N.02
Marzo/Aprile 2021

Guadalupe Ortiz de Landázuri

Una donna guardata da Dio

È una strana, drammatica riunione di famiglia quella che va in scena tra il 7 e l’8 settembre 1936. Un uomo trascorre con una certa serenità la notte, in un carcere di Madrid, a parlare con la moglie e due figli. Eulogia, Eduardo e Guadalupe gli fanno compagnia nelle sue ultime ore: poco dopo, lui, militare, sarebbe stato fuciliato. Sono gli anni terribili della Guerra civile spagnola. Guadalupe, che non ha ancora vent’anni, è la più giovane, ma si rivela forte: soprattutto lei incoraggia il papà e impara intanto come sia un vero uomo che muore. 

Allora Guadalupe, cristiana ma non particolarmente devota, era solo una ragazza cresciuta tra la Spagna e l’Africa, rientrata da pochi anni in patria dove si era iscritta a Chimica: le piaceva, in certo senso, indagare l’infinitamente piccolo; trovare, tra le pieghe infime della realtà, la struttura sua propria. E, per farlo, non temeva le sfide, perchè all’epoca la percentuale di donne che si iscriveva all’Università era irrisorio. La aiutavano il carattere esuberante e la determinazione fortissima: ebbe un «gran cuore e un carattere energico, che cercava di dominare sforzandosi di esprimersi con dolcezza e garbo». Parrebbe – l’uccisione del padre – un evento cupo, una condanna della sua giovinezza. Frequenta tuttavia un collega di studi, Carlos, con cui comincia a uscire anche se lei «non aveva una particolare urgenza di sposarsi» e sembrava vedere molto oltre l’orizzonte tradizionalmente auspicabile per una ragazza di buona famiglia. Non passa troppo tempo, che quel rapporto si interrompe. Alle amiche, di Carlos Guadalupe diceva: «Così perfetto, così perfetto, è troppo!»: ad altre, sarebbe parsa una garanzia. Forse, tutta quella perfezione non rassicurava, però lei, che più tardi – donna di molte responsabilità – avrebbe sempre riso dei propri difetti, imparando a riconoscerli come una strada per andare a Dio e al prossimo nella verità di sé, cioè nell’umiltà. Le serviva qualcosa di diverso. E lo trova in una mattina in cui non lo cerca: in cui, anzi, pensa a tutt’altro. 

È una domenica del gennaio 1944 e Guadalupe ha 27 anni. Entrata in chiesa per la Messa, ricorderà sempre – di quella mattina – che si distrasse parecchio. Ma è proprio allora che qualcosa di inaudito, di tutto nuovo e sconvolgente si fa strada: «Intuì la vicinanza di Dio e più tardi disse che si sentì toccata dalla grazia». Distratta com’era, quella domenica – nelle sue distrazioni – semplicemente aveva accolto. L’esperienza è così sconvolgente che appena incontra un amico gli esprime il bisogno di parlare a un sacerdote. E l’amico le segnala Josemaría Escrivá de Balaguer, un prete spagnolo che guidava da meno di due decenni i primi passi di un nuovo cammino nella Chiesa, l’Opus Dei: cercare Dio nella vita ordinaria. Quella proposta, che raggiunge Gudalupe al termine di un incontro dove questi due caratteri forti non si erano risparmiati la franchezza dello scambio («Credo di avere la vocazione», sentenzia Guadalupe – «Questo non te lo so dire», le ribatte il sacerdote) segna tutta la vita: vocazione o no, era quello che lei voleva. La proposta – vicina alla sensibilità odierna – era allora dirompente e visionaria perché tornava a proporre una modalità di sequela che non chiedeva di lasciare ciò che si amava, ma esigeva lo si assumesse in rinnovata pienezza. Guadalupe si dà un tempo per conoscere e riflettere: ma in cuor suo decide in fretta. Il 19 marzo di quell’anno chiede di entrare nell’“Opera”: è tra le prime donne. Avrebbe lasciato un segno indelebile. 

Questo “segno” non poteva però cominciare dalla Chimica. Doveva essere un segno relazionale. Così a Guadalupe tocca farsi esperta anche nei lavori di casa: lavorerà, da quel momento, soprattutto in residenze femminili, come direttrice e animatrice della presenza dell’Opera. E le saranno date molte occasioni di sorridere di sé e delle proprie imperfezioni, lì a litigare con “l’orlo a giorno”, «in molte cose molto maldestra», «con una sicurezza perfino fastidiosa». Ammette: «Mi sto rendendo conto di difetti molto grandi che quasi nemmeno conoscevo […] mi pare che già non lo rifarò più, e dopo un minuto ci ricasco». Lei era l’opposto di quel suo innamorato perfettissimo: era, invece, ampiamente imperfetta. Ma generosa, pronta a rettificare, con un’esuberanza unica di cuore e di vita. E profondamente retta. Quando le troppe incombenze le fanno trascurare un po’ la preghiera, lei annota ma non perde la pace: in tutto Dio può essere servito. Allora importa poco quel che si fa: l’importante è farlo bene. Scrive a Josemaría Escrivá: «Che gioia poterle dire che sono qui, oggi con un incarico di direzione e domani all’ultimo posto». Lavorava molto (lo farà “missionaria” in Messico, e lo farà anche da dottoranda e da docente): ma al fondo di tutto «sapeva di essere guardata da [Dio] e dalla Beata Vergine Maria». 

Allora – ma non perché fosse naturalmente coraggiosa (come lo era stata in occasione della morte del papà o come lo fu quando, in un contesto difficile, rifiutò la pistola che le veniva proposta preferendole il pugnale, a suo avviso più idoneo a difendersi senza inutili rischi) – Guadalupe Ortiz de Landázuri poteva fare meraviglie anche in circostanze difficili: essenzialmente, dissimulando il proprio dolore perché agli altri restasse la gioia. Lo fa soprattutto quando, a Roma per un incarico di responsabilità, improvvisamente si sente male. A 40 anni, nel marzo 1957, le è diagnosticata una cardiopatia che si tenterà di trattare chirurgicamente nel corso degli anni, ma che non presenterà mai una remissione completa. Soffre di un male per cui sforzi minimi come salire qualche gradino azioni quotidiane e banali possono rappresentare un grave problema e indurre spossatezza: eppure lei non si ferma e non ci si spiega come possa fare tanto. Fino al 1° luglio 1975: quando una nuova operazione riesce bene ma, a distanza di alcuni giorni, la convalescenza si interrompe improvvisa per un’insufficienza respiratoria. 

Guadalupe muore il 16 luglio, ancora una volta vivendo una tappa decisiva in una festa mariana: dalla Madonna di Guadalupe che porta impresse negli occhi le immagini di coloro cui apparve, alla Madonna del Carmelo che promette protezione ed esorta alla preghiera. Guadalupe, coraggiosa per natura, alla fine era stata forte perché guardata da Dio e da Maria. E anche lei aveva imparato a guardare gli altri, a custodirli negli occhi, a tenerseli nel cuore e nella vita. “Intercedere” per lei era questa unione: concretissima e quotidiana. Dice un’ex alunna: «Aveva una forte personalità ed era una donna molto bella». Bella, però, lo era soprattutto per un altro motivo: intorno a lei «si creava un gran bel clima». E la sua risata era «più contagiosa – di una grave malattia». Guardata da Dio, nel suo “celibato apostolico” era diventata madre per molti. 

 

 

«O sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai» 

Josemaría Escrivá de Balaguer,

Amare il mondo appassionatamente, omelia, 8 ottobre 1967.

 

 

Guadalupe Ortiz de Landázuri nasce, ultima di quattro figli, il 12 dicembre 1916 a Madrid. Cresce tra la Spagna e il Marocco. Entrata nell’Opus Dei, apprende, per esigenze di apostolato, mansioni molto lontane dai suoi studi universitari in Chimica: dalle incombenze domestiche all’organizzazione di residenze universitarie. Ma sa ridere dei propri difetti e trae da tutto occasione per amare e lasciarsi amare. Fondatrice della presenza dell’Opera in Messico, è chiamata a Roma nel 1956: sarà una permanenza breve, compromessa dal manifestarsi di una patologia cardiaca. Guadalupe muore il 16 luglio 1975 ed è stata beatificata nel maggio 2019. Per conoscerla, si rinvia alla sezione su di lei del sito opusdei.org e a: Cristina Abad Cadenas, La libertà di amare. Gudalupe Ortiz de Landázuri, Ares, Milano 2019.