessa titolazione dato alla tappa, per nulla secondaria allo scopo è la questione dello studio della teologia che, superando il rischio di una proposta astratta e disincarnata, permette invece una singolare appropriazione del vissuto spirituale personale, ecclesiale e culturale. È per queste vie che viene sinteticamente descritto il cammino che porta alla definitiva verifica della vocazione ministeriale e all’ordinazione diaconale, che apre l’ulteriore tappa di formazione.

I rischi di una tappa accomodante

Per l’esperienza vissuta, non è difficile riconoscere che il passaggio dalla tappa discepolare a quella configuratrice, dal Biennio filosofico al Quadriennio teologico, comporti anche qualche contraccolpo sul quale rimane opportuno vigilare nella proposta educativa. Alcuni possibili rischi, infatti, sono in grado di paralizzare o ritardare la grazia del cammino. Il primo, è quello di interpretare in modo narcisistico la propria elezione, sentendosi in qualche modo, arrivati e speciali, con nulla o quasi da imparare su di sé e dagli altri. Il tempo della formazione, in tal modo, rischia di essere solo un periodo di mera transizione verso la definitività, senza mai giocarsi in prima persona. Un secondo rischio è quello di confinarsi in relazione esclusiva ad un unico modello interpretativo (di prete, di Chiesa, di ministero, di lettura del mondo) e, correlativamente,  ad un unico testimone di esso, spesso idealizzando una figura pur decisiva della storia personale. È un rischio reale che può manifestarsi in tendenze di marca opposta, ma convergente nell’esito riduttivo della lettura del reale. Dimenticandosi di essere circondati da “una nuvola di testimoni” (Eb 12,1), si rischia di leggere e, in futuro, di entrare nella realtà in modo alquanto rigido e scomposto. Soprattutto il rischio è quello di vanificare la proposta di formazione seminaristica, intesa più come tassa da pagare o come necessario tunnel da attraversare, che un tempo favorevole per conoscersi, lasciarsi conoscere, mettersi in gioco, lasciare un effettivo primato a Dio.

Nondimeno, accanto a questo è da rilevare anche un rischio che va in una direzione opposta: quello di una formazione seminaristica subita in nome di una compiacenza formale al modello proposto, tuttavia priva di una sincera verifica e di una valorizzazione personale dei cammini intrapresi. Ci si accontenta, in tal modo, forse anche per timore di non mettersi o di essere messi troppo in discussione, di allinearsi meglio possibile a quanto richiesto, senza nessuna assunzione critica del vissuto come della proposta educativa.

La proposta del Seminario maggiore di Torino

Alla luce di quanto detto, sempre nell’intento di offrire una concreta esemplificazione, è interessante prestare attenzione alla proposta elaborata dal Seminario di Torino. Don Ferruccio Ceragioli, rettore della comunità, ne ha illustrato le linee fondamentali. «Anzitutto, credo di dover dire che la nostra scelta è stata quella, che abbiamo poi vista confermata dalla nuova Ratio al n.58, di personalizzare di più il percorso seminaristico, sganciandolo da quell’automatismo cronologico delle varie tappe che rischiava di non tener conto dell’effettivo cammino dei singoli. Questa impostazione è stata inizialmente accolta con difficoltà dai seminaristi, che però successivamente ne hanno colto il valore liberante anche per loro. Nel quadriennio, in ogni caso, si tenta di far intuire più profondamente il legame tra la vita di Gesù e il ministero del prete. L’importante è che il Gesù vero, quello che ci raccontano i Vangeli e che si dona a noi nell’Eucaristia, e non un Gesù astratto e vago, senza carne, senza corpo, senza storia, senza relazioni, senza affetti, diventi veramente sempre più il punto di riferimento assoluto della vita dei seminaristi».

Uno dei tratti innovativi e promettenti riguarda la composizione dell’equipe educativa. Oltre alla presenza del rettore, del vicerettore e del padre spirituale, all’équipe formativa partecipano in forma più allargata un confessore stabile, tre famiglie e tre religiose. «Le religiose abitano in un appartamento indipendente nel complesso del seminario e, continuando la loro vita religiosa (per esempio due di loro lavorano all’esterno del seminario, una come insegnante, l’altra in ospedale), condividono parti importanti della vita in comunità. Normalmente pregano insieme a noi, mangiano un pasto al giorno con la comunità del seminario e partecipano alle varie attività e ai vari momenti formativi portando la loro sensibilità femminile e di donne consacrate. Le famiglie, a loro volta, gestiscono insieme ai preti e alle religiose alcuni momenti di formazione portando tutta la ricchezza della vita laicale e condividono alcuni momenti significativi della vita della comunità. Queste presenze sono ben accolte da parte dei seminaristi che le considerano una ricchezza e contribuiscono a dare un’immagine di Chiesa in cui ogni componente del popolo di Dio con i suoi carismi specifici è coinvolta nella missione, compresa la missione di formare i futuri presbiteri».

L’apprendistato al ministero e il nodo dello studio della teologia

La finalità essenziale di questa tappa è indicata nell’«apprendimento della vita presbiterale». Al riguardo la scelta pedagogica fondamentale è quella di «aiutare a capire che la vita presbiterale non è un salire di categoria, un appartenere a una sacra élite di privilegiati, un occupare un ruolo di potere, ma è un servizio. Il prete mette la sua vita a disposizione del Signore per la vita e la fede dei fratelli. La vita del presbitero è una vita di servizio, di servizio a Gesù che ci ha chiamati per cooperare con lui a favore della sua Chiesa e degli uomini di questo mondo. Il clericalismo nelle sue varie forme è il grande nemico della vita presbiterale come, non a caso, ripete con insistenza papa Francesco. Se non c’è lo stupore grato di fronte alla chiamata che il Signore ci rivolge come a suoi amici chiedendoci di collaborare a pascere le sue pecore, se non si scopre la gioia di servire e non di farsi servire, non ci può essere autentica vita presbiterale».

Tra gli aspetti essenziali che caratterizzano questa tappa c’è il grande tema degli studi teologici. «Il nodo del rapporto tra vita spirituale e studio della teologia è delicato. Non è facile aiutare i seminaristi a capire come la teologia nutre la vita spirituale e come la vita spirituale può davvero animare e vivificare lo studio della teologia. Questo certamente richiede un grande sforzo e una grande collaborazione da parte tanto dei docenti quanto degli educatori del Seminario, anche perché la cultura ecclesiale diffusa non aiuta a percepire il nesso profondo tra le due dimensioni. Si tratta di riuscire a far intuire la necessità dello studio non solo per ragioni di ordine pastorale, pur di per sé già assolutamente imprescindibili (essere all’altezza delle persone che si incontrano, saper dialogare con tutti, poter predicare in modo non banale o superficiale …), ma anche per una necessità interna alla stessa fede: dobbiamo saper rendere ragione della speranza che è in noi non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Credo che anche la presentazione di grandi figure della storia della spiritualità cristiana possa essere d’aiuto a questo scopo, mostrando sia la teologia contenuta nella loro esperienza sia il loro desiderio di approfondire o di confrontarsi con la teologia».

La pratica pastorale e la formazione ai ministeri

In vista della formazione al ministero, la pratica pastorale assume più il senso di un esercizio vitale che la consegna del manuale di un apprendista stregone. Dal sabato pomeriggio alla domenica pomeriggio i seminaristi vivono un’esperienza «in una parrocchia diversa da quella di origine, con un coinvolgimento progressivamente maggiore nelle varie attività parrocchiali, soprattutto nella pastorale giovanile, ma non esclusivamente in essa. Durante la vita feriale in Seminario vengono proposte però anche altre attività riguardanti soprattutto due ambiti: la pastorale vocazionale (incontri con gruppi giovanili, scuole di preghiera …) e il contatto con i poveri (i migranti, i disabili, i malati, i senza fissa dimora …). Inoltre nelle tre estati del quadriennio, oltre alle varie attività parrocchiali, si propongono a tutti i seminaristi tre esperienze forti: una di carattere spirituale (un periodo in un monastero, il mese ignaziano …), una di carattere missionario (o con i nostri preti fidei donum o con qualche istituto missionario) e una di servizio (con malati, ragazzi a rischio …). L’obiettivo è di cercare di dare una panoramica ampia della missione della Chiesa e dei possibili campi di azione di un prete e di mettere in contatto i giovani con mondi che forse non hanno mai incontrato o che spesso hanno solo sfiorato superficialmente.

I ministeri, invece, «sono preparati con percorsi specifici sulla Parola di Dio per il lettorato e sull’Eucaristia per l’accolitato. I seminaristi li sentono però più importanti come tappe verso l’ordinazione che per il loro specifico significato. Credo che per una loro efficace valorizzazione anche nel cammino seminaristico sarebbe importante che potessero essere svolti anche da laici e acquisire una effettiva rilevanza nella vita delle comunità parrocchiali».

[1] Congregazione per il clero, Il dono della vocazione presbiterale, Paoline, Milano 2016, 68.

[2] Il dono della vocazione presbiterale, 69.

[3] Il dono della vocazione presbiterale, 72.