N.05
Settembre/Ottobre 2018

Biagio Antonacci. Mio fratello

Videoclip

Biagio Antonacci. Mio fratello

Biagio Antonacci nasce a Milano il 9 novembre 1963. Cresce a Rozzano, in periferia, nelle strade del suo quartiere e non trascorre molto tempo prima che inizi la sua passione per la musica. Mentre studia per diventare geometra, Biagio suona la batteria. Non smette di pensare alla sua più grande passione, sa di avere un talento musicale. Scrive canzoni e inizia a frequentare l’ambiente discografico milanese: nel 1989 ottiene il suo primo contratto discografico. Realizza così il suo primo album “Sono cose che capitano”. Il disco contiene il brano “Fiore”, che non lo fa passare inosservato.

Due anni dopo, pubblica il disco “Adagio Biagio” (1991). Il grande pubblico comincia a conoscere l’artista milanese. Il primo importante successo arriva solo un anno più tardi: il singolo “Liberatemi”, intenso e ritmato, gira l’estate con il Festivalbar e promuove l’album che porta lo stesso titolo. Prodotto da Mauro Malavasi, già arrangiatore e produttore di nomi illustri quali Lucio Dalla e Luca Carboni, l’album afferma Biagio Antonacci nella scena pop italiana.

Grande appassionato di calcio, tifoso interista, Biagio Antonacci trova posto nella formazione della Nazionale Italiana Cantanti che, capitanata dal veterano Gianni Morandi, promuove importanti manifestazioni con scopi benefici e di solidarietà.

Grazie all’esperienza con la Nazionale, Biagio conosce don Pierino Gelmini e viene a contatto con il suo impegno nel recupero di giovani emarginati: Antonacci si dedica attivamente alle iniziative della comunità. Nel 1993, si presenta al Festival di Sanremo con la canzone “Non so più a chi credere”: la sua prova ottiene un positivo successo di critica e di pubblico.

Biagio Antonacci è un artista istintivo, il cui segreto è unico quanto semplice: una costante ed inesauribile ispirazione! La sinergia tra la poesia e la melodia producono un risultato eccezionale.

Il nuovo singolo, estratto da “Dediche e manie”, racconta la storia di una famiglia siciliana che piange la partenza del primo figlio, deciso ad andarsene dalla terra natale per inseguire i propri sogni di gloria ed ambizione. Il perdono della famiglia farà sì che una scelta avventata diventi occasione di crescita.

Testo

Mio fratello

Mio fratello era forte ribelle e più bello di me
Avevamo una donna in comune

e una macchina in tre
Mi faceva conoscere gente che poi malediva
Mi parlava di stati sovrani e di nuove famiglie

Mio fratello rubava le sedie per stare più su
Mi diceva che tanta fortuna sarebbe arrivata
In un piccolo pezzo di terra mio padre pregava
Lo guardava negli occhi e temeva di averlo capito

Salvo l’uomo che bussa alla mia porta
Salvo l’uomo che canta alla finestra
Salvo l’uomo che scrive
Salvo l’uomo che ride
Salvo l’uomo e sarà un giorno di festa
Mai più mai più mai più mai più dolor

Mio fratello un bel giorno è sparito
E non ha ringraziato
C’è mia madre che ancora lo aspetta

per l’ora di cena
Lui non era cattivo

ma aveva un destino scolpito
Non lo cerco perché se lo trovo

lo ammazzo da me

Salvo l’uomo che bussa alla mia porta
Salvo l’uomo che canta alla finestra
Salvo l’uomo che scrive
Salvo l’uomo che ride
Salvo l’uomo e sarà un giorno di festa
Mai più mai più mai più mai più dolor…

 

L’autore presenta il tema della canzone: “Un tema forte che sento molto. È la storia di due fratelli che non sono uniti e si allontanano sempre di più; cercano di comunicare ma fanno fatica. È vero, a volte è difficile andare d’accordo, ma io ho mio fratello che lavora con me, siamo uniti, abbiamo la consapevolezza che è bello stare insieme. Ho ricevuto molti messaggi di persone che stanno vivendo un momento di distanza con i fratelli e questa cosa mi provoca molto dolore perché quando i fratelli non vanno d’accordo, i genitori soffrono. Mio padre prima di morire mi disse: ‘Mi raccomando, non litigare mai con tuo fratello’.

Questa canzone ci darà soddisfazione. Tanti fratelli cominceranno a riflettere. A volte si litiga per cose davvero inutili, poi magari s’intromettono mogli, mariti… Si discute, ma è importante dirsi le cose subito e non tenersi mai dentro niente di inespresso. Altrimenti poi si scoppia ed esplode il bubbone.

Mio fratello vuole essere una parabola del figliol prodigo 2.0”.

La canzone vede anche la partecipazione di Mario Incudine, cantautore che porta avanti la tradizione della musica popolare siciliana che duetta in siciliano, appunto, utilizzando la tecnica del cunto. Antonacci e Incudine danno voce a un pezzo che presenta sfumature bibliche, una moderna parabola: fratelli con lo stesso sangue, ma diversi percorsi. Arriverà il perdono?

Come capita per le storie bibliche, Mio fratello è una storia universale: racconta la storia di una e mille famiglie, in cui un fratello si perde e l’altro vive nell’attesa di vederlo tornare. Quando ritorna e bussa alla porta, la certezza del perdono è così forte da scacciare via il rancore del passato.

“Mio fratello un bel giorno è sparito e non ha ringraziato. C’è mia madre che ancora lo aspetta per l’ora di cena, lui non era cattivo ma aveva un destino scolpito, non lo cerco perché se lo trovo lo ammazzo da me”, canta Antonacci in quella che, alla fine, si trasforma in una storia di festa perché quando si perdona qualcuno è sempre un giorno felice, che prelude al cambiamento e che elimina ogni dolore.

Il videoclip

In un’intervista a “Che tempo che fa”, trasmissione condotta da Fabio Fazio, Antonacci circa il videoclip dice: “Il video è un capolavoro, lo posso dire perché non sono io il protagonista, è irripetibile. Ho chiamato Rosario una mattina dicendogli che mi sarebbe piaciuto fare un video con lui e suo fratello Beppe perché ci conosciamo da tempo e perché avrei voluto vederli insieme. Lui mi ha risposto: ‘Noi non facciamo mai tante cose insieme’, allora io gli ho detto di provare a sentire il brano. E’ rimasto molto colpito e ha fatto sentire il pezzo a Beppe che mi ha chiamato contento, dicendomi dell’amicizia con Mario Incudine. Beppe mi ha chiesto chi era il regista, io non lo sapevo ancora e lui, che è il vero attore, ha detto: ‘Ci penso io’. Così ha chiamato Gabriele Muccino. È stato un bellissimo regalo: è nato un corto”.

Ma la vera rivelazione di questo video è Mario Incudine, il cantautore di origini ennesi che, grazie a questa nuova collaborazione, arriva finalmente al grande pubblico.
Mario Incudine è stata una scoperta per me – dice Biagio Antonacci -, una persona che mi ha stimolato, mi ha aperto al mondo della musica popolare ma, soprattutto, a una cultura dell’amicizia potente e passionale. Un’amicizia che riesce a mescolare ed amplificare le varie culture, non solo musicali, ma anche mentali”.
Il mio rapporto con Biagio – dice Mario Incudine – è stato mediato da Placido Salamone, arrangiatore e direttore artistico del brano, che ha suggerito il mio nome quando cercavano una voce siciliana per il duetto. La grande intuizione di Antonacci è stata quella di aprire un brano pop alla musica siciliana, dove il cuntu si inserisce come un pezzo rap. D’altronde il cuntu è un rap ante litteram”.

Una parabola 2.0 

“Ed egli disse loro questa parabola: Un uomo aveva due figli… il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano” (Lc 15, 1s).

Due figli sono due fratelli. E la parabola entra nella nostra storia e si fa vicina, racconta quello che viviamo ogni giorno: una famiglia, i genitori e i fratelli, spesso così diversi, spesso in conflitto, ma animati dallo stesso desiderio di andare e di andare lontano. Uno lo fa rimanendo nelle mura di casa e l’altro esplorando il sogno di nuovi confini. Entrambi se ne vanno in cerca di se stessi, in cerca della vita. Ma c’è chi esce sbattendo la porta: il ribelle, lo scontento, colui a cui non basta la casa, colui che cerca sperperando, buttando via, prima delle cose, se stesso, le sue energie, la sua creatività, la sua vita. Il libero ribelle diventa un servo, disputa il cibo con le bestie, si ritrova in perdita.

Il poeta Rilke ricorda: “Sii paziente con tutto quello che rimane irrisolto nel tuo cuore. Sforzati di amare le domande, anche se ti sembrano porte chiuse a chiave o libri scritti in una lingua straniera. Non cercare le risposte. Non ti verranno date perché non sei ancora in grado di accettarle. Bisogna prima vivere ogni momento, ogni domanda e, un giorno, senza neanche accorgertene, ti farai strada da solo verso le risposte”.

La risposta si fa strada nel figlio-fratello: ritornare.

Potrebbe imbastire delle scuse, delle spiegazioni, potrebbe raccontare dei suoi desideri e delle sue paure. Ma a casa c’è chi non ha bisogno di parole perché non è stato fermo: ha cercato e atteso, ha pazientato e compreso.  Ha percorso una strada nell’anima e ha fatto suo uno stile che viene dall’alto: così ha imparato i passi del perdono, come fa Dio. Un perdono che non chiede spiegazioni, è dato e basta, non viene sancito con un decreto, ma con una carezza, con un abbraccio, con una festa. Senza guardare più al passato, senza rivangare ciò che è stato, ma creando e proclamando un futuro nuovo. Il perduto è ritrovato, ciò che era finito è rinato, la porta di casa è aperta.

Salvo l’uomo che bussa alla mia porta

Papa Francesco nei suoi interventi ribadisce che al cuore di ogni dialogo sincero c’è, anzitutto, il riconoscimento e il rispetto dell’altro. Da qui partono il perdono e la misericordia che sono espressione di eroismo, liberano dal risentimento e dall’odio e aprono una strada veramente nuova. Il perdono è lo strumento posto nelle nostre mani fragili per raggiungere la serenità che cerchiamo nelle relazioni. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza, la vendetta non è facile, chiede tempo, silenzio, preghiera, ma è l’unica condizione che riconsegna la pace che cerchiamo quando vogliamo incontrare noi stessi e l’altro nella riconciliazione.

Perché ci sia perdono bisogna ci siano due uomini.Bisogna che ci sia un uomo che ha il coraggio di bussare alla porta, che fa ritorno, che riconosce di aver compiuto scelte che non hanno costruito e che, per primo, si concede una nuova occasione: non vuole rimanere ingabbiato nell’errore commesso; non vuole che i suoi sbagli diventino la sua prigione. Ci vuole forza per ricominciare, è necessario lasciare un po’ di spazio alla speranza per comprendere che la vera avventura della vita, la sfida chiara ed alta, non è quella di fuggire dall’impegno, ma di osarlo.

A volte si tratta di tentare l’impossibile e sarebbe drammatico non farlo e rimanere legati per una vita intera alla misura di quel che si può. La speranza accende desideri di novità assoluta, fa alzare lo sguardo su orizzonti vasti che permettono di respirare profondamente. E solo la speranza, la virtù teologale, innamora dell’impossibile.

Bisogna che ci sia anche un uomo che ha il coraggio di aprire la porta, che non ha paura di concedere stima e fiducia, che non soffre di quel rigurgito che riporta sul tavolo del confronto sempre le solite questioni; che tenta di disarcionarsi da quella posizione che lo fa sentire migliore dell’altro e, quindi, autorizzato alla valutazione, al giudizio, all’onnipresente espressione “lo sapevo – te l’avevo detto”.

Forse un uomo così sa aprire la porta perché non l’ha mai chiusa definitivamente, perché ha scelto di eliminare i chiavistelli; è stato sulla soglia, ha mosso lo sguardo fino al punto più lontano, ha cercato e aspettato senza dar credito al rancore e al rifiuto che, nello sguardo, spengono lentamente e inesorabilmente la luce della speranza.

Bisogna che ci siano due uomini che, nonostante tutto, hanno ancora desiderio di essere fratelli.

Sarà un giorno di festa

Al desiderio di una vita piena, in festa, è legato un anelito insopprimibile alla fraternità che sospinge verso la comunione con l’altro, il cui volto non è quello del nemico o del concorrente, ma del fratello.

Essere fratelli significa riconoscere la molteplicità, la diversità, l’unicità come valori che mettono in campo l’accoglienza e la disponibilità al dialogo, cioè alla parola che passa tra due diversi.

Spesso nelle discussioni tra fratelli ricorre l’espressione “tu non sei come me; siamo proprio diversi”, come se ciò fosse l’ostacolo primo del dialogo, il muro che impedisce inesorabilmente ogni forma di comunicazione. Essere diversi non significa necessariamente essere distanti.

Dialogo e amore implicano che nel riconoscimento dell’altro come fratello vi sia l’accettazione della sua alterità.

Soltanto così è possibile fondare il valore della fraternità, della famiglia, della comunità: non pretendendo che l’altro si sottometta ai miei criteri e alle mie priorità, non “assorbendo” l’altro, ma riconoscendo valido ciò mi offre e celebrando quel dono nuovo che è. Altrimenti si rischia di vivere relazioni farcite soltanto di narcisismo, di mero imperialismo, di stoltezza, in cui lo scopo prefissato è quello di “addomesticare” il fratello.

Essere fratelli è possibile proprio nella misura in cui la diversità diviene una sfida positiva, una risorsa, un’occasione di complicità, di completamento, di curiosità, di sinergia. E’ esplorando il nuovo, che è il diverso dal già conosciuto, che si cresce, ci si arricchisce, si diventa migliori.

E’ come l’esperienza del bambino che impara a parlare: man mano dà il nome alle cose nuove che incontra e così diviene sempre più abile, padroneggia la lingua e si muove con autonomia e libertà.

Il fratello diviene la parola nuova che si intreccia con il mio vissuto e mi fa mettere in gioco tutto quel potenziale che, altrimenti, rimarrebbe inespresso.

Il fratello è colui che mi provoca ad avere un cuore aperto, capace di lasciarsi sorprendere ogni giorno dalla creatività, dai pensieri, dalla sincerità, dagli errori dell’altro.

Un cuore aperto, non sigillato in una specie di museo delle conoscenze acquisite, di metodi assodati in cui tutto è certo e perfetto.

Un cuore non stantio ma ricettivo e umile, dove il fratello può arrivare con i suoi cinque pani e due pesci sapendo di poterli condividere e moltiplicare in una solidarietà che costruisce la famiglia.

 

“In sostanza,

e proprio nelle cose

più profonde e importanti,

siamo indicibilmente soli,

e affinché uno possa consigliare

e anzi aiutare l’altro,

deve accadere molto,

molto deve riuscire,

una intera costellazione di cose

si deve realizzare

perché si ottenga

una volta lo scopo.

Ti ama davvero

chi ti obbliga a diventare

il meglio di ciò che puoi diventare”

 

  1. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. 1903